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Capitolo IV Memorie scolastiche

2. La voce delle maestre

Pur nella consapevolezza di una sostanziale diversità tra le due tipologie di fonti, i registri di classe e le testimonianze orali sembrano racchiudere, apparentemente, lo stesso contenuto. Entrambi infat-ti, benché in forma diversa, narrano gli eventi vissuti all‟interno dei corsi popolari per adulti dal punto di vista della maestra, che «riflettendo a posteriori sull‟esperienza dell‟insegnamento, diventa inaspettatamente una sorta di testimone privilegiato non tanto e soltanto della propria vita ma anche della vita di un‟istituzione ed insieme ad essa, delle molte altre vite che attorno a tale istituzione ruotano»17. L‟intreccio tra la ricerca storica e quella autobiografica consente di trattare uno stesso tema mediante approcci diversi, facendo emergere maggiori riflessioni.

Nel registro di classe la maestra descrive e racconta gli eventi nello stesso momento in cui li vive, mentre nella narrazione autobiografica essi vengono riportati alla luce a distanza di tempo, da una persona che nel frattempo è cresciuta, si è trasformata e di conseguenza anche la sua esperienza ac-quista un senso completamente nuovo. Riletta, ordinata, reinterpretata essa rivela significati che prima non c‟erano e che emergono solo grazie ad una riflessione retrospettiva. Pertanto ripercorrere la storia della Scuola popolare attraverso la voce delle maestre ci aiuta a comprenderla in maniera più approfondita, a valutare le ricadute che ha avuto sul presente e ad accedere al significato che ta-le storia ha assunto per ta-le persone che l‟hanno vissuta.

Inoltre occorre sottolineare che vi è un‟ampia differenza tra storia ufficiale e storia di vita. La prima fa riferimento ad una serie di fatti oggettivi e in quanto tali immodificabili. La seconda invece è una

16 F. Cambi, L‟autobiografia come metodo formativo, cit., p. 101.

17 C. Sindoni, La Memoria scolastica nei racconti del maestro di Regalpetra, cit.

190 realtà soggettiva e rappresenta «la posizione che il soggetto assume di fronte» ad un evento e le emozioni e i sentimenti che esso gli ha suscitato. Secondo Maria Ermelinda De Carlo, infatti, chi racconta «scrive in se stesso la storia letta lì dove il mondo l‟aveva scritta e la ri-legge in se stesso per riscriverla, con propri caratteri per farla conoscere a tutti come la sua storia»18. Gli eventi qui narrati, pertanto, non sono semplici resoconti di fatti, ma storie modellate, trasformate, vissute e sentite in prima persona e in quanto tali dispiegano trame ricche di senso e di significato, ma anche verità scomode taciute nei documenti ufficiali.

A raccontarsi sono sette maestre che hanno tenuto corsi popolari in luoghi e contesti differenti del Subappennino Dauno sia urbani, quali Lucera, Alberona, Castelluccio dei Sauri, Volturara Appula e Volturino, sia rurali, tra cui Vaccarella, Palmori e Centrogallo. Ogni intervista è preceduta da una breve presentazione del narratore.

18 M. E. De Carlo, Autobiografie allo specchio. Strumenti metodologici del ri-leggersi tra educazione degli adulti e nar-ratologia, cit., p. 74.

191 Carmela Mucciacito, attualmente maestra di Scuola Primaria, ha insegnato per tre anni presso i cor-si popolari di Lucera. Il suo racconto, che ricopre un periodo di tempo compreso tra il 1980 e il 1982, descrive gli ultimi anni della Scuola popolare e i cambiamenti che in quel periodo stavano at-traversando la scuola e la società. La testimonianza offre una triplice visione dell‟iniziativa, raccon-tata dal punto di vista della maestra, degli alunni e della popolazione.

D: In quali anni ha insegnato presso la Scuola popolare per adulti?

R: Negli anni Ottanta. Ho insegnato per due anni presso i corsi della Scuola Lombardo Radice e un anno presso quelli della Scuola Edoardo Tommasone.

D: I corsi si svolgevano presso sedi scolastiche o private?

R: La sede poteva essere la scuola, però io ricordo che per due anni siamo andati in un circolo ri-creativo che allora non era ancora aperto ai soci e che si trovava dietro la Cattedrale. Ricordo che abbiamo dovuto anche provvedere a recuperare un attaccapanni e qualche tavolo perché quelli che c‟erano non erano sufficienti.

D: Era il circolo di un ente privato?

R: Sì, era un ente cattolico, forse l‟ACLI, ma non ne sono sicura.

D: Quali erano le caratteristiche della Scuola popolare che secondo lei la distinguevano da quella elementare?

R: Per la scuola elementare c‟è un programma da seguire, i ragazzi non hanno un vissuto come succede per gli adulti, quindi si lavora direttamente sui contenuti; invece nella Scuola popolare si lavorava con adulti, quindi erano già formati. Durante la metà del tempo si parlava delle loro esperienze, che non erano uguali per tutti, ma erano specifiche, poi durante la seconda parte del tempo si faceva lezione sulla base dei problemi fuoriusciti nella discussione.

D: Qual era la provenienza culturale degli alunni?

R: Medio bassa. Il loro analfabetismo però era relativo solo alle capacità di letto-scrittura, perché per quanto riguarda la matematica erano molto alfabetizzati. La matematica era una necessità, la dovevano sapere per forza. In grammatica erano proprio analfabeti, però più o meno sapevano leggere e sapevano scrivere qualcosa.

D: Qual era la loro condizione lavorativa?

R: Erano contadini, casalinghe, qualcuno che doveva aprire un‟attività. Ricordo che c‟era un si-gnore che doveva aprire una pizzeria e frequentava la Scuola popolare perché aveva bisogno della licenza elementare.

D: Gli alunni si iscrivevano spontaneamente?

R: Chi aveva realmente necessità si iscriveva spontaneamente, altrimenti li reclutavamo noi.

192 D: In che modo?

R: Quando si iscriveva qualcuno lo si invitava a passare parola e lui chiamava l‟amico, il cono-scente, la parente. Bastavano due o tre persone e ognuno di loro portava un nuovo gruppo di iscrit-ti.

D: Quali emozioni provava ad insegnare a leggere e a scrivere a persone adulte?

R: Ero più piccola di loro, ma mi sentivo superiore a loro; superiore non per esperienza, ma per cultura e quindi incanalavo i loro discorsi secondo quello che volevo far emergere. Da questo pun-to di vista io li manovravo, per quespun-to mi sentivo, tra virgolette, superiore.

D: Quali erano le maggiori motivazioni degli iscritti?

R: Per loro era prima di tutto un divertimento. Poi il fatto di imparare a leggere e a scrivere per lo-ro era una grande conquista. Alcuni ne avevano necessità, altri frequentavano perché da giovani non era stato proprio possibile e quindi lo facevano da adulti. Per loro era una conquista.

D: Le raccontavano i motivi per cui non erano potuti andare a scuola?

R: Perché lavoravano. Prima i figli erano forza lavoro. Quando le famiglie erano numerose o i ge-nitori erano, ad esempio, proprietari terrieri, si sceglieva solo uno tra i figli che potesse dedicarsi allo studio e che poi sarebbe diventato medico o altro, ma soprattutto medico. Tutti gli altri lavora-vano perché questo potesse fare il medico. Quando le famiglie non erano numerose e non erano benestanti nessuno dei figli andava a scuola perché servivano nei campi.

D: Le donne erano in numero inferiore rispetto agli uomini?

R: No, erano più donne che uomini. Forse tra gli iscritti vi erano più uomini, ma tra i frequentanti vi era un maggior numero di donne. Gli uomini non sempre frequentavano.

D: Per quale motivo?

R: Forse perché le donne avevano più tempo libero la sera. Per gli uomini, se svolgevano lavori pesanti, era difficile venire a scuola di sera.

D: Era difficile per gli alunni conciliare tempi di studio e tempi di lavoro?

R: Sì, perché la giornata lavorativa non era quella sindacale, soprattutto coloro che lavoravano nel proprio fondo restavano a lavoro fino a quando la luce lo consentiva. Poi erano molto dignitosi, si dovevano lavare, si dovevano vestire, si dovevano sbarbare, non venivano a scuola sporchi.

D: La saltuarietà della frequenza ostacolava il suo insegnamento?

R: No, perché quando c‟era cattivo tempo frequentavano e siccome erano motivati recuperavano in fretta. Quando c‟era bel tempo la frequenza non era assidua perché lavoravano.

D: Ho letto nei registri che nella relazione finale vi si chiedeva quali fossero i mesi e il periodo più adeguati per istituire i corsi popolari. Le vostre indicazioni e i vostri consigli venivano seguiti?

193 R: La Scuola popolare iniziava a gennaio e non lo decidevamo noi. I consigli degli insegnanti ri-manevano sulla carta, come succede adesso.

D: C‟era differenza nei programmi di insegnamento per uomini e donne?

R: No, assolutamente no.

D: Quali erano le maggiori richieste degli alunni?

R: Erano diverse. Gli uomini mi chiedevano maggiormente nozioni di geometria, le misure agrarie, i problemi. Erano più motivati in questo e avevano più interesse riguardo a tali argomenti. A loro interessava soprattutto la matematica, infatti se ne faceva molta. Un po‟ meno l‟italiano; le regole grammaticali le prendevano come un gioco, quando si sbagliava si rideva.

D: E le donne?

R: Le donne quando scrivevano i temi – allora si chiamavano così – erano molto fantasiose però molto infantili nello scrivere. Gli uomini invece non sapevano proprio cosa scrivere.

D: Le chiedevano di scrivere lettere per i parenti lontani?

R: Negli anni Ottanta non c‟era più l‟emigrazione, quindi loro avevano necessità di scrivere in re-lazione ai fatti della vita quotidiana.

D: Riusciva ad adattare il programma ai loro bisogni?

R: Alla fine dell‟anno dovevano saper leggere e scrivere, quindi non si faceva quello che si fa ades-so alla fine della quinta elementare. Ora il programma è corpoades-so; nelle scuole popolari si trattava solo di alfabetizzazione.

D: Si insegnava educazione civica?

R: Sì, su questo argomento si dialogava molto, anche perché era molto sviluppato il senso civico nelle persone di una volta. Per loro il senso civico era importante e non solo lo imparavano, lo tra-smettevano ai propri figli, lo “possedevano”.

D: Quindi in tal senso è stata importante la Scuola popolare?

R: La Scuola popolare è stata importante per coloro che l‟hanno frequentata e per noi docenti. Noi abbiamo imparato tante cose dagli alunni. Alfabetizzare la gente è stato molto importante. Perché loro le cose le sapevano, ma non le sapevano mettere insieme.

D: Quali erano le sue maggiori difficoltà in qualità di docente?

R: La classe era molto eterogenea, non avevano tutti la stessa base culturale e quindi c‟era chi sa-peva fare i calcoli, anche molto difficili, con le misure agrarie, ecc. e chi invece non sasa-peva nean-che contare e la difficoltà era questa.

D: Quali libri di testo utilizzava? C‟erano dei manuali specifici per le scuole popolari?

194 R: Mi ricordo che li portavo io. Loro avevano un quaderno che si lasciava a scuola, non avevano i compiti per casa. Quello che si faceva si faceva in classe. Si facevano letture, si scriveva qualcosa alla lavagna. I libri stavano anche a scuola, però gli alunni non ne possedevano.

D: Si svolgevano anche attività extrascolastiche ricreative che arricchivano la didattica?

R: Non ricordo se erano da programma, ma noi le facevamo lo stesso, perché le persone portavano lì le loro esperienze e quindi si sperimentava insieme agli altri, si condivideva e si facevano tanti laboratori.

D: Ad esempio?

R: Si parlava di giardinaggio, di potatura, di cucina, di bucato e di tante altre cose e poi si speri-mentava e si riportavano gli esiti a scuola.

D: Secondo lei, aver alfabetizzato gli adulti ha influito positivamente anche sulla cultura dei loro fi-gli?

R: Beh, devo dire, con molta tristezza, che queste persone che venivano a scuola erano un po‟derise dai loro familiari, venivano ridicolizzate, perché il figlio che frequentava la scuola seriamente ridi-colizzava il genitore che andava alla Scuola popolare. Questo non era molto bello e l‟ho sperimen-tato più volte. Però loro venivano lo stesso e riportavano a casa tutto quello che accadeva a scuola.

Mentre il genitore si interessava di quello che faceva il figlio a scuola e lo prendeva seriamente, i figli invece ci ridevano.

D: Ricorda qualche episodio in particolare?

R: C‟era un signore che doveva aprire la pizzeria, e poi di fatto l‟ha aperta, e non sapeva proprio scrivere, neanche la sua firma. Lui si chiamava Francesco Paolo. E all‟esame quando ha firmato il suo tema ha scritto “Francesgo” con la g, perché la firma l‟aveva imparata da giovane e quindi per lui modificarla era impossibile e la scriveva in modo automatico, anche se impiegava dieci mi-nuti a firmare. Questa cosa non l‟ha voluta modificare, non ci è proprio riuscito.

D: Come si svolgevano gli esami?

R: Gli esami noi li preparavamo un po‟ prima perché loro erano molto agitati, anche perché c‟era un commissario esterno che metteva un po‟ in difficoltà queste persone, quindi noi dovevamo inter-venire per mediare. Il clima non era molto piacevole quando facevamo gli esami perché i commis-sari si prendevano beffa di queste persone. Parlo della mia esperienza.

D: I commissari erano esterni?

R: Noi dipendevamo da una scuola statale e quindi i commissari erano dei docenti che insegnavano in quella scuola e venivano nominati dal Direttore. Loro si vestivano un po‟ di autorità e mettevano in difficoltà il candidato. Questo a me è successo per tutti e tre gli anni in cui ho fatto le scuole po-polari. Le persone un po‟ più intimidite dall‟esame venivano messe in difficoltà dal commissario.

Questa cosa mi irritava quindi io dovevo intervenire per mediare a discapito ovviamente del docen-te e mai dell‟esaminando. Non era un comportamento lodevole da pardocen-te dei docenti.

195 D: La commissione da chi era composta?

R: Dal commissario, dal docente del corso e dal Direttore, che non interveniva quasi mai. I docenti potevano essere uno o due. Lasciavano che noi aiutassimo un po‟ gli alunni nello scritto, ma quan-do si faceva l‟orale si prendevano beffa degli esaminandi.

D: È riuscita a restare in contatto con qualche alunno? Ha avuto modo di constatare se la Scuola po-polare sia servita realmente a qualcuno di loro?

R: Sì, ad esempio questo “Francesgo” ha aperto una pizzeria e a distanza di tanti anni, forse addi-rittura di venti anni, quando io un giorno sono andata a comprare una pizza, lui non me l‟ha fatta pagare e ha detto: “Io devo ancora ringraziarti per quello che hai fatto per me!”. Si creava un cli-ma di familiarità all‟interno della classe quindi ho cli-mantenuto rapporti con queste persone.

D: Nella maggior parte dei casi voi insegnanti della Scuola popolare eravate molto giovani e questa era probabilmente la vostra prima esperienza di insegnamento. Secondo lei avevate competenze adeguate soprattutto in relazione all‟educazione degli adulti?

R: Noi non eravamo stati assolutamente preparati, però il lavoro non era difficile. Dovevamo solo mettere in ordine le conoscenze dei nostri alunni, perché loro avevano già un vissuto, avevamo del-le esperienze e quindi erano loro che ci motivavano, poiché si aspettavano che noi mettessimo ordi-ne ordi-nella loro cultura frammentaria. Non seguivamo un programma definito, esso veniva stabilito insieme agli alunni, in base alle loro richieste. Ovviamente dovevamo raggiungere sempre l‟obiettivo di insegnare loro a leggere e a scrivere.

D: Quindi l‟insegnante era libero di apportare modifiche al programma ministeriale?

R: Sì, anche oggi c‟è sempre un programma ministeriale, ma noi dopo un mese, quindi dopo aver conosciuto gli alunni, stiliamo un piano didattico annuale, e così facevamo nella Scuola popolare, lavorando sulle conoscenze pregresse degli iscritti.

D: Cosa pensava la popolazione della Scuola popolare?

R: La Scuola popolare era molto importante e sentita.

D: Quindi è stata utile? A lei cosa ha insegnato?

R: Sì, è stata molto utile. Come prima esperienza di insegnamento mi è servita molto.

196 Amalia Olivieri ha insegnato per circa dieci anni presso corsi popolari istituiti in varie località urba-ne e rurali del Subappennino Dauno, tra cui Lucera, Vaccarella, Centrogallo, Palmori. La sua espe-rienza, estesa sia a livello temporale sia a livello ambientale, si è rivelata molto dettagliata e ricca non solo di informazioni inedite, ma anche di emozioni meravigliose che hanno addolcito una realtà molto dura, quale quella che caratterizzava l‟Italia meridionale tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Successivamente ha ottenuto una cattedra di Scuola Primaria dove ha continuato la sua carriera pro-fessionale.

D: In quali anni ha insegnato presso la Scuola popolare per adulti?

R: Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessata.

D: Quali erano le caratteristiche della Scuola popolare che secondo lei la distinguevano da quella elementare?

R: Prima di tutto gli alunni, perché alla scuola elementare sono bambini mentre a quella popolare sono adulti, ma anche i contenuti dei programmi d‟insegnamento. Gli adulti volevano imparare l‟essenziale. Ad esempio ricordo che mi chiedevano di scrivere le lettere ai figli che erano al milita-re, quindi loro badavano molto di più alla vita quotidiana e alle esigenze pratiche. Venivano a scuola per imparare a scrivere la propria firma… Volevano una scuola che li aiutasse a vivere.

