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L’esperienza della libertà e la fine di ogni senso esterno

Nella pratica, la categoria della pericolosità sociale ha l’effetto di denominare, stabilire e circoscrivere diversi ambiti di libertà e di autonomia del soggetto. L’analisi genealogica del concetto di pericolosità sociale pone necessariamente in rilievo uno degli aspetti su cui dovrebbe fondarsi, in bene o in male, l’esistenza dell’individuo pericoloso: la sua (supposta o inesistente) libertà. Sopratutto con riguardo al senso ad essa attribuito, all’interno di una logica controllante, quella attuale, di contrapposizione tra ciò che appartiene all’uomo e ciò che, invece, rimane ancorato alla sfera esterna allo stesso.

Ebbene, in questo odierno scenario anche il concetto di “libertà” viene rivisita- to, spogliato dei suoi involucri più grossolani, emergendo come (co)stretto dentro una morsa, svilito e racchiuso all’interno di categorie dogmatiche fisse, ossessiva- mente duali, tanto che, secondo Jean-Luc Nancy, una volta condizionata all’atto instauratore del soggetto – quello che la filosofia post-cristiana ha chiamato “libero arbitrio” o “indeterminazione della volontà – la libertà non soltanto ha visto progres- sivamente ridotta la sua originaria ricchezza semantica in una modalità sempre più difettiva e stilizzata, ma si è trovata nuovamente esposta al rischio di essere rovescia- ta nel proprio opposto logico: in ordine per Hobbes, in sovranità per Rousseau, in Stato per Hegel. In ogni caso in una sorta di determinazione oggettiva, dialetticamen- te assunta come forma necessaria da parte del soggetto sedicente libero, o da esso subita come prezzo esteriore della propria irriducibilità interiore (Lutero). Come se si avvertisse un bisogno di fondazione che, per garantire il concetto di libertà nei con- fronti del suo stesso potenziale effrattivo, finisce per incatenarlo in una rappresenta- zione ideale che chiude il suo senso eccedente nei confini di un significato di volta in volta presupposto. Tale fenomeno esprime una valenza immunizzante, ossia una precisa attitudine difensiva nei confronti del munus comune e della originaria co- appartenenza alla stessa esperienza della libertà95.

Insomma, si assiste sempre più all’elisione proprio di questa straordinaria estensione orizzontale dell’idea di libertà-relazione, insieme alla sua declinazione affermativa, così, ciò che rappresentava un principio immanente di sviluppo secondo la legge intrinseca della propria natura tende irresistibilmente a configurarsi come il perimetro esterno delimitante ciò che può essere fatto rispetto a ciò che non si deve fare. La vera svolta in direzione immunitaria risale alla stagione medioevale, allorché la libertà, assume precisamente il carattere di “diritto particolare” e cioè di quell’insieme di “privilegi”, “esenzioni” o immunità che appunto dispensano alcuni soggetti collettivi da un obbligo comune per tutti gli altri. Da allora, con tutte le varianti possibili, la libertà sarà sempre concepita come un bene, una facoltà dell’individuo che la detiene, in contrapposizione alla dimensione politico- comunitaria96.

Così, strappata all’intensità affermativa della sua antica radice “comune”, la li- bertà dovrà ormai adattarsi a non poter essere declinata se non in negativo: come non-dominio, non-costrizione, non-comunità. Rappresentata solo a partire dagli

Luc Nancy è un autore che si va sempre più configurando come il maggior filosofo francese della generazione immediatamente successiva a quella di Foucault, Levinas, Deleuze e Derrida. Al riguar- do, relativamente alle sue opere, quella che potrebbe apparire un’eccessiva densità categoriale, rivela invece un’intenzione precisamente opposta: la ricerca ostinata ed inquieta di quella semplicità che è al cuore dell’estrema difficoltà. Le opere di Nancy appaiono tese, infatti, ad un’esigenza di concretezza, di spessore, di materialità, che sembra battere sulla parete muta e impenetrabile delle cose sperimen- tando insieme la propria potenza d’urto e il loro limite infrangibile. Il linguaggio utilizzato da questo autore è innovativo, singolare e richiama un’inesauribile galleria di voci, eventi, gesti, luoghi, corpi sorpresi e disvelati, accostati, sovrapposti nella “nudità” di una semplice presenza – quella che l’autore intende per “esistenza finita”, vale a dire sottratta ad ogni essenza che non coincida con l’esistenza stessa. La difficoltà logico-argomentativa sta proprio nel presentare tale presenza senza al contempo rappresentarla in un ordine di discorso già fissato nei suoi presupposti; senza, cioè, raddop- piarla e chiuderla in quella morsa concettuale che costituisce la modalità più tipica della tradizione filosofica e il suo stesso dispositivo di attribuzione della significazione.

