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ELEMENTI PER UN TENTATIVO D’INTERPRETAZIONE DEI CONTENUTI SEMANTICI DELLA TIPOLOGIA C.D PUDICITIA

LEPTIS MAGNA

ELEMENTI PER UN TENTATIVO D’INTERPRETAZIONE DEI CONTENUTI SEMANTICI DELLA TIPOLOGIA C.D PUDICITIA

«εἰπόντος δέ τινος ‘καλὸς ὁ πῆχυς,‘ ’ἀλλ᾽ οὐ δημόσιος’ ἔφη.»

Plut., Praec. Con., 142c

Giunti a questo punto, osservata le vicissitudini del tipo Pudicitia nei suoi sviluppi per fasi e tipologie, verificata in relazione a ciò la vicenda della sua diffusione in termini geografici e cronologici, analizzati infine alcuni contesti particolari in grado di fornire interessanti informazioni circa il suo impiego e le sue modalità d’esposizione, è il caso di provare a proporre qualche ipotesi di soluzione agli interrogativi che ci accompagnano, si può dire, fin dall’inizio di questa trattazione: quali sono le ragioni del successo di questa tipologia? Quale il suo significato? Quali contenuti erano per suo tramite consegnati all’osservatore? Quali aspetti della figura femminile erano messi in evidenza? In definitiva, appurato che il tipo si afferma nel contesto delle statue ritratto proprio in virtù, è evidente, del suo significato attributivo, quale doveva essere il suo contenuto semantico? E ancora, questo contenuto fu stabile nel tempo, o conobbe un’evoluzione? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Un tentativo di soluzione del problema deve passare necessariamente attraverso l’interpretazione di quelli che sembrano i due tratti qualificanti della tipologia, vale a dire il gesto, prima di tutto, ed in secondo luogo la foggia della veste. Andrà inoltre analizzato il tipo in relazione ai contesti d’uso ed alla destinazioni specifiche per esso prescelte, così come sarà essenziale comprendere quali fossero i personaggi che a questo tipo di autorappresentazione facevano riferimento e a quali ceti essi appartenessero. Ma abbiamo anche visto come sorprendentemente ampio e caratterizzato da alterne vicende sia il periodo in cui tale tipologia trovò impiego. La storia del tipo Pudicitia non si sviluppò affatto in maniera lineare, non si trattò di un’evoluzione per gradi da uno stato iniziale ad uno conclusivo, né la sua diffusione procedette in modo continuo ed omogeneo. Al contrario, si è visto come la sua vicenda si articoli attraverso momenti di grande successo e situazioni di declino,

170 migrazioni e diffusioni regionali, destinazioni d’uso e scelte d’esposizione assai differenti: nemmeno dal punto di vista morfologico il tipo si mantenne stabile!

Esistette allora un’identità semantica unitaria, una carica comunicativa comune alla Pudictia nel tempo e nello spazio, capace di vincolare il tipo e l’osservatore sempre ed ovunque ad un medesimo significato? Oppure questa tipologia fu capace di una tale flessibilità da essere in grado di adattarsi indifferentemente a vari contesti e spazi comunicativi senza mutare di forma ma facendosi carico di significati differenti? Si tratta di domande non banali e che non conoscono risposta univoca.

È il caso quindi, anche in questa situazione, di procedere seguendo gli sviluppi della tipologia fase per fase, osservando quali siano gli elementi di continuità e cercando di cogliere invece quali siano i tratti di originalità e di rottura propri di ciascuna di esse.

171

ORIGINI:

UR-FASE

Partiamo da principio, dunque. Abbiamo visto come a questa prima fase (o proto fase) di sviluppo della Pudicitia corrisponda una situazione piuttosto liquida, tale per cui l’appartenenza al gruppo (poiché di tipo, a rigore, non si può davvero ancora parlare), è determinata nella classificazione proposta in questo lavoro da un’attitudine e una gestualità comune a varie figure, non già da quell’insieme di tratti, anche formali, per cui è possibile definire come tale una tipologia. È forse in parte una forzatura interpretativa collocare la situazione determinata da questo stato di cose sullo stesso piano degli sviluppi successivi del tipo: tuttavia è indubbio che gli elementi fondamentali propri delle figure che sono qui definite di Ur-Pudicitia, siano comuni alle raffigurazioni più tarde del tipo Pudicitia e che le premesse anche semantiche siano, in parte almeno, comuni.

Prima di tutto, si è detto, il gesto: soprattutto l’osservazione dei contesti di provenienza relativi agli oggetti riconducibili a questa prima fase ha indotto Kleiner266 a definire la gestualità della Pudicitia

come «Gebärde des Sinnens und Trauerns». Tale interpretazione ha pesato in modo determinante su quelle che sono state le considerazioni espresse in passato riguardo anche a tappe successive della vicenda del tipo: l’idea di un suo legame essenziale con il mondo del lutto e con la manifestazione di dolore e raccoglimento si è imposta insomma come chiave di lettura privilegiata per la tipologia nel suo complesso.

Per la verità, volendo limitare la nostra riflessione alla fase di Ur-Pudicitia, non mancano tra le osservazioni portate a sostegno di tale ipotesi, alcuni elementi di sicuro interesse. È possibile raggruppare questi argomenti in due grandi categorie: è vero infatti da una parte, che la stragrande maggioranza degli esemplari riconducibili a tale proto fase proviene da necropoli e può essere legato con sicurezza ad una destinazione funeraria. Si tratta perlopiù di stele decorate di rilievo figurato, con l’eccezione di un solo esemplare di statua il quale purtuttavia risulta con una certa sicurezza essere riconducibile a contesto necropolico.

Dall’altra parte alcuni elementi propri della figura, quali il velo che copre il capo e la gestualità stessa cui spesso corrispondono espressioni sul volto di grande pateticità e tristezza accompagnate ad una leggera inclinazione del capo, hanno fatto pensare a forme di esternazione di dolore dinanzi alla morte all’interno del quadro emotivo di struggente ma composta malinconia che è tipica delle raffigurazioni funerarie di epoca tardo classica. Cosa quest’ultima, peraltro, senza dubbio vera: meno automatico è però il passaggio che ha portato a partire da questi elementi alla deduzione dell’esistenza di un legame univoco intercorrente tra attitudine e gesto da una parte e mondo del lutto e del dolore dall’altra.

172 In effetti vi sono evidenze significative che sembrano dimostrare come tale gestualità potesse accompagnarsi a contesti che con l’ambito funerario non avevano nulla a che fare.

In particolare mi sembra importante citare a questo proposito il caso di un rilievo inserito nel catalogo allegato a questo lavoro267 ma assente invece nelle considerazioni di tutti gli studiosi che fin qui si sono

occupati dell’argomento. L’esemplare è datato alla prima metà del IV sec. a.C., fu rinvenuto sul monte Pentelico ed è conservato oggi presso in Museo Archeologico Nazionale di Atene: cronologicamente, dunque, risulta perfettamente concomitante alla fase discussa in queste righe. Si tratta, come chiarisce l’epigrafe268, di un oggetto di natura votiva, dedicato da tre personaggi, Telefane, Nicerato e Demofilo,

«alle ninfe». L’occasione della dedica non è purtroppo specificata e ciò ci impedisce di chiarire meglio quale fosse la precisa destinazione dell’oggetto.

La rappresentazione figurata, inquadrata all’interno di una cornice architettonica piuttosto semplice, è piuttosto chiara: sulla destra, volti verso il centro e raffigurati in proporzioni ridotte rispetto agli altri soggetti, sono le persone dei dedicanti; a questi si fanno incontro, nell’ordine, a partire da destra, Pan, Ermete e, velato capite, quelle che devono essere identificate come tre ninfe, una per dedicante, le destinatarie ultime cioè dell’offerta. La composizione è di per sé assai interessante, con i due gruppi di tre figure contrapposti ed in proporzioni differenti a dividersi i lati della raffigurazione; al centro, quasi mediatori ed intercessori tra essi, le figure di Pan ed Ermes. I tre personaggi femminili, poi, cadono esattamente al di sopra della parola «ΤΑΙΣ ΝΥΝΦΑΙΣ» che corre sull’iscrizione sottostante il rilievo: l’identificazione è dunque, pure in mancanza di attributi specifici, pressoché certa. Proprio su queste ultime figure conviene concentrare la nostra attenzione: almeno la prima e la terza di queste, infatti, si offrono all’osservatore nell’attitudine e nel contegno che possiamo senza indugi ricondurre a quel che abbiamo definito dell’Ur-Pudicitia. La terza, pure in atteggiamento ed abito analoghi alle altre, si presenta, forse perché leggermente coperta dalle altre due, in uno schema più generico e non affine alla Pudicitia almeno per quanto riguarda la posizione degli arti superiori.

