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Michele Rostan (Delegato per il Benessere studentesco)

Università di Pavia

Tra i fattori che richiedono o sollecitano ma, pure, incoraggiano e favoriscono l’innovazione didattica, ci sono, tra l’altro, le relazioni che le università intrattengono con il mondo non universitario o – come dice il documento di presentazione del nostro Convegno – i “rapporti con la società”. Queste relazioni possono avere una natura economica, oppure non economica, o sociale, e molto spesso sono stabilite e mantenute grazie all’impegno individuale degli accademici nelle cosiddette attività di “terza missione”. In prima battuta, è possibile classificare le attività di terza missione di docenti e ricercatori in quattro categorie: 1) valorizzazione commerciale della ricerca o Academic Entrepreneurship; 2) ricerca su commissione, ricerca in collaborazione, consulenza e servizi o Academic Engagement; 3) valorizzazione e formazione delle risorse umane o Human

Resources Development; e 4) impegno pubblico e sociale o Public Engagement. Per avviare una

riflessione sul rapporto tra queste attività e l’innovazione didattica è innanzitutto necessario farsi un’idea di quanto le attività di terza missione siano diffuse. Se non lo sono, il loro impatto sull’innovazione didattica sarà debole o nullo. In secondo luogo, è utile sapere chi le fa e se si registrano differenze nel grado di impegno in queste attività tra docenti e ricercatori di aree disciplinari diverse. È possibile, infatti, che i diversi tipi di attività di terza missione siano diffusi in misura diversa nelle aree disciplinari cui appartengono gli accademici italiani. Nel nostro Convegno sono previsti tavoli disciplinari di discussione ed è, quindi, utile sapere se queste attività sono ugualmente importanti per tutti i tavoli. In terzo luogo, è importante individuare quali singole attività possano favorire o sollecitare l’innovazione didattica. I documenti preparatori del Convegno indicano alcune attività specifiche come più importanti di altre: il raccordo con il mondo della scuola e del lavoro, il rapporto con il territorio e, più in generale, con il contesto in cui si sviluppa la formazione degli studenti. Per valutare il possibile impatto positivo sull’innovazione didattica di queste attività è bene almeno sapere se esse siano diffuse o meno. Per rispondere a queste domande possiamo rifarci ai risultati di un’indagine sulle attività di terza missione degli accademici italiani che ho coordinato nell’ambito di un più ampio progetto di ricerca realizzato dalle Università di Firenze, Milano, Torino e Pavia. I risultati completi dell’indagine sono presentati in un rapporto di ricerca che è pubblicato dalla casa editrice il Mulino e chi è interessato può senz’altro prenderne visione.40 Oggi mi limito a segnalarvi alcuni risultati che mi paiono rilevanti per le finalità del Convegno. Nell’indagine abbiamo intervistato poco più di 5000 docenti e ricercatori attivi in 65 Università italiane. Gli intervistati costituiscono un campione rappresentativo dell’intera popolazione di riferimento per area disciplinare di afferenza e per area geografica sede dell’ateneo di appartenenza. Tramite le domande di un questionario abbiamo raccolto informazioni su una trentina di attività di terza missione poi raggruppate nelle quattro categorie che ho già menzionato: Academic

Entrepreneurship, Academic Engagement, Human Resources Development e Public Engagement. Il

primo risultato dell’indagine è che i docenti e i ricercatori delle università italiane fanno tanta

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Perulli A., Ramella F., Rostan M., Semenza R., Le attività di terza missione degli accademici italiani, Bologna, il Mulino, 2018.

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terza missione. Mentre solo un decimo degli intervistati non fa o fa poca terza missione, circa un terzo è moderatamente impegnato e poco più della metà è molto impegnato in queste attività. Qui, “moderatamente impegnato” significa che l’intervistato ha dichiarato di essersi impegnato abbastanza spesso in metà o meno della metà delle attività sottoposte alla sua attenzione in un arco di tempo di cinque anni; “molto impegnato”, invece, vuol dire che l’intervistato ha dichiarato di essersi impegnato abbastanza o molto spesso in più della metà delle attività sottoposte alla sua attenzione oppure di essersi impegnato molto spesso in almeno un’attività. Si può guardare a questo risultato in modi diversi. I più pessimisti vedranno il bicchiere mezzo vuoto, ponendo l’accento sul fatto che solo la metà degli accademici è fortemente impegnata nella terza missione. I più ottimisti vedranno il bicchiere mezzo pieno dicendo che quasi tutti fanno almeno qualcosa per la terza missione. Chi ritiene che la terza missione sia soprattutto un compito istituzionale delle università e non una mera attività svolta a titolo individuale si chiederà se dietro questo intenso impegno individuale nella terza missione ci sia una strategia istituzionale oppure no. È un tema importante da approfondire. In ogni caso, se riteniamo che l’impegno nelle attività di terza missione costituisca un canale di comunicazione con il mondo non universitario attraverso il quale – anche nell’attività quotidiana dei docenti e dei ricercatori – giungono stimoli e opportunità di innovazione didattica, ebbene possiamo dire che nel nostro Paese questo canale c’è. Esistono, però, diversi tipi di terza missione. Come detto, nell’indagine ne abbiamo distinti quattro. Analizzando separatamente l’impegno degli accademici in questi quattro tipi di terza missione siamo giunti a un secondo risultato. I dati che abbiamo raccolto mettono in luce l’esistenza di due categorie di attività: quelle ad alta e quelle a bassa partecipazione. La prima categoria comprende i tre tipi di attività – Academic Engagement, Human