96 J.-L.NANCY, L’esperienza della libertà, cit., p. 5 ss. Sullo stesso tema, la Arendt affermava che nel

XVII e XVIII secolo, “lo scopo supremo della politica era garantire la sicurezza. La sicurezza rendeva possibile la libertà”. Evidente processo di immunizzazione della libertà (dalla politica). I due concetti – libertà e comunità politica – avvolti nel compromesso pratico, ormai separati dalla loro conversione immunitaria, si rivelano incapaci di pensare sia la libertà che la comunità, e tanto più il loro rapporto costitutivo. V.D. ARDILLI, Hannah Arendt: Critica dell’ontologia e approssimazione al «concreto», in Esercizi Filosofici 2, 2007, pp. 1-19, in ISSN 1970-0164 link: http://www.univ.trieste.it/~eser- filo/art207/ardilli207.pdf.

Vedasi al riguardo anche l’opera di Foucault dove descrive la libertà come aspetto costituito per derivazione, quale rimanenza dopo “lo spillare” della politica, M.FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., passim.

ostacoli che si frappongono al suo impossibile dispiegamento, la libertà rischia di restare senza parole non appena quelli sembrano venir meno, in realtà, trasferendosi all’interno di essa fino a svuotarla di ogni effettività. La libertà, insomma, non può essere qualcosa che si ha ma solo qualcosa che “si è”, all’interno dell’esperienza di vita, ossia ciò che libera l’esistenza alla possibilità di esistere in quanto tale. Sembra, pertanto, profilarsi in filosofia, un diverso modo di “essere liberi” del quale non si conosce ancora né il significato né il nome97.

Lo stesso “regime del senso” sull’uomo sembra essere entrato in un’inarrestabile dinamica entropica che pare ingoiarlo in un gorgo senza pareti e senza fondo. Per questo appare importante l’apertura al nuovo senso che questa stessa chiusura libera sul suo bordo esterno98.

L’originalità della posizione di Nancy sta nella modalità affermativa, non tra- gica, di interpretazione del predetto fenomeno nichilistico. L’esaurimento del senso, infatti, non è da lui inteso come una catastrofe, bensì come evento, o meglio, come avvento che abbiamo di fronte e che ci coinvolge come la nostra medesima condizio- ne: quella appunto di essere abbandonati alla fine di ogni senso esterno a noi stessi.

97 J.-L.NANCY, L’esperienza della libertà, cit., p. 5 ss.

98 È in questo complesso incrocio tra i due sensi – il primo in esaurimento, il secondo a venire

dell’espressione “senso”, che si misura la forza e il rischio della prospettiva di Nancy, ed anche la sua difficile collocazione all’interno del dibattito filosofico contemporaneo che essa pare costeggiare senza identificarsi in nessuna delle scuole cui pure a volte viene ascritta, a partire da quella decostru- zionista. E ciò non perché egli non faccia proprio l’impegno appunto decostruttivo, di continua vigi- lanza critica rispetto ai presupposti metafisici della tradizione classica e moderna, ma perché l’autore interpreta tale criticità – ossia il “de” della decostruzione – non in senso negativo, o addirittura distrut- tivo, ma piuttosto in termini affermativi e dunque di apertura: come un continuo dissigillo di ciò che la tradizione ha sigillato chiudendolo dentro un muro di significazione che non lascia intravedere né le fondamenta su cui poggia né il movimento stesso della fondazione. Perciò, Nancy, torna esattamente sulle grandi parole – la libertà, la comunità, il corpo – di quella stessa tradizione metafisica che pure, contemporaneamente, de-costruisce.