D: Qual era la provenienza culturale degli alunni e il loro grado di istruzione?

R: Non sapevano niente, assolutamente niente. C‟è stato un periodo in cui io andavo ad insegnare nelle case private; gli alunni non venivano a scuola, mi recavo io presso varie famiglie. I vicini di casa si radunavano presso un‟abitazione e ricordo che erano per lo più corsi femminili. Loro pen-savano ai figli lontani e avevano tanto bisogno di imparare a scrivere per non perdere i contatti con i propri cari, perché allora non c‟era neanche il telefono. Erano casalinghe o braccianti agri-cole. E quando arrivava la maestra arrivava tutto, arrivava la notizia. Io sono sempre stata accolta molto bene, con tanto affetto. Ero giovanissima e loro erano già adulti.

D: Quali emozioni provava ad insegnare a leggere e a scrivere a persone adulte?

R: Provavo tanta emozione, tanta tanta tanta emozione! A volte sentivo anche di non dare abba-stanza perché vedevo che loro mi aspettavano con ansia, per imparare, per sapere qualcosa in più.

È stata una grande esperienza formativa.

D: Quali erano le loro principali richieste?

R: Volevano notizie. La televisione non c‟era ancora e loro facevano una vita molto casalinga, non uscivano mai e quando arrivava la maestra era come se arrivasse il giornale.

D: Quando in un corso c‟erano tre classi come si svolgeva lezione? Venivano divisi in gruppi?

R: Era chiamata pluriclasse ed era molto difficoltoso fare lezione, perché c‟era l‟analfabeta che doveva imparare i primi elementi e c‟era colui che sapeva già qualcosa e naturalmente voleva

an-197 dare oltre, ampliare le sue conoscenze, quindi bisognava conciliare i loro bisogni. Allora c‟era il famoso “dettato”, oppure si ricopiava quello che già avevano scritto. Era un insegnamento molto rudimentale.

D: Le classi erano numerose?

R: Dipendeva dal periodo. Quando c‟era tanto lavoro non frequentavano molto, mentre quando erano più liberi venivano a scuola con assiduità.

D: Quali erano le maggiori motivazioni degli iscritti?

R: Imparare a leggere e scrivere per essere più liberi e per non dipendere da altre persone. In que-gli anni molte persone per firmare facevano semplicemente una croce oppure chiedevano a qualcun altro di firmare al posto loro, quindi essere indipendenti era importante. Volevano poter scrivere lettere ai figli, poter leggere qualche manifesto.

D: Analizzando i registri ho notato che le donne erano in numero inferiore rispetto agli uomini. Per-ché?

R: La donna non usciva per andare a scuola la sera, ecco perché sono stati organizzati dei corsi presso le famiglie, per incoraggiare in particolare le donne. Adesso noi donne abbiamo fatto molte conquiste, allora no, la donna stava in casa.

D: Era difficile per gli alunni conciliare tempi di studio e tempi di lavoro?

R: Beh certo! Infatti non si potevano dare i compiti a casa. Ciò che imparavano lo imparavano du-rante quelle poche ore di scuola e basta. Alcune sere erano proprio stanchi, venivano solo per sva-garsi un po‟. Invece in altri periodi si impegnavano molto di più. Inoltre gli adulti a differenza dei bambini avevano più cose a cui pensare, problemi a casa, al lavoro; erano meno spensierati dei bambini. Nonostante il loro impegno, impiegavano più tempo ad apprendere perché la loro mente era impegnata.

D: Era più difficile per gli uomini o per le donne?

R: E la donna aveva anche le faccende domestiche, quindi era molto difficile. Venivano a scuola proprio per imparare il minimo indispensabile. Solo per questo motivo, ma non avevano l‟idea del-la cultura, assolutamente.

D: La saltuarietà della frequenza ostacolava il suo insegnamento?

R: Dipende dal modo in cui l‟insegnante viveva il proprio lavoro. Se si accettava con entusiasmo si superava tutto, se si faceva solo per il punteggio diventava una cosa molto arida. Io quando andavo la sera a scuola e vedevo i volti dei miei alunni stanchi di lavoro ero molto emozionata.

D: In quali mesi si assentavano più spesso per il lavoro?

R: Ad esempio durante la raccolta delle olive non potevano venire a scuola perché la sera tornava-no tardi stanchi morti.