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Le novità introdotte dalle sentenze del 2003 e le questioni ancora aperte

Secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. fornita dalla Corte di Cassazione e confermata dalla Corte Costituzionale, dunque, la norma non può più essere interpretata nel senso di ammettere la risarcibilità del solo danno morale soggettivo conseguente alla commissione di un reato. Alla luce del dettato costituzionale, infatti, il danno non patrimoniale deve intendersi come la lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica dalla quale siano derivati pregiudizi non suscettibili di valutazione economica. Mentre, però, per la risarcibilità del danno morale è sufficiente che sia stato posto in essere un illecito integrante una fattispecie, anche soltanto astratta, di reato, per la risarcibilità del danno derivante da lesione di interessi inerenti la persona, è necessario che si tratti di interessi costituzionalmente rilevanti, di interessi che quindi trovano il loro fondamento in norme costituzionali. Il danno non patrimoniale che viene in questo modo a configurarsi è ontologicamente distinto dal danno morale, tanto che il giudice potrebbe condannare il danneggiante al risarcimento di entrambi, senza che ciò configuri una duplicazione di risarcimento e dovendo soltanto assicurare l’equilibrio tra le diverse voci di danno. Il danno non patrimoniale dev’essere, comunque, allegato e provato, anche per presunzioni, configurandosi come danno-conseguenza e non come danno-evento, da liquidare mediante il ricorso alla valutazione equitativa. In ogni caso, il danno non patrimoniale sarà conseguente ad una fattispecie di illecito che non si distingue da quella identificata dall’art. 2043 c.c. e che quindi dovrà necessariamente possedere tutti gli elementi nei quali si articola la figura generale di illecito extracontrattuale. A fronte di questa re-interpretazione dell’art. 2059 c.c., tuttavia, alcune questioni rimanevano ancora aperte. Innanzitutto, come detto in precedenza, si poneva il

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problema di stabilire se anche il danno biologico dovesse essere risarcito a norma dell’art. 2059 così come interpretato dalla Corte di Cassazione. E in questo senso si era orientata la Corte Costituzionale con la sentenza 233 del 2003.

In secondo luogo, anche se la categoria del danno non patrimoniale era stata configurata come categoria generale, non era chiaro quale valenza avessero le diverse figure di danno col tempo enucleate dalla giurisprudenza. La Corte Costituzionale, in particolare, aveva precisato che l’art. 2059 c.c. avrebbe una funzione “soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale”, per cui si poneva il problema di stabilire se le diverse figure di danno non patrimoniale, quale il danno morale soggettivo, il danno da perdita del rapporto parentale e gli altri danni non patrimoniali conseguenti alla lesione di diritti inviolabili della persona fossero categorie meramente descrittive o piuttosto categorie precettive. La questione ha, ovviamente, notevoli conseguenze pratiche ai fini della determinazione del quantum risarcitorio, in quanto se si accoglie la tesi secondo la quale si tratterebbe di categorie precettive, allora sarebbe del tutto conseguente una valutazione distinta delle diverse voci di danno; se invece si accoglie la tesi secondo la quale si tratterebbe di categorie meramente descrittive, allora si dovrebbe propendere per la valutazione unitaria.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito la differenza ontologica tra le diverse voci di danno considerate e, quindi, l’autonomia del danno morale rispetto al “nuovo” danno non patrimoniale. E tuttavia, con la sentenza 8828, la Cassazione ha affermato che “il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento.” Il che pone il problema di individuare una differenza

qualitativa tra il danno morale e il danno da perdita del rapporto parentale (o, più in

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essere ravvisata molto semplicemente nella quantità o nella durata della sofferenza determinata dall’illecito (turbamento d’animo transeunte o contingente in un caso, sconvolgimento permanente dell’assetto esistenziale nell’altro). E, come già detto nel Capitolo Uno e come si dirà più diffusamente in seguito, questa differenza qualitativa era stata ravvisata, in un primo momento, da Franzoni in un diversità della funzione del “nuovo” danno non patrimoniale rispetto al “vecchio” danno morale.83

