E’ evidente come la Cassazione, pur richiamandosi formalmente alle sentenze di San Martino, aveva sostanzialmente stravolto quei principi. Nei cinque anni seguenti alle pronunce delle Sezioni Unite, la Cassazione si era andata progressivamente allontanando da quelle statuizioni, con la conseguente difficoltà di individuare quale fosse effettivamente, a prescindere dai richiami formali, lo statuo del risarcimento del danno non patrimoniale. Nel tentativo di superare queste incertezze, nel 2014,
con la sentenza n. 1361141, la Sezione Terza tenta una mediazione tra quanto
statuito nel 2008 e quanto invece affermato dalla giurisprudenza successiva, cercando così di ridare coerenza al sistema del danno non patrimoniale.
Si tratta di una sentenza che, in realtà, sarà ricordata per altri motivi, in quanto essa interviene nel dibattito sul risarcimento del danno da morte, introducendo soluzioni del tutto innovative rispetto a quelle tradizionali. Tuttavia, la Cassazione, prima di affrontare la questione del danno da morte, che costituisce il fulcro della sentenza, si dilunga nella motivazione (decisamente ampia e ricca di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali) sul sistema del danno non patrimoniale, operando un raffronto tra le sentenze di San Martino e la giurisprudenza successiva e cercando di stemperare il contrasto interno alla Suprema Corte.
Innanzitutto, la Cassazione si richiama alla concezione tradizionale che negava la generale risarcibilità del danno non patrimoniale sul presupposto della insuscettibilità di valutazione economica degli interessi personali lesi, dichiarandola oramai del tutto superata, in quanto costituisce regola di diritto effettivo la ristorabilità del danno non patrimoniale. Soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, che ha sancito la centralità della persona e della tutela dei suoi valori, la coscienza sociale ha avvertito l’esigenza di non lasciare priva di ristoro la lesione di valori costituzionalmente garantiti.
141 Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361.
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Il ristoro di queste lesioni, secondo la Corte, non avrebbe funzione punitiva, né deterrente, essendo volta a compensare un pregiudizio non economico al fine di assicurare al danneggiato un’adeguata riparazione come utilità sostitutiva, ma senza che possa assumere funzione reintegrativa nemmeno delle sofferenze morali. Piuttosto il carattere non patrimoniale del diritto leso comporta che il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla esatta commisurazione del danno, per cui è necessaria la valutazione equitativa, diretta a determinare “la compensazione socialmente adeguata”, la compensazione che risulterebbe equa alla stregua del parametro della coscienza sociale.
La valutazione equitativa, che richiede l’esame di tutte le circostanze del caso concreto, pur presupponendo una tendenziale uniformità di base, deve comunque procedere alla personalizzazione del risarcimento e assicurare l’integrale riparazione del danno, o meglio, tendere con la maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento del danno. Proprio il principio dell’integrale risarcimento costituisce, secondo le sentenze del 2008, un principio cardine del sistema del danno non patrimoniale. Di conseguenza tutti gli elementi di cui si compone la categoria generale del danno non patrimoniale e che siano concretamente sussistenti dovranno essere presi in considerazione ai fini della determinazione del
quantum risarcitorio.
La categoria del danno non patrimoniale, come affermato dalle Sezioni Unite nel 2008, è categoria generale riguardante le ipotesi di lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica ed avente natura composita in quanto scindibile in una pluralità di voci meramente descrittive, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o danno esistenziale.
Con riferimento al danno morale, la Cassazione richiama quanto statuito nel 2008 dalle Sezioni Unite le quali hanno inteso il danno morale quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva o interiore, recependo la tradizionale concezione, ma ammettendone la rilevanza anche quando esso non sia transeunte e negando che esso configuri autonoma
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categoria di danno. La Cassazione, tuttavia, richiama anche gli interventi del legislatore successivi alle sentenze del 2008, con cui il danno morale è stato definito quale “sofferenza e turbamento dello stato d’animo”, ma anche quale “lesione alla dignità della persona”. Il riferimento è ancora una volta ai d.P.R. 37 del 2009 e 181 del 2009, ma, al contempo, la Corte specifica che la qualificazione del danno morale in termini di dignità morale o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, si desume anche dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, ed è già da tempo recepita dalla giurisprudenza di legittimità “che nel segnalarne l'ontologica autonomia, in ragione della diversità del bene protetto, attinente alla sfera della dignità morale della persona, ha sottolineato la conseguente necessità di tenersene autonomamente conto, rispetto agli altri aspetti in cui si sostanzia la categoria del danno non patrimoniale, sul piano liquidatorio”.
Di conseguenza, mentre i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore vengono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, dato che quest’ultimo ha una portata tendenzialmente onnicomprensiva, deve escludersi che il valore della dignità morale possa essere stimato in una mera quota minore del danno alla salute, così come deve escludersi il ricorso a meccanismi semplificativi di tipo automatico. Per la personalizzazione della liquidazione sarà necessario tener conto “della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, al fine di potersi essa considerare congrua e adeguata risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana”. Perciò, secondo la Corte, il danno morale deve ormai considerarsi non solo come mero patema d’animo, ma anche come lesione della dignità o integrità morale avente autonomo e specifico rilievo nell’ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche quando la sofferenza interiore non sia degenerata in danno biologico o in danno esistenziale.
Il danno biologico costituisce aspetto ulteriore e diverso dal danno morale, che, come quest’ultimo, concorre ad integrare il contenuto della categoria generale del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. ed ha oramai una definizione
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normativa dotata di valenza generale in quanto recepisce i risultati della lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, e ricomprende non solo gli aspetti dinamico relazionali, ma anche figure come il danno estetico e il danno alla vita di relazione.
Infine terza voce di danno non patrimoniale è il danno c.d. esistenziale. Al riguardo la Cassazione richiama le pronunce del 2008, ma precisa che, “al contrario di quanto da alcuni dei primi commentatori sostenuto, e anche in giurisprudenza di legittimità a volte affermato, deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza a fini risarcitori (anche) del c.d. danno esistenziale”. Ed infatti, quale sintesi verbale, gli aspetti del danno non patrimoniale non rientranti nell’ambito del danno biologico, in quanto non conseguenti a lesione dell’integrità psico-fisica, possono essere definiti esistenziali in quanto attinenti alla sfera relazionale della persona, autonomamente e specificamente configurabile quando la sofferenza e il dolore non rimangono allo stato interiore ma, pur non degenerando in patologie integranti il danno biologico, evolvono in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita. Il danno esistenziale è, quindi, a tutti gli effetti un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto e autonomo tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, con i quali concorre a formare il contenuto della generale ed unitaria categoria del danno non patrimoniale.
Dato che il danno esistenziale è privo di una fonte normativa, le Sezioni Unite lo hanno identificato sulla base della nozione dalle stesse delineata nel 2006: si tratta del “pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.”
Il danno esistenziale si ha, quindi, quando la lesione si riverberi sul danneggiato in modo da alterarne la personalità, inducendolo a cambiare stile di vita, a scelte di vita diverse, in senso peggiorativo rispetto a quelle che avrebbe adottato in mancanza dell’evento dannoso. E dato che questo aspetto era stato preso in
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considerazione dalle Sezioni Unite, si può, secondo la Cassazione, certamente affermare che “in base al principio di effettività è l'alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, lo sconvolgimento (il riferimento allo "sconvolgimento delle abitudini di vita" si rinviene già in Cass., 31/5/2003, n. 8827) foriero di ‘scelte di vita diverse’, in altre parole lo sconvolgimento dell'esistenza, a peculiarmente connotare il c.d. danno esistenziale, caratterizzandolo in termini di autonomia rispetto sia alla nozione di danno morale elaborata dall'interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale (e successivamente recepita dal legislatore) sia a quella normativamente fissata di danno biologico (a tale stregua cogliendosi una sicura diversità con quanto al riguardo indicato dalla norma del Codice delle assicurazioni).” E questo pregiudizio sarà pienamente configurabile anche in ipotesi diverse dal c.d. danno da perdita del rapporto parentale.
Ciò che conta è che questo pregiudizio si sostanzi nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. La Cassazione, in proposito, richiama l’art. 612 bis c.p. il quale facendo riferimento all’alterazione delle abitudini di vita, oltre che alla sofferenza interiore, dà un’indiretta conferma di questa interpretazione. Non costituisce danno esistenziale, invece, il pregiudizio che si concreta in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e "ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale", in stress o violazioni del diritto alla tranquillità o in altri diritti immaginari.
Ovviamente, la Corte ribadisce che il danno esistenziale è pur sempre danno- conseguenza e, in quanto tale, andrà allegato e provato con riferimento a fatti precisi e specifici del caso concreto.
Alla luce di questa disamina, la Corte conclude che “la diversità ontologica dei suindicati aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale impone che, in ossequio al principio (dalle Sezioni Unite del 2008 assunto ad assioma) della integralità del risarcimento dei danni nello specifico caso concreto subiti dal danneggiato (o dal creditore) in conseguenza del fatto illecito
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extracontrattuale (ovvero dell'inadempimento delle obbligazioni), essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro”.
Le varie voci del danno non patrimoniale, dunque, ricadono tutte all’interno di una categoria generale e unitaria e, pur avendo rilievo meramente descrittivo, sono dotate di autonomia ontologica e distinte tra loro, con la conseguenza che di ciascuna di esse si dovrà tener conto ai fini del risarcimento integrale.
Lo stesso, peraltro, secondo la Cassazione, avviene anche in materia di danno patrimoniale, il quale si riparte nelle voci del danno emergente e del lucro cessante, ciascuna delle quali, a sua volta, si compone di una pluralità di sotto-voci. Il carattere unitario del danno non patrimoniale, così come quello del danno patrimoniale, non comporta il rischio che determinate poste di danno restino prive di ristoro, in quanto le varie voci che compongono il danno non patrimoniale, sebbene aventi valenza meramente descrittiva, dovranno comunque essere prese in considerazione nella liquidazione dell’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale, nel senso che il giudice non potrà prescindere da tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno nel caso concreto. Viene così rispettato il principio dell’integrale risarcimento del danno, “non essendovi in realtà differenza tra la determinazione dell'ammontare a tale titolo complessivamente dovuto mediante la somma dei vari ‘addendi’, e l'imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci.”
Peraltro il principio dell’integrale risarcimento del danno non si pone in contrasto col divieto di duplicazioni risarcitorie, in quanto duplicazioni si hanno solo quando lo stesso aspetto sia stato computato due o più volte, sulla base di diverse ma meramente formali denominazioni, mentre duplicazioni non sussistono quando siano stati liquidati diversi aspetti negativi causalmente derivanti dall’illecito e incidenti sulla persona del danneggiato. Ciò che rileva non è il nome, ma solo il concreto pregiudizio allegato.
Ebbene se la sofferenza morale non rimane allo stato interiore ma si obiettivizza, degenerando in danno biologico o in danno esistenziale, essa non potrà essere risarcita più volte. In questo caso si può sicuramente affermare che il danno
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biologico assorbe il danno morale. Non necessariamente però il danno biologico assorbe il danno esistenziale, in quanto è necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice e se sia stato dato rilievo anche al radicale cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto. Anche nel caso del danno morale sarà ugualmente necessario verificare che la liquidazione sia stata estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale, dato che altrimenti questi aspetti dovranno essere necessariamente presi in considerazione ai fini del risarcimento.
Per quanto poi riguarda la valutazione equitativa, la Corte, con riferimento al danno alla salute, ha richiamato la necessità, più volte ribadita in giurisprudenza, di una “uniformità pecuniaria di base”, da contemperare con criteri di “elasticità e flessibilità”. In ragione della necessità di questo contemperamento, deve escludersi sia la possibilità di applicare in modo puro parametri rigidamente fissati in astratto, sia una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice.
L’equità è stata intesa dalla giurisprudenza di legittimità nel significato di “adeguatezza” e “proporzione”, volta ad eliminare le “disparità di trattamento” e le “ingiustizie”. A tal fine è stato individuato come parametro uniforme di riferimento il sistema tabellare, che costituisce strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale di cui all’art. 1226 c.c., al fine di pervenire ad una quantificazione che sia effettivamente rispondente ad equità, a patto che il giudice proceda ad una personalizzazione del risarcimento in considerazione delle circostanze del caso concreto.
Per il caso in cui il legislatore non abbia elaborato apposite tabelle, la Corte conferma la scelta delle Sezioni Unite di ritenere valido parametro di riferimento le Tabelle milanesi. Peraltro, la liquidazione equitativa sarà sindacabile in sede di legittimità solo nel caso in cui risulti non congruamente motivata. Così come sarà censurabile in sede di legittimità il mancato riferimento alla Tabelle milanesi come parametro di valutazione.
La stessa Corte di Cassazione, peraltro, non nega che le Tabelle milanesi presentano alcune perplessità, in quanto non prendono in considerazione il danno morale come
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lesione della dignità morale della persona, né precisano se, in sede di personalizzazione, possa essere superato il tetto massimo eventualmente fissato. Con riferimento a questo secondo problema la Corte sembra, tuttavia, propensa ad escludere l’operatività di questi limiti ogni qualvolta essi pregiudicherebbero l’integrale risarcimento del danno.
Sulla base di tutte queste considerazioni e, dopo aver ammesso il risarcimento del danno da morte, la Corte conclude che la categoria generale del danno non patrimoniale si articola in una pluralità di voci aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (che è da intendersi sia come patema d’animo che come lesione alla dignità morale della persona), il danno biologico e il danno esistenziale. Il risarcimento dev’essere determinato con valutazione equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e nel rispetto del principio dell’integralità del risarcimento del danno, per cui tutti gli aspetti di cui il danno non patrimoniale si compone dovranno essere presi in considerazione ai fini della determinazione del quantum risarcitorio. La considerazione dei diversi aspetti del danno non patrimoniale, ovviamente, esclude che possa configurarsi una duplicazione risarcitoria. Nella determinazione del danno biologico il giudice dovrà tener conto delle Tabelle milanesi quale parametro uniforme di riferimento, sempre però procedendo ad adeguata personalizzazione del risarcimento. Infine, secondo la Cassazione, costituisce danno non patrimoniale anche il danno da perdita della vita. La Corte, in definitiva, tenta di superare i contrasti interni alla Cassazione, mediante un adeguamento dei principi enunciati nel 2008 agli orientamenti successivamente emersi. Così, pur rimanendo ferma l’unitarietà della categoria del danno non patrimoniale, si afferma l’autonomia ontologica delle diverse voci in cui esso si sostanzia, con il conseguente dovere del giudice di prendere in considerazione ciascuno di questi aspetti, dato che solo così sarà assolto il principio dell’integrale risarcimento del danno. Inoltre, pur ribadendo il divieto di duplicazioni risarcitorie, la Cassazione impone di prestare attenzione alle circostanze del caso concreto e, allo stesso tempo, esclude che il danno biologico possa considerarsi sempre assorbente. Anzi, soprattutto nei casi in cui il danno morale sia configurabile come
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lesione della dignità morale, esso non potrà essere assorbito nel danno biologico, in quanto attinente ad un bene diverso. Questa nuova considerazione del danno
morale, secondo alcuni142, finisce per comprimere lo spazio destinato al danno
esistenziale, che sarà quindi configurabile solo a fronte di vite realmente stravolte, ma comunque non nega la possibilità di identificare quest’ultimo come pregiudizio autonomo. In quanto vi sia uno sconvolgimento dell’esistenza del danneggiato, sarà pur sempre configurabile il c.d. danno esistenziale, quale autonomo aspetto del danno non patrimoniale da prendere in considerazione ai fini della liquidazione. Questa pronuncia ha trovato ulteriori conferme in diverse pronunce successive, come la sentenza n. 2413 del 2014143, la quale afferma chiaramente che “sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile; pertanto è erronea la sentenza di merito, la quale a tali sottocategorie abbia fatto riferimento, solo se, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state risarcite due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli”; o la sentenza
20111144, in cui si ribadisce che “il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile «esistenziale», e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono componenti dell’unitario danno non patrimoniale che, senza poter essere valutate atomisticamente, debbono pur sempre dar luogo ad una valutazione globale”; o, infine, la sentenza 24473145, con cui la Sezione Terza ancora
una volta precisa che “Il carattere unitario del danno non patrimoniale preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di
142 A. Palmieri e R. Pardolesi, Di bianco o di nero: la «querelle» sul danno da morte, in FI, 2014. 143 Cass., 4 febbraio 2014, n. 2413.
144 Cass., 24 settembre 2014, n. 20111. 145 Cass., 18 novembre 2014, n. 24473.
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sofferenza patite dalla persona, che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie; resta però, in capo al giudice, l’obbligo di tenere conto di tutte le peculiarità del danno non patrimoniale, nel singolo caso, tramite l’incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione per cui è tenuto a verificare se i parametri delle tabelle in concreto applicate tengano conto - come accade per quelle di Milano - pur del c.d. «danno esistenziale», ossia dell’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno sconvolgimento dell’esistenza”, con conseguente piena conferma della rilevanza del danno esistenziale.
Capitolo Quattro.
Una possibile soluzione al problema della funzione.
1. I connotati del danno non patrimoniale a sei anni di distanza dalle sentenze di San