Ebbene, quel che mi preme qui sottolineare, è la lontananza di questo rilievo tanto per quanto riguarda la destinazione, quanto per quanto riguarda la situazione raffigurata, da contesti legati al mondo della morte, del lutto o del dolore. Eppure la modalità di rappresentazione delle figure femminili è del tutto analoga a quella delle stele funerarie coeve che avevano suggerito a Kleiner la già citata definizione del gesto della Pudicitia.

Che si tratti piuttosto di una posa, un’attitudine ed una gestualità connesse in maniera più generale alla raffigurazione della donna, priva cioè di qualsiasi connotazione di carattere specificamente legato solo e soltanto a determinati contesti? Cerchiamo di approfondire meglio.

Un elemento che spesso è stato chiamato in causa a sostegno della destinazione funeraria e dell’interpretazione di queste figure nella chiave della manifestazione di lutto e cordoglio è il fatto che

267 Vedi catalogo, nr. 3.

173 esse, se non tutte per lo meno nella la grandissima maggioranza dei casi ed in qualsiasi periodo, si presentino all’osservatore indossando un velo.

Jeremias269, nel suo ormai datato ma non privo d’interesse lavoro di approfondimento sulla storia

antica di questo indumento femminile, distingueva per quanto riguarda il mondo classico, tra Braut- e

Trauerschleir, come se il fatto che una donna lo vestisse comportasse automaticamente una sua

connotazione in un senso oppure nell’altro. Ed in effetti l’equazione per cui velo e contesto funerario denotano ipso facto lutto, è stata tra le considerazioni su cui è stata fondata l’interpretazione “kleineriana” del tipo Pudicitia.

In verità, a ben vedere, il velo appartiene in modo ben più generale e privo di tali connotazioni all’abbigliamento femminile nel suo complesso. E ciò risulta attestato già a partire dall’epica omerica, senza che faccia alcuna differenza il fatto che la donna (o la divinità) che si trovi ad indossarlo sia nella condizione di rientrare necessariamente nella categoria di sposa o di Klageweib e certamente senza che a questa condizione sia fatto il minimo riferimento270. Proprio per il carattere paradigmatico e, in

certa misura, prescrittivo, che l’opera di Omero mantenne certamente anche in età classica, soprattutto in riferimento determinati costumi, conviene, per fugare ogni dubbio su questo punto, passare in rassegna i pochi passi dell’Odissea271 in cui il «sacro vate» fa menzione del velo in relazione

a figure femminili, utilizzando, per designare tale capo di abbigliamento, indifferentemente le parole «καλύπτρη» o «κρήδεμνον »272. Intendiamoci: non si vuole qui istituire un nesso diretto tra narrazione

omerica e raffigurazioni della Pudicitia di epoca tardo classica, bensì nel contesto di un quadro culturale di riferimento del quale anche Omero continuava certamente ad essere parte e suggerire proposte di possibile sviluppo d’indagine che da tali presupposti traggano spunto.

 Lo indossano le mogli degli invitati al banchetto di Menelao in Sparta (Od., IV, 622-623):

«οἱ δ᾽ ἦγον μὲν μῆλα, φέρον δ᾽ ἐυήνορα οἶνον: σῖτον δέ σφ᾽ ἄλοχοι καλλικρήδεμνοι ἔπεμπον»

«Portavano pecore e vino che dà vigore,

o pane che avevano dato loro le mogli dai bei veli.»

 Lo indossa Calipso, ninfa immortale, laddove si dice (Od., V, 228-232):

«ἦμος δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

269 Jeremias 1931, pag. 48.

270 Per una trattazione completa delle fonti letterarie su questo argomento si veda l’opera benché datata da

questo punto di vista tuttora valida, Studniczka 1886, pag. 126 ss.

271 Traduzione a cura di G. Paduano, Odissea, Torino 2010.

174 αὐτίχ᾽ ὁ μὲν χλαῖνάν τε χιτῶνά τε ἕννυτ᾽ Ὀδυσσεύς,

αὐτὴ δ᾽ ἀργύφεον φᾶρος μέγα ἕννυτο νύμφη (Calipso), λεπτὸν καὶ χαρίεν, περὶ δὲ ζώνην βάλετ᾽ ἰξυῖ

καλὴν χρυσείην, κεφαλῇ δ᾽ ἐφύπερθε καλύπτρην.»

«Quando al mattino riapparve l’Aurora dalle dita di rosa, subito Odisseo indossò la tunica e il manto,

e la ninfa (Calipso) indossò un ampio manto candido, sottile, grazioso; sui fianchi cinse una fascia

bella, dorata, e mise sul capo il velo.»

 Leukothea dona ad Odisseo il suo velo magico, perché raggiunga indenne la terra dei Feaci (Od., V, 346-250): «τῆ δέ, τόδε κρήδεμνον ὑπὸ στέρνοιο τανύσσαι ἄμβροτον: οὐδέ τί τοι παθέειν δέος οὐδ᾽ ἀπολέσθαι. αὐτὰρ ἐπὴν χείρεσσιν ἐφάψεαι ἠπείροιο, ἂψ ἀπολυσάμενος βαλέειν εἰς οἴνοπα πόντον πολλὸν ἀπ᾽ ἠπείρου, αὐτὸς δ᾽ ἀπονόσφι τραπέσθαι»

«Prendi questo velo, mettilo sotto il tuo petto: è immortale, e non devi temere di soffrire o morire. Ma quando con le braccia avrai toccato terra,

lo scioglierai da te e lo getterai nel mare color del vino, lontano dalla terraferma e girando la testa.»

 Lo tolgono le ancelle di Nausicaa prima di giocare a palla (Od. VI 99-100):

«αὐτὰρ ἐπεὶ σίτου τάρφθεν δμῳαί τε καὶ αὐτή, σφαίρῃ ταὶ δ᾽ ἄρ᾽ ἔπαιζον, ἀπὸ κρήδεμνα βαλοῦσαι »

«Ma dopo che Nausicaa e le ancelle furono sazie di cibo, si tolsero i veli e giocavano a palla.»

175 «ὣς ἔφατ᾽, αὐτίκα δὲ χρυσόθρονος ἤλυθεν Ἠώς. ἀμφὶ δέ με χλαῖνάν τε χιτῶνά τε εἵματα ἕσσεν: αὐτὴ δ᾽ ἀργύφεον φᾶρος μέγα ἕννυτο νύμφη, λεπτὸν καὶ χαρίεν, περὶ δὲ ζώνην βάλετ᾽ ἰξυῖ καλὴν χρυσείην, κεφαλῇ δ᾽ ἐπέθηκε καλύπτρην.»

«Così diceva, e subito sorse l’Aurora dal trono dorato. Mi fece indossare la tunica e il manto,

e lei indossò un ampio manto candido sottile, grazioso; sui fianchi cinse una fascia bella, dorata, e mise sul capo il velo.»

Insomma, nessuno specifico riferimento a contesti particolari: dee, ninfe, maghe, spose, ancelle, tutte queste donne indossano il velo senza che esso sia connotato in alcuna maniera se non come parte di un generico abbigliamento femminile, l’equivalente del maschile «χλαῖνάν τε χιτῶνά».

Nell’Atene classica le cose non ci risultano essere state particolarmente differenti: il velo, anzi, fa parte integrante del repertorio di vestiario che conviene una giovine o una donna dabbene indossi273. È la

norma, non l’eccezione, né la sua presenza è legata a situazioni di lutto o al fatto che la donna in questione sia o meno sposata.

Al contrario: è interessante constatare come, in un passo delle Fenicie (Ph., 1485-1492)274, sia proprio

la dismissione del velo ad accompagnarsi all’esibizione di un lutto e di una sofferenza particolarmente intensi, per cui la donna, abbandonato l’abito “civile”, si trasforma addirittura in quella che Antigone stessa definisce una «baccante dei morti»:

Antigone: «οὐ προκαλυπτομένα βοτρυχώδεος ἁβρὰ παρηίδος οὐδ᾽ ὑπὸ παρθενί- ας τὸν ὑπὸ βλεφάροις φοίνικ᾽, ἐρύθημα προσώπου, αἰδομένα φέρομαι βάκχα νεκύ- ων, κράδεμνα δικοῦσα κόμας ἀπ᾽ ἐ- μᾶς, στολίδος κροκόεσσαν ἀνεῖσα τρυφάν, ἁγεμόνευμα νεκροῖσι πολύστονον. αἰαῖ, ἰώ μοι.»

Antigone: «Nessun velo

273 Ehrenberg 1951, pag. 203; Scholl 1996, pag. 169, nota 1148: «Für die meisten Frauen war es üblich ,

verschleiert zu gehen.»

176 sulla mia guancia tenera, ombreggiata di riccioli.

nessuna vergona se sotto le palpebre arrossisce il mio volto virginale.

Baccante dei morti mi sento trascinata via. Ho tolto ogni velo dai miei capelli,

ho sciolto la mia veste sfarzosa colore del croco, e guido la processione dei morti, straziata.»275

Due cose sono qui da sottolineare: da una parte il velo non pare aver alcun legame specifico con la sfera del lutto, all’opposto il fatto che venga tolto è collegato a manifestazioni esteriori di profondo turbamento emotivo che comportano una deviazione rispetto alla norma convenzionale. Il velo è insomma parte integrante del vestiario di una donna come deve essere all’interno del quadro tradizionale di una società ben ordinata, il cui capovolgimento è rappresentato dal riferimento al contesto bacchico del tiaso e delle baccanti. Dall’altra il suo accostamento alla «veste sfarzosa colore del croco» sembrerebbe alludere alla pertinenza del velo a ben altro ambito, quello cioè della bellezza femminile. Su quest’aspetto potremo tornare più avanti.

Guardiamo ora meglio alla gestualità delle figure. Certamente in questo senso un legame con la sfera matrimoniale manifestato nell’interazione tra gesto e velo sussiste, nel caso però che si tratti di quella che viene definita anakalypsis, il disvelamento rituale della sposa nel corso della cerimonia nuziale, gli

anakalypteria appunto. L’iconografia è stata ampiamente studiata e non vale la pena, pertanto, di

soffermarsi troppo a lungo su questo punto: è chiaro il riferimento, nel caso di donne rappresentate in quest’atto, alla loro qualità di spose o, nel caso ragazze morte in giovane età, al mancato raggiungimento di questo stato, attraverso la metafora delle «nozze con Ade».

Una specifica caratterizzazione in questo senso, tuttavia, non sembra essere stata propria della tipologia Pudicitia, né nella fase che stiamo qui analizzando, né in quelle successive. Vero è che, questo però in fasi successive, molte donne sono raffigurate in compagnia dei mariti, e quindi, va da sé, nella veste di mogli. Ma è vero anche che in moltissimi casi questo non avviene. Avremo modo di tornare su questo punto nelle prossime pagine. In questa fase per di più manca ogni rifermento epigrafico che designi una sola di queste figure quale γυνὴ. Che dire poi del già citato rilievo del Pentelico? Non si potrà certo ipotizzare per questo caso una caratterizzazione in senso matrimoniale delle tre ninfe! È vero, il gesto dell’anakalypsis sembrerebbe essere piuttosto simile a quello della Pudicitia, ma solo in quanto prevede un’interazione della figura con il velo che le copre il capo. Inoltre vale la pena ricordare come sotto la comune denominazione di Pudicitia nel suo complesso convivano soggetti dalla gestualità in questo senso piuttosto eterogenea: la mano delle donne, infatti, può essere

177 variamente portata al velo della donna oppure al di sotto del suo mento, può afferrare un lembo di stoffa, oppure semplicemente rimanere distesa.

Quel che però sembra di poter affermare è che mai si tratti dell’atto di disvelarsi: sembrerebbe, anzi, tutto il contrario, che la donna cioè, almeno in alcuni casi, porti un lembo della veste a coprire la guancia ed il volto.

