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Qui non affronteremo gli elementi problematici legati agli aspetti finanziari, alla disponibilità di personale, o di strutture, equipaggiamenti e spazi. Sono rilevanti, ma sarebbero i più semplici da risolvere nell’ipotesi che il Ministero volesse investire nello sviluppo delle competenze trasversali dei nostri laureati. Ci occupiamo solo degli aspetti problematici che incidono sulla natura e funzione della nostra offerta formativa e sul ruolo e profilo dei nostri docenti e dei nostri studenti. Non esistono problematicità particolari per le competenze trasversali “già insegnate”, tranne continuare a monitorare e valutare i corsi di studio, per accertarsi che davvero lo siano. Ne esistono invece sia per le competenze “direttamente insegnabili”, sia per quelle “supportabili”.

Problematicità legate alle competenze “direttamente insegnabili”

È molto difficile convincere i docenti responsabili dei corsi di studio a “sacrificare” cfu per aprire

ampi spazi curriculari associati a cfu riservati ad attività didattiche per competenze trasversali. In

effetti, i cfu sono pochi, le materie disciplinari sono molte, e ogni docente è comprensibilmente legato alle materie che insegna, e tende a considerarle “assolutamente imprescindibili” per la formazione di ogni futuro laureato nella sua disciplina. Difficile eliminare 36 cfu35 di tre o quattro materie disciplinari per dedicarli a “lingua inglese B2”, “certificazione MOS per excel®”, “principi, valori, e norme della parità di genere”, e simili. I rappresentanti degli studenti sono in larga misura d’accordo con i loro docenti: gran parte di loro desidera che i cfu siano – per lo più – direttamente associati all’area tematica che ha scelto di studiare. Cambiare queste convinzioni nella direzione di una

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Il numero è arbitrario, inserito solo a titolo di esempio; tuttavia, se sembra esagerato, si consideri che nel sistema universitario finlandese gli ECTS dedicati a competenze trasversali nelle lauree triennali sono, di legge, minimo 70 (sui 180 che, come in Italia, compongono la triennale).

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formazione meno orientata ai dettagli disciplinari e più orientata al mercato del lavoro richiede un lento processo di trasformazione culturale che va al di là del nostro orizzonte operativo.

Problematicità legate alle competenze “supportabili”

Per le competenze “supportabili” esistono almeno due ordini di problemi. Lo sviluppo di queste competenze è supportato (a) dall’approccio didattico utilizzato dai nostri docenti e (b) dalla partecipazione dei nostri studenti ad ampi ventagli di attività non direttamente legate alle tematiche dei loro studi e difficilmente ancorabili a cfu, se non in misura molto limitata. Per quanto riguarda (a): i docenti italiani, per lo più con laurea conseguita tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima degli anni ’90, sono stati formati a monte del cosiddetto digital divide e fanno parte della categoria che Eric Prensky – esperto di didattica per le nuove generazioni – ha chiamato digital immigrants, contrapponendola a quella dei digital natives, nella quale rientrano gran parte dei nostri studenti. Si sono formati per lo più con lezioni frontali tradizionali e studiando su libri di testo, pure tradizionali. Molti di noi, con l’eccezione di alcuni docenti nell’area pedagogica, non hanno mai usufruito di formazione specifica alla didattica. L’insegnamento l’abbiamo “imparato facendolo”, ispirandoci in larga misura all’esempio e ai buoni consigli dei nostri professori di un tempo. Per questa ragione utilizziamo soprattutto didattica frontale e libri di testo tradizionali e li consideriamo “il metodo didattico”, o comunque “un buon metodo”. Non solo non sappiamo, ma spesso non vogliamo usare altri approcci didattici più centrati su: 1) maggiore interazione, tanto tra docenti e studenti quanto degli studenti tra loro, sia in presenza sia su piattaforme digitali; 2) apprendimento guidato dalla pratica, con simulazioni, e ampio ricorso a esercizi e a soluzione di problemi; 3) corpus di studio eterogeneo non limitato a testi, ma comprendente giochi, podcasts, estratti di MOOC, video e altri prodotti multimediali reperiti da più fonti con l’aiuto attivo degli studenti. Questi metodi e materiali didattici sono più in grado di catturare e trattenere l’attenzione dei digital natives rispetto ai libri e alle lezioni frontali. Inoltre, possono migliorare l’accesso alla formazione da parte degli studenti atipici. Tuttavia, per imparare a usare efficacemente questi metodi e cambiare il nostro atteggiamento verso di loro servono i corsi di faculty development (qualsivoglia chiamati) che stanno germogliando in diverse università, e di cui si parla in altri tavoli di questo Convegno. In altre parole, per supportare alcune competenze trasversali dei nostri studenti dovremmo andare a lezione noi docenti. Qui si apre il primo aspetto problematico: è difficile rendere “obbligatori” questi corsi (se non per i ricercatori neoassunti); ma, se opzionali, come stimolare l’interesse e motivare i colleghi a farli, dato che richiedono tempo e impegno, e non comportano benefici diretti per la carriera? Il secondo aspetto problematico concerne la partecipazione degli studenti ad attività non direttamente legate ai loro studi, e non associate a CFU (se non in minima quantità). I nostri studenti sono già molto – talvolta troppo – pressati. Gli studenti tipici devono frequentare le lezioni e le esercitazioni e studiare molto; il poco tempo libero che gli rimane desiderano spenderlo in compagnia dei loro amici e dei loro

devices digitali (le due attività principali nel tempo libero dei giovani, secondo diversi sondaggi). La

gran parte di loro non ama dedicarlo ad attività “culturali” che, per quanto non “di studio” in senso classico, percepiscono legate alla loro università. Per gli studenti atipici la situazione è ancora più difficile: hanno famiglie da seguire, lavori da svolgere, disabilità che riducono la fruibilità di alcune attività. Il problema, quindi, è: una volta costruito un ampio ventaglio di attività culturali, artistiche, partecipative, che siano un fertile humus per lo sviluppo delle competenze trasversali “supportabili”, come convinciamo gli studenti a dedicarsi a queste attività con continuità, impegno, e in quantità non irrisoria? L’esperienza non solo italiana, ma europea, è che solo una frazione degli studenti – contenuta entro il 10% – usufruisce di queste attività.

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La dimensione europea

I tre problemi identificati (riconoscimento di cfu per attività trasversali entro i corsi di studio; formazione del corpo docente all’uso di tecniche didattiche innovative; coinvolgimento e partecipazione degli studenti in attività trasversali utili allo sviluppo delle loro competenze) non sono solo italiani. L’Europa cerca di affrontarli con indicazioni e linee guida. Si vedano, a titolo di esempio, le European Standards & Guidelines for Quality Assurance, emanate dai Ministri della

European Higher Education Area (EHEA) nel 2015, in particolare a p. 6 secondo paragrafo; il

documento politico rilasciato dall’ultima Conferenza dei Ministri EHEA (maggio 2018), ove si invita alla piena applicazione delle Linee guida 2015 per l’uso dei cfu; il primo dei dieci principi per il miglioramento del learning & teaching pubblicati dal Progetto Effect; il Position Paper della

European University Association (EUA), pag. 1 ultime righe; il documento di raccomandazioni dei Thematic Peer Groups EUA 2017, p. 9 e successive. Accogliendo queste raccomandazioni europee,

l’Anvur, con il progetto Teco-T (TEst delle COmpetenze: Trasversali), ha in fase di avanzato sviluppo tre test per misurare la variazione nel livello di competenza dei nostri studenti tra il primo e il terzo anno delle lauree triennali su tre macro-aree trasversali: numeracy, literacy, problem solving. Qui non approfondiamo tutte le azioni messe in atto dalla nostra Università per perseguire l’Azione C, Obiettivo B, della Pro3 16-18. È sufficiente ricordare, come presupposto, che abbiamo costruito una relativamente ampia offerta di percorsi culturali e formativi utili alle competenze trasversali “supportabili”, predisposto e cominciato a erogare i corsi opzionali di faculty development per i nostri docenti, offerto su piattaforma digitale corsi di formazione liberi e accessibili a tutti per le lingue straniere e per la cultura digitale, stiamo costruendo percorsi sulla parità di genere (con il supporto della Regione Lombardia). Ci soffermiamo, invece, su due strumenti inseriti in quel progetto che si sono rivelati innovativi, utili e di successo: le certificazioni tramite Open badge delle competenze acquisite e dei titoli di studio, e l’equipaggiamento di tutte le nostre aule con strumenti didattici tecnologicamente avanzati. Dato che i cfu sono una “moneta rara” e non è facile associare a un significativo numero di cfu le competenze trasversali “direttamente insegnabili”, e dato che gli studenti sono molto poco motivati a seguire, nel limitato tempo libero a loro disposizione, le attività e i percorsi offerti dall’università per lo sviluppo delle competenze trasversali “supportabili”, abbiamo pensato di adottare una nuova forma di certificazione, non necessariamente legata ai cfu ma

