8. I profili problematici e le ambiguità dell’impianto giurisprudenziale in relazione alla
8.1. L’unitarietà della categoria del danno non patrimoniale a fronte di una pluralità d
Innanzitutto, occorre rilevare che uno dei passaggi cruciali delle sentenze del 2008 è quello in cui si afferma chiaramente che il danno non patrimoniale è categoria unitaria e generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. Le formule “danno morale”, “danno biologico”, “danno esistenziale” o, più genericamente, “danno da lesione di diritti inviolabili della persona” non individuano autonome sottocategorie di danni non patrimoniali, ma hanno un rilievo meramente descrittivo, servono cioè a descrivere tipi di pregiudizi non aventi carattere patrimoniale e, quindi, riconducibili alla previsione dell’art. 2059 c.c., letto in senso costituzionale. Le Sezioni Unite, dunque, negano recisamente l’autonomia delle varie figure di danno, che non potranno essere considerate categorie
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precettive, ma soltanto voci di danno, aventi rilievo meramente descrittivo, rientranti nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la quale, in un sistema bipolare qual è quello delineato dalle sentenze del 2008 e basato sulla contrapposizione danno patrimoniale/danno non patrimoniale, è l’unica categoria realmente precettiva.
E’ questo un primo profilo problematico in relazione alla funzione del risarcimento del danno non patrimoniale. Come visto nel Capitolo Uno, infatti, il problema della funzione, originariamente si era posto soltanto con riferimento al danno morale, quale unica figura di danno non patrimoniale riconducibile all’art. 2059 c.c. Nel momento in cui sono emerse altre figure di danno, come il danno biologico, il problema della funzione del risarcimento si era posto anche con riferimento a queste figure, le quali tuttavia godevano pur sempre di una loro autonomia rispetto al danno morale, tanto che il risarcimento del danno biologico era ammesso a norma dell’art. 2043 c.c. e non a norma dell’art. 2059 c.c. Il problema si è riproposto nel momento in cui venne elaborata la figura del danno esistenziale e, a maggior ragione, nel momento in cui la Cassazione, nel 2003, ha fornito una rilettura in senso costituzionale dell’art. 2059 c.c. A questo punto, però, il problema era quello di differenziare, sotto il profilo funzionale, le varie figure di danno, ontologicamente e storicamente diverse, che erano ricondotte all’art. 2059 c.c. Proprio perché la Cassazione, nel 2003, non aveva ancora negato l’autonomia delle diverse figure di danno risarcibili a norma dell’art. 2059 c.c., secondo la nuova interpretazione, si poteva ritenere che queste figure presentassero, anzi dovessero necessariamente presentare, tra loro, una qualche differenza, perlomeno sul piano funzionale, e non soltanto sotto il profilo meramente quantitativo. In assenza di differenze di carattere qualitativo incidenti sulla funzione delle diverse voci di danno, il rischio di duplicazioni di risarcimento sarebbe stato concreto. Ad esempio, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, la differenza tra le due figure di danno non poteva essere ravvisata soltanto nel fatto che il danno morale vale a ristorare il turbamento contingente, mentre il danno da perdita del rapporto parentale vale a ristorare la sofferenza che
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accompagnerà il soggetto leso per tutta la sua esistenza, in quanto in questo modo la differenza tra due voci di danno, che venivano dichiarate autonome e ontologicamente distinte, avrebbe dovuto essere ravvisata molto semplicemente nella diversa durata e quantità della sofferenza patita dal soggetto leso, profili questi che molto più coerentemente inciderebbero sulla misura del risarcimento e non sulla identificazione del danno. Per questo era del tutto naturale ravvisare una differenza sul piano funzionale, come ha fatto Franzoni105, il quale, all’indomani delle sentenze del 2003, aveva affermato che il risarcimento danno da lesione di diritti inviolabili avrebbe funzione solidaristico-satisfattiva, nel senso che il risarcimento varrebbe ad attribuire alla vittima una somma di denaro che le consente di godere di utilità sostitutive capaci di ricreare condizioni alternative a quelle pregiudicate; mentre il risarcimento del danno morale avrebbe funzione mista, punitiva e satisfattiva, configurandosi dunque come sanzione civile punitiva (con la particolarità, però, che mentre la funzione satisfattiva sarebbe sempre ravvisabile, la funzione punitiva ricorrerebbe solo nei casi più gravi, e quindi sarebbe eventuale). In questo modo, ravvisando una differenza sul piano funzionale, sarebbe stato perfettamente ammissibile il cumulo del risarcimento del danno non patrimoniale (inteso come lesione di interessi della persona di rilievo costituzionale) e danno morale, senza che ciò comportasse il rischio di duplicazioni risarcitorie. All’indomani delle sentenze di San Martino il problema si è riproposto, ma questa volta all’inverso. Se, infatti, dopo le sentenze del 2003 il problema era quello di individuare una qualche differenza, perlomeno sul piano funzionale, tra figure di danno, espressamente riconosciute come ontologicamente diverse ed autonome, ma tutte risarcibili ai sensi della stessa norma, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, dopo le sentenze del 2008 il problema è quello di stabilire se effettivamente sussista una differenza funzionale tra figure di danno, di cui viene espressamente negata l’autonomia ontologica e concettuale, e tutte risarcibili a norma dell’art. 2059 c.c. in quanto rientranti in un’unica categoria generale, quella del danno non patrimoniale.
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Se, dunque, fino alle sentenze del 2008, proprio l’autonomia ontologica tra le diverse voci di danno ricondotte alla categoria del danno non patrimoniale lasciava, quasi implicitamente, intendere che tra le stesse vi fosse una differenza funzionale, oggi invece il problema è quello di stabilire se questa differenza sia ancora riscontrabile nonostante sia stata negata proprio la loro autonomia ontologica. Le Sezioni Unite, infatti, risolvendo uno dei dubbi che si erano posti in seguito alle sentenze del 2003, hanno chiaramente affermato che “la formula ‘danno morale’ non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata” e l’intensità, così come la durata, di questa sofferenza “non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.” Dunque, viene espressamente escluso che il danno morale si differenzi dalle altre voci di danno sotto il profilo della durata o della quantità della sofferenza in cui esso si sostanzia. Con la conseguenza che costituisce duplicazione di risarcimento l’attribuzione congiunta del danno morale, inteso come sofferenza soggettiva in sé, e del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto “la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.”
Nulla si dice, invece, in ordine alla possibile differenza che potrebbe intercorrere sotto il profilo funzionale.
Ma così come non costituisce categoria precettiva il danno morale, allo stesso modo non costituisce categoria precettiva il danno biologico, e cioè il danno conseguente alla lesione del diritto alla salute. E, al riguardo, i problemi diventano ancora maggiori, soprattutto se si considera che ormai il danno biologico ha trovato una definizione normativa agli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, definizione che peraltro non viene circoscritta allo specifico ambito di cui si occupa il decreto legislativo (le assicurazioni private), ma viene ritenuta dalle Sezioni Unite suscettibile di generale applicazione “in quanto recepisce i risultati ormai
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definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale”. Il danno biologico viene, infatti, definito come "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito".
Il problema, in questo caso, è quello di stabilire come possa avere rilievo meramente descrittivo una figura di danno che costituisce oggetto di una definizione normativa106, la cui operatività, peraltro, per espressa previsione delle
Sezioni Unite, non è limitata, ma gode di generale applicazione. Inoltre, occorre rilevare che, se è vero che questa definizione recepisce i risultati di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è altrettanto vero che proprio questa elaborazione aveva da sempre configurato il danno biologico come distinto dal danno morale, tanto che in un primo tempo si era addirittura avanzata l’ipotesi che il danno biologico costituisse un tertium genus, distinto tanto dal danno patrimoniale quanto da quello non patrimoniale (da intendersi come danno morale). Nel momento in cui, però, il danno morale viene configurato come “sofferenza soggettiva in sé considerata”, secondo le Sezioni Unite, la differenza tra danno morale e danno biologico subisce un’attenuazione. Per cui, se la sofferenza soggettiva non degenera in patologia, sarà risarcibile solo il danno morale; se, invece, sono riscontrabili degenerazioni patologiche, allora è configurabile il danno biologico il quale ricomprende, come sue componenti, ogni sofferenza fisica o psichica. Con la conseguenza che costituirà duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale inteso come sofferenza soggettiva in sé considerata “sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo”. Il giudice dovrà sempre procedere ad un’adeguata personalizzazione del danno, anche quando si avvale delle tabelle, e dovrà considerare il danno biologico anche nei suoi aspetti dinamici, ricomprendendo
106 R. Pardolesi e R. Simone, Danno esistenziale (e sistema fragile): «die hard», in FI, 2009: “resta da
spiegare come possa ridursi ad un mera sintesi lessicale un istituto variamente regolato dal legislatore ordinario”.
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nello stesso quei pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita. Per cui, ancora una volta, si avrebbe duplicazione di risarcimento a fronte dell’attribuzione congiunta del danno biologico e del danno estetico e del danno da perdita o compromissione della sessualità, sempre che essi siano conseguenti alla lesione dell’integrità psicofisica.
E’ proprio questo, in definitiva, l’elemento che distingue il danno biologico dal danno morale e dal nuovo esistenziale. Il danno biologico presuppone sempre una lesione dell’integrità psicofisica, a fronte della quale si dovranno considerare, ai fini del risarcimento, le sofferenze ad essa conseguenti e le ripercussioni sul piano relazione e sociale, oltre che esistenziale. In assenza di una tale lesione, invece, non sarà configurabile il danno biologico. Per cui, vi è una differenza sul piano degli interessi lesi: il danno biologico presuppone sempre una lesione della salute e, solo in presenza di questa, assumerà rilievo la conseguente lesione di altri interessi inerenti la persona e incidenti sui profili relazionali-esistenziali della stessa (interessi che, peraltro, potrebbero essere ricondotti alla lesione del bene della salute se questo è inteso come ricomprendente anche gli aspetti dinamici, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). In assenza della lesione della salute, anche qualora dovessero essere pregiudicati questi interessi incidenti sui profili relazionali o esistenziali, non si potrà parlare di danno biologico. Sulla necessità dell’accertamento medico-legale si ritornerà oltre.
Infine, così come non godono di alcuna portata precettiva le due figure del danno morale e del danno biologico, allo stesso modo non gode di portata precettiva il danno esistenziale, il quale, d’altronde, nemmeno ha alle spalle quella lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che invece caratterizza le altre due figure di danno, trattandosi di una voce di danno prospettata soltanto agli inizi degli anni novanta e costantemente controversa. Le Sezioni Unite, peraltro, non negano il rilievo descrittivo che questa voce di danno, comunque, può rivestire: si può parlare di danno esistenziale per descrivere quei pregiudizi incidenti su profili esistenziali della persona, i quali daranno luogo a risarcimento a patto che essi siano conseguenti alla lesioni di diritti inviolabili della persona. Con la conseguenza che il
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danno esistenziale, seppure non avente, secondo le Sezioni Unite, autonoma rilevanza, né sotto il profilo ontologico né sotto quello concettuale, delinea comunque un tipo di pregiudizio diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico: non si tratta né della sofferenza soggettiva in sé considerata, né della lesione della salute, con tutto ciò che quest’ultima può comportare sul piano relazionale ed esistenziale. Si tratta, dunque, di un pregiudizio che viene in rilievo quando manchi un reato (dato che in questo caso la nuova accezione del danno non patrimoniale finirebbe per dare rilievo anche alle ripercussioni di carattere esistenziale) e quando manchi una lesione dell’integrità psicofisica (dato che in questo caso le ripercussioni di carattere esistenziale rappresenterebbero i profili dinamici del danno biologico), a patto che sussista la lesione di un diritto inviolabile e che l’offesa abbia superato una soglia minima di tollerabilità dando luogo ad un pregiudizio serio.
E’ evidente, dunque, che, nonostante la più volta affermata unitarietà della categoria del danno non patrimoniale, emergono dalle stesse parole delle Sezioni Unite, diversi tipi (o voci) di pregiudizio i quali, pur non godendo di autonomia concettuale ed ontologica, e quindi, pur non essendo sottocategorie, comunque presentano caratteristiche difformi che impediscono la riconduzione ad unità. D’altronde si tratta di “tipi sociali” di danno non patrimoniale, in quanto emergenti dalla realtà sociale e tipizzati in conseguenza di un processo giurisprudenziale che ha fatto loro riferimento per rispondere alle concrete esigenze di tutela della persona emergenti in un determinato momento storico107. Di ciò, peraltro, sono
pienamente consapevoli le Sezioni Unite, le quali, pur ribadendo che queste figure costituiscono “mere sintesi descrittive”, fanno riferimento alla generale applicabilità della definizione normativa del danno biologico e precisano che il danno morale, pur non essendo autonoma sottocategoria, descrive pur sempre “un tipo di pregiudizio”. Nel momento in cui, però, si nega la differenza ontologica tra questi tipi sociali di pregiudizi, il problema è quello di stabilire se vi sia una differenza
107 E’ quanto sostiene F.D. Busnelli, Le Sezioni Unite e il danno non patrimoniale, in Danno e responsabilità civile, 2013.
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funzionale, nonostante essi siano riconducibili ad un'unica generale categoria, qual è quella del “nuovo” danno non patrimoniale.