Che questa possa essere un’osservazione pertinente, sembrerebbero confermare alcune attestazioni, ancora una volta, omeriche: si tratta in questo caso di alcuni versi che ricorrono in modo formulare quattro volte276, attraverso i quali il poeta introduce le apparizioni di Penelope277:

«τοῦ δ᾽ ὑπερωιόθεν φρεσὶ σύνθετο θέσπιν ἀοιδὴν κούρη Ἰκαρίοιο, περίφρων Πηνελόπεια: κλίμακα δ᾽ ὑψηλὴν κατεβήσετο οἷο δόμοιο, οὐκ οἴη, ἅμα τῇ γε καὶ ἀμφίπολοι δύ᾽ ἕποντο. ἡ δ᾽ ὅτε δὴ μνηστῆρας ἀφίκετο δῖα γυναικῶν, στῆ ῥα παρὰ σταθμὸν τέγεος πύκα ποιητοῖο, ἄντα παρειάων σχομένη λιπαρὰ κρήδεμνα: ἀμφίπολος δ᾽ ἄρα οἱ κεδνὴ ἑκάτερθε παρέστη.» (Od., I, 328-335)

«Dal piano di sopra sentì quel canto La figlia di Icario, la saggia Penelope, e scese l’alta scala della sua stanza, non sola – due ancelle l’accompagnavano. Quando l’illustre donna fu tra i pretendenti, si fermò in piedi accanto a un pilastro del tetto, tirando davanti alle guance il velo nitido.»278

È sorprendente come la descrizione dell’epifania di Penelope accompagnata dalle sue ancelle sia simile a moltissime raffigurazioni di donna su stele funeraria tanto in epoca tardo classica, quanto in età ellenistica. La gestualità della sposa di Odisseo sembrerebbe poi, per come viene descritta, largamente sovrapponibile a quella riprodotte in statue e rilievi del tipo Pudicitia. Anche in questo caso, è evidente, mi guardo bene dal voler affermare l’esistenza di un legame diretto tra Omero e stele funerarie ellenistiche: il mio intende essere uno spunto di riflessione, una proposta di direzione per eventuali approfondimenti. Le analogie nell’atteggiamento mi paiono comunque evidenti e meritevoli di essere portate in evidenza anche in questa sede.

276 Od., I, 334; XVI, 416; XVIII, 210; XXI, 65. Vedi Haakh 1959.

277 Si veda Haakh 1959, pp. 347-380; Neumann 1965, pag. 41, nota 134; Scholl 1996, pag. 169, nota. 1151.

178 Il gesto è stato interpretato come cenno di saluto279, «eine konventionelle Grußformel». Ed in effetti in

questa chiave sarebbe leggibile anche nel caso della tipologia Pudicitia nel corso della fase fin qui approfondita ma anche di quelle successive: non un disvelamento, dunque, bensì un pudico gesto della mano, quasi a schermirsi dinanzi allo sguardo dell’osservatore, un cenno composto rivolto all’interlocutore in modo conveniente, opportuno, decoroso.

Nessuno stupore, dunque, che tale gestualità abbia trovato posto su stele e statue femminili, ed in generale sulle raffigurazioni funerarie. Non perché essa fosse intrinsecamente legata all’esplicitazione di un lutto: abbiamo anzi visto come a fronte di manifestazioni di dolore particolarmente intenso dinanzi alla morte, le fonti letterarie attestino invece l’abbandono del velo e della veste. Una donna dabbene ambiva invece ad essere raffigurata sulla propria tomba comme il faut, anche nel momento della morte e del dolore, secondo il decoro adeguato al proprio rango, avvolta nella propria veste, velata come conviene e atteggiata in una posa consueta e composta.

Non solo: tale gestualità sembra sottendere e manifestare l’apertura di una canale comunicativo tra la figura femminile stessa ed una controparte. Si pensi al rilievo del Pentelico o alla stele di Demetria e Pamfile280 in relazione ai versi appena citati ed al contegno della saggia moglie d’Odisseo. Penelope con

i proci, le tre ninfe con Telefane, Nicerato e Demofilo, Demetria e Pamfile con il passante che per caso si trovi a percorrere la via che passa dinanzi al loro sepolcro: tutte queste figure sono poste in relazione con un interlocutore. Ed è attraverso questo gesto di «tirare davanti alle guance il velo nitido» che esse manifestano una sorta di apertura nei suoi confronti, consentendo l’inizio di un’interazione comunicativa tra le parti.

Insomma, mi spingo troppo oltre nel voler ravvisare nella gestualità della Pudicitia una sorta di equivalente gestuale di quella che in linguistica è definita funzione fàtica del discorso? L’insieme degli elementi fin qui elencati mi pare lascino intendere che un tentativo d’interpretazione di questo tipo sia