collegabile a essi: una “moneta comune” svincolata dai rigidi limiti ordinamentali del cfu e che possa

al tempo stesso certificare con tutta l’autorevolezza dell’istituzione universitaria le attività svolte dallo studente e le competenze da lui acquisite. Al tempo stesso, sia per evitare aggravi burocratici ai nostri uffici, sia per rendere la certificazione flessibile, trasparente e facilmente spendibile sui social media che tanta importanza rivestono per le attività di networking dei nostri studenti e laureati, ci siamo orientati nella direzione degli Open badge Mozilla, una forma di certificazione digitale che sta prendendo piede da alcuni anni. Rinviamo al sito Bestr per l’introduzione tecnica e funzionale agli Open badge. Dato che, nel 2015, usare gli Open badge per la formazione universitaria era un’idea nuova, gli Open badge disponibili nel 2015 non erano del tutto adatti ad assolvere la funzione che desideravamo attribuirgli: per esempio, non consentivano il collegamento bidirezionale con le carriere studenti caricate nei sistemi gestionali universitari (nel nostro caso, il software Cineca Esse3). Fortunatamente, nello stesso periodo in cui riflettevamo su questi temi siamo venuti a conoscenza della piattaforma Bestr per la produzione ed erogazione di Open badge sviluppata dal Cineca: lo stesso sviluppatore di Esse3. La collaborazione con Cineca e Bestr si è rivelata subito fruttuosa: gli Open badge di Bestr sono stati messi in grado di comunicare con Esse3, in modo da consentire tre operazioni fondamentali: a) se una competenza o attività certificata da un Open badge è associata a cfu nel piano di studi dello studente, quando lo studente riscatta il suo badge (cliccando

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sul link inviatogli da Bestr) i cfu entrano automaticamente nella sua carriera su Esse3, con notevole sgravio di lavoro amministrativo per i nostri uffici di gestione carriere; b) quando uno studente ottiene e riscatta un badge rilasciato e certificato dall’Università quel badge e quell’attività sono automaticamente caricate nella sua carriera così da comparire nel quadro “altre attività” del Diploma Supplement; c) Bestr può estrarre da Esse3 dati delle carriere studenti, come la destinazione e i cfu raccolti da uno studente nei suoi periodi di permanenza all’estero (esempio: Badge international student), o la media dei voti, il voto di laurea e il suo percentile rispetto ai laureati degli ultimi tre anni, l’essersi laureato regolare o no, e l’abstract della tesi di laurea per gli Open badge di Laurea. Le rappresentanze studentesche hanno accolto l’idea con entusiasmo fin dal primo momento, intravedendone l’utilità come possibile forma di riconoscimento delle loro attività extracurriculari e – un loro suggerimento – anche curriculari; i docenti, che inizialmente non attribuivano molta importanza alle nuove forme di riconoscimento, col tempo hanno imparato ad apprezzarla – tanto che la maggior parte delle produzioni di nuovi badge oggi avviene su proposta dei docenti stessi. Oggi, dopo che l’uso degli Open Badge Bestr si è diffuso come “moneta comune” per certificazioni curriculari e extracurriculari anche in altre università, Milano Bicocca è ancora l’Università che ha prodotto il maggior numero di badge (143), e quella che ne ha erogati di più ai suoi studenti (oltre 10.000). Molti sono legati a certificazioni linguistiche (dai livelli Cefr A1 a C1 di sei lingue; esempi: inglese b2; spagnolo c1) o informatiche (esempio: Badge Aica/Unimib per la cultura digitale), che sono tipici esempi di competenze trasversali “direttamente insegnabili”. Molti altri, e in significativa crescita anno dopo anno dal 2016 al 2018, sono stati erogati per la partecipazione ad attività extracurriculari utili per lo sviluppo di competenze trasversali “supportabili” (esempi: iBicocca Platinum; Moot Court finalist; Volunteer Experience; tutor d’orientamento). I risultati già conseguiti sono:

1) la partecipazione degli studenti a percorsi e attività per le competenze trasversali è significativamente aumentata: in tutto il 2016 abbiamo riconosciuto 2538 badge di quel tipo, mentre nei soli primi otto mesi del 2018 ne abbiamo erogati 3021, un aumento del 19% (che sarà ancora maggiore a fine 2018). Quindi, gli studenti riconoscono valore ai badge, e la presenza di un badge aumenta la loro motivazione a seguire quei percorsi

2) è significativo che siano stati gli studenti stessi a chiedere lo sviluppo degli “Open Badge di Laurea” (oltre 1500 già erogati): anche se le loro lauree sono già certificate dalla pergamena e dal Diploma Supplement, gli studenti considerano più “spendibile” e “visibile sul web” una certificazione rilasciata ufficialmente dall’Università tramite badge

3) le ore-uomo richieste ai nostri uffici amministrativi per la registrazione in carriera delle prove di lingue e di competenze informatiche, ormai automatizzate grazie all’associazione a cfu dei Badge per quelle competenze, si sono drasticamente ridotte

4) diverse altre università pubbliche italiane, sulla scia del successo ottenuto a Milano Bicocca, hanno cominciato a riconoscere Open badge con simili usi e fini (esempio badge linguistico Unito; esempio di badge linguistico Unipd; esempio di badge partecipativo Unipd; esempio di Badge di competenza trasversale Unitn; entro fine settembre saranno disponibili Badge di laurea Unipd analoghi a quelli Unimib)

5) la sensibilità verso le certificazioni tramite badge si è estesa gradualmente dagli studenti ai docenti: per esempio, uno dei fattori motivazionali con cui cerchiamo di incoraggiare i docenti a seguire corsi di faculty development è anche l’erogazione di certificazioni ufficiali tramite Open Badge (Esempi: Didattica per la Grande Aula Unimib; Teaching4Learning Unipd; Percorso Iridi Unito).

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La costruzione dei Badge di Laurea ha anticipato l’indicazione contenuta nel documento politico della Conferenza dei Ministri EHEA del maggio 2018, che sottolinea l’importanza di certificazioni digitali trasparenti, sicure, machine-readable e facilmente trasmissibili tanto per le competenze quanto per i titoli di studio dei nostri laureati. Se erogati da un numero elevato di Università, i Badge di Laurea nel medio termine potrebbero rivelarsi un utile strumento europeo per la visibilità, trasparenza e reciproco riconoscimento dei titoli (affiancando – con diversa destinazione d’uso e diverso grado di dettaglio – il Diploma Supplement Digitale). È pensando a questo possibile sviluppo che insieme a Cineca stiamo programmando, per il 2019, il prossimo “salto evolutivo” degli Open Badge, registrandoli con tecnologia BlockChain attraverso la piattaforma Cineca Open Ledger. Se già nella loro attuale forma gli Open Badge sono difficilmente falsificabili, una volta criptati in BlockChain saranno certificazioni virtualmente indistruttibili e infalsificabili – come vere e proprie valute digitali. Per il resto, il successo e la crescita dell’iniziativa nel lungo termine dipende dal suo diffondersi: se gli studenti non più di poche, ma di molte università italiane ed europee avranno le loro competenze, attività extracurriculari, e titoli certificati tramite Open badge, allora il mondo del lavoro si abituerà a cercare – e richiedere – queste forme di certificazione nelle fasi iniziali di selezione del personale per “competenze e titoli” (risparmiando sugli alti tempi e costi che accompagnano tali fasi). Così facendo, le aziende e le istituzioni che assumono i nostri laureati cominceranno a fornire i loro endorsement alle certificazioni stesse, raccomandando quelle che avranno trovato valide, utili e veritiere, e non raccomandandone altre meno solide. A lungo termine questo feedback diretto dal mondo dell’impiego ai titoli e certificazioni universitari potrà portare una ventata di rinnovamento nell’antico concetto di “reputazione” associato ai titoli provenienti da alcune università (e meno a quelli di altre), trasformandolo in modo da essere capace di reagire ai rapidi cambiamenti che attraversano la nostra società; potrà, quindi, contribuire con una misura indipendente, non autoreferenziale, e strettamente legata alle esigenze degli stakeholders, alla valutazione dell’efficacia didattica delle università.