Ma, allo stesso tempo, occorre rilevare che, con la sentenza 8827 del 2003, la Cassazione ha ammesso che, nonostante la diversità del “nuovo” danno non patrimoniale rispetto al danno morale e al danno biologico, non è escluso che “nell’ottica della concezione unitaria della persona, la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione - bensì opportuna, ma non sempre indispensabile - tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto (se una lesione dell’integrità psico- fisica sia riscontrata) e quanto per il ristoro dei pregiudizi in parola; ovvero, ancora, che la liquidazione del danno biologico, di quello morale soggettivo e degli ulteriori pregiudizi risarcibili sia espressa da un’unica somma di denaro, per la cui determinazione si sia tuttavia tenuto conto di tutte le proiezioni dannose del fatto lesivo.” Tra le varie voci di danno vi sarebbe, dunque, una diversità ontologica (nel senso che esse individuerebbero conseguenze diverse prodotte dallo stesso evento lesivo), ma questa non impedisce una valutazione equitativa unica.

In ogni caso, sempre secondo la sentenza 8827 del 2003, “la lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l’interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta

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al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.” Dunque, pur essendo affermata la diversità ontologica tra le varie voci di danno ed essendo quindi ammessa la condanna al risarcimento congiunto dei vari pregiudizi in concreto riscontrati, veniva rimesso al giudice il potere di garantire un “giusto equilibrio” e, al contempo, veniva riconosciuta la legittimità di una valutazione equitativa unica a patto che si tenesse conto di tutte le “proiezioni dannose del fatto lesivo”. Non era chiaro, in definitiva, se la categoria del danno non patrimoniale fosse una categoria unitaria o meno, con il conseguente problema di stabilire quale fosse la funzione del risarcimento e se, effettivamente, potesse essere ravvisata un’unica funzione.84 Queste incertezze, evidentemente, rendevano concreto il rischio di duplicazioni risarcitorie.

Inoltre le sentenze del 2003, pur non avendo escluso la configurabilità del danno esistenziale, considerando rilevante soltanto la lesione di interessi della persona di rango costituzionale, non avevano preso posizione sulla configurabilità della categoria del danno esistenziale come autonoma categoria di danno. Perciò, dopo le sentenze gemelle del 2003, una parte della giurisprudenza continuò ad ammettere il risarcimento del danno esistenziale, altra parte della giurisprudenza invece negò rilevanza a questa figura di danno. Certo, una volta ammesso il risarcimento di danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di interessi della persona costituzionalmente rilevanti, si poteva anche ritenere che la questione relativa alla configurabilità della categoria del danno esistenziale fosse una questione meramente nominalistica. Ma, in realtà, il generico richiamo ai principi

84 Al riguardo è significativo un passaggio della sentenza 8827 del 2003: “Deve anche dirsi che, tutte

le volte che si verifichi la lesione di un tale tipo di interesse [un interesse di rango costituzionale], Il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona”. Il che, ancora una volta, rende evidente l’esigenza di individuare una differenza qualitativa tra danno morale e danno non patrimoniale.

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costituzionali (e in particolare all’art. 2 Cost.) in materia di risarcimento del danno non patrimoniale non risolveva affatto tutti i problemi.

La giurisprudenza di merito aveva, infatti, ampiamente accolto la nozione di danno esistenziale ammettendo il risarcimento anche di danni che saranno successivamente definiti dalle Sezioni Unite “bagatellari”. Il problema, evidentemente, non si poneva con riferimento a quei casi in cui i giudici di merito invocavano diritti del tutto immaginari, come il “diritto alla felicità”, o ammettevano il risarcimento senza nemmeno individuare il bene giuridico leso dall’illecito, in quanto in questi casi veniva meno uno degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, il requisito dell’ingiustizia del danno. Il problema, piuttosto, si poneva con riferimento al caso in cui effettivamente l’illecito avesse inciso su interessi rilevanti della persona senza però superare una soglia minima di gravità. Si poneva, in definitiva, il problema di stabilire se, ai fini del risarcimento, fosse sufficiente un qualsiasi pregiudizio di interessi inerenti alla persona e, in qualche modo, riconducibili ai principi costituzionali, o se, invece, fosse necessario un pregiudizio di una certa entità di questi stessi interessi.

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