Se, cioè, la filosofia occidentale, nella sua attitudine costitutivamente metafisica, si è invariabilmente proposta come soggetto generale di significazione – come orientamento del senso – essa ha colto, almeno nei suoi vertici e sempre più nettamente, anche il limite di tale operazione, pur senza mai riuscire a rompere definitivamente il circuito dialettico tra eccedenza del senso e sua riconduzione normativa alla sfera presupposta dei significati. Ad inabissarsi è il senso medesimo e dunque anche qualsiasi possibilità di significarlo. La curva epocale in cui per la prima volta l’infinita volontà di significato di cui si è nutrita la tradizione moderna si è trovata faccia a faccia con l’inedia, il prosciu- gamento, la deportazione dell’intero regime del senso: non solo l’insignificanza, ma soprattutto, a partire dagli anni Trenta, l’assoluta furiosa devastazione di ogni significazione. v. J.-L. NANCY,

Di essere noi stessi (noi tutti e noi soli) il senso sottratto ad ogni origine, fine, orien- tamento. L’uomo deve riappropriarsi della propria essenza e abbandonare le catego- rie dogmatiche classiche che lo definiscono.

Al riguardo, se la filosofia non può più essere una concezione del mondo, se non può più assegnare ad esso il proprio senso o anche qualsiasi altro senso, può, però, costituire l’apertura di uno spazio di pensiero in cui il mondo si riconosce esso stesso come l’unico senso. Il mondo, con le sue relazioni, con i suoi incontri che libera nella grana di un’esistenza finita perché mai coincidente con se stessa, sempre affacciata sull’Altro da sé, diventa il proprio produttore di senso. È questa inclina- zione dell’esistenza verso il fuori - il suo comparire nella singolare pluralità del mondo – a caratterizzare il pensiero di Nancy in direzione costitutivamente politica. Se il senso coincide con l’esistenza, vuol dire che finalmente possiamo presentarci a noi stessi senza più intermediari o mediatori – gli uni agli altri, nell’infinita condivi- sione di un’esperienza comune99.

La pericolosità sociale pertanto, quale strumento difensivo immunizzante, de- putato a proteggere la comunità sociale dal pericolo di commissione di nuovi reati, andrebbe ripensata in un’ottica di compenetrazione del sociale nell’individuale, per far si che la libertà di cui cerca di garantire il presupposto, non sia solo vuoto conte- nuto enunciativo e/o istanza autolimitante, ma diventi, finalmente, esposizione ed espressione della vera essenza dell’uomo.

Al proposito, è più facile trovare transiti un po’ spregiudicati dall’osservazione dei fenomeni alle posizioni deterministiche in ambito biologico che in altri ambiti. Forse ciò è dovuto al fatto che risulta più semplice ritenere che tutto quanto è biolo- gico ci sia dato, non dipenda da noi, lo troviamo già preconfezionato e pertanto poco possiamo fare per intervenire100.

Attualmente si ha la tendenza a trasformare le problematiche sociali in proble- matiche individuali e l’uomo è sempre più lasciato a sé stesso nella rimozione o

99 Ibidem.

trasformazione degli ostacoli. Vi è una certa fissità deterministica della natura, con- trapposta alla plasticità della cultura. “Se con ciò intendiamo dire che nascendo non siamo liberi di essere un pollo o una lenticchia, questo è senz’altro vero, ma anche la natura consente spazi di libertà”101.

Se l’organizzazione sociale umana, comprese le ineguaglianze di condizione sociale, di ricchezza e di potere, sono diretta conseguenza delle caratteristiche biolo- giche, a nulla varrà impegnarsi nel mutamento e in riforme di carattere sociale102.

101 Ibidem. Il condizionamento che l’uomo subisce dal contesto ambientale è cosa ben diversa dal

determinismo sociale postulato dal positivismo criminologico. Infatti, affermare che l’individuo subisce il potere delle strutture sociali non significa negare che lo steso non detenga uno spazio intrinseco di libero volere. Il determinismo si ritrova in certa sociobiologia secondo la quale la società umana è l’inevitabile conseguenza di un lunghissimo processo di adattamento dove gli attori non sono gli individui o i gruppi, bensì i geni.

C

APITOLO

S

ECONDO

Il biopotere

L’assujetissement (la soggezione) è una straordinaria fabbrica del soggetto, è il potere, solo in forma apparentemente paradossale, a liberare quest’ultimo esorcizzando la minaccia che ciascuno rappresenta per ogni altro, in assenza di una legge comune.

[Michel Foucault] SOMMARIO: 1. La costruzione del soggetto bio-politico attraverso il bio-potere.

L’influenza del politico sull’organico. – 2. Liberalismo: tra libertà e controllo. – 3. La logica autoimmunitaria e le conseguenze di un eccesso di controllo-difesa sociale. – 4. Immunità del soggetto bio-politico. – 5. Dal bio-potere alla bio-poltica affermativa. – 6. L’importanza dell’individuo nella società contemporanea.

1. La costruzione del soggetto bio-politico attraverso il bio-