Resource Development e Public Engagement – in cui chi s’impegna rappresenta la grande

maggioranza degli accademici, tra il 60 e il 70%. La seconda categoria comprende soltanto le due attività di Academic Entrepreneurship che abbiamo preso in considerazione – la domanda di brevetti e la creazione d’impresa – nelle quali è impegnata una minoranza di accademici, circa il 20%. Considerate nel loro insieme, dunque, le attività di terza missione non offrono tutte le stesse opportunità di innovazione didattica. Alcuni tipi di attività vedono un’ampia partecipazione di docenti e ricercatori e – ragionevolmente – offrono un’occasione di innovazione a un maggior numero di docenti e, probabilmente, anche di studenti. Altre, invece, offrono un’occasione di innovazione a un numero più limitato di docenti e, probabilmente, anche di studenti. Il terzo risultato riguarda le differenze disciplinari. Abbiamo, infatti, studiato come varia l’impegno nelle attività di terza missione secondo l’area disciplinare di afferenza degli intervistati. Illustro i risultati mostrandovi a quali aree disciplinari appartengono i docenti e i ricercatori che sono più impegnati in un determinato tipo di terza missione. Il coinvolgimento nei quattro tipi di attività di terza missione che abbiamo considerato appare assai differente tra gli accademici appartenenti alle diverse discipline. Nell’Academic Entrepreneurship il coinvolgimento è massimo tra gli accademici dell’area di ingegneria-architettura ed è forte tra quelli delle scienze matematiche, fisiche e naturali, delle scienze agrarie e veterinarie e delle scienze della salute. Debole o nullo nelle altre aree. Nelle attività di Academic Engagement si conferma la predominanza degli appartenenti all’area di ingegneria e architettura seguiti da quelli delle altre aree scientifiche. In questo tipo di attività, tuttavia, sono presenti in buon numero anche gli accademici delle scienze sociali. Nelle attività di

Human Resource Development la situazione è leggermente diversa. Un intenso impegno è più

diffuso tra ingegneri e architetti ed è meno diffuso tra gli accademici delle scienze matematiche, fisiche e naturali e degli studi umanistici, con gli accademici appartenenti alle altre aree disciplinari in posizione intermedia. Infine, nel Public Engagement, la situazione appare assai diversa rispetto agli altri tipi di attività. Qui, un impegno intenso è più diffuso tra gli accademici delle scienze sociali e degli studi umanistici. Finisco il mio intervento proponendovi cinque esempi di attività di terza

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missione che possono essere particolarmente rilevanti ai nostri fini. Il primo esempio riguarda la creazione di imprese, spesso nella forma di spin-off universitari, un’attività che ricade sotto l’etichetta dell’Academic Entrepreurship. Il secondo esempio riguarda un’attività compresa nel

Human Resources Development, cioè la progettazione di corsi di studio in collaborazione con

organizzazioni non universitarie. Per motivi diversi, entrambe queste attività sono importanti ai fini dell’innovazione didattica. La creazione di imprese è un’attività che coinvolge non solo docenti e ricercatori, ma anche laureati, dottori di ricerca, dottorandi e altre figure. È un’attività che richiede e utilizza non solo competenze disciplinari ma anche competenze trasversali. È un’attività che mette in relazione l’accademia e le imprese, la ricerca e il mercato. Anche la co-progettazione dei corsi di studio collega le università alle imprese, alle professioni, alla pubblica amministrazione e al terzo settore, e offre un’opportunità per ripensare la didattica e per tener conto delle richieste e dei suggerimenti che provengono dal mondo non accademico. Ebbene, queste due attività di terza missione sono poco diffuse. La fondazione di imprese o di spin-off coinvolge pochi accademici, circa il 10% del totale (anche se in alcune aree disciplinari sono quasi il doppio). Alla progettazione congiunta dei corsi di studio partecipa poco più di un sesto degli accademici (15,7%). Ci sono, invece, tre attività di nostro interesse che coinvolgono un maggior numero di docenti e ricercatori. Si tratta di attività dirette al territorio in cui ha sede l’università: a) la partecipazione a progetti diretti alle scuole primarie e/o secondarie; b) la collaborazione alla realizzazione di eventi o manifestazioni sportive o ricreative o culturali (mostre, musei, concerti, festival di divulgazione scientifica ecc.); c) la partecipazione a incontri, conferenze o attività formative. Queste attività – che ricadono sotto l’etichetta del Public Engagement – mettono in relazione i docenti e i ricercatori – ed eventualmente per loro tramite i dipartimenti e la università – con organizzazioni esterne (p. es. scuole e musei), ma anche con i cittadini e il pubblico in generale. Esse costituiscono un canale di comunicazione – spesso “a due vie” – attraverso il quale possono essere veicolate domande ma anche esperienze di innovazione didattica. Inoltre, esse offrono opportunità di coinvolgimento degli studenti universitari in attività esterne alle lezioni e all’università. Ebbene, poco meno del 30% degli accademici italiani è impegnato in progetti diretti alle scuole primarie e secondarie (27,8%). Il 30% collabora alla realizzazione di eventi o manifestazioni sportive, ricreative, culturali diretti al territorio (29,9%). Quasi il 60% prende parte come docente universitario a incontri, conferenze o attività formative dirette al territorio e alla comunità locale (57,8%). Insomma, nel nostro Paese l’impegno degli accademici nelle attività di terza missione costituisce un’effettiva opportunità per l’innovazione della didattica universitaria. La diffusione di quest’opportunità varia al variare del tipo di terza missione e dell’area disciplinare dei docenti e dei ricercatori. Oggi quest’opportunità è sfruttata solo in parte. La possibilità di coglierne maggiormente i frutti richiede che il legame tra attività di terza missione e innovazione didattica sia esplicitamente inserito nelle strategie degli atenei e nella pratica dei corsi di studio.

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L’innovazione didattica presso l’Università di Genova: