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Il “sospetto” nella prevenzione della pericolosità sociale

L’erezione di difese contro l’Altro da Sé, considerato alla stregua di un vero e proprio nemico, risulta particolarmente marcata nel sistema della tutela di tipo pre- ventivo. Una delle più importanti forme di tale tutela è costituita dalle misure di prevenzione “ante delictum”, estrinsecantesi in limitazioni della libertà personale o patrimoniale – e quindi sofferte come pene di fatto – inflitte a chi è “sospettato” di essere socialmente pericoloso, senza che si possa provare giudizialmente, in capo a questi, alcuna azione criminale. È possibile sostenere che trattasi a tutti gli effetti di pene comminate senza delitto e senza processo233.

Il maggiore difetto che può riscontrarsi nelle misure di prevenzione risiede nel- le conseguenze del giudizio negativo emesso sull’intera personalità di un individuo: un giudizio con il quale si squalifica socialmente una persona, senza prima poter squalificare un fatto234.

Le misure ante delictum vantano, all’interno dell’ordinamento, un’antica e tormentata tradizione, risalente alle codificazioni preunitarie

l’architrave su cui si modellerà il sistema preventivo degli stati liberali235. In tempi successivi, nel Regno di Sardegna, con la legge 26 febbraio 1852, n. 1339, furono previsti provvedimenti provvisori in materia di pubblica sicurezza, con cui vennero

232 Al riguardo v. M. PAVARINI, La questione criminale nell’emergenza sicuritaria. Note teoriche sul

caso italiano, in http://www.der.unicen.edu.ar/extension/upload/pavarini.pdf.

233 Ibidem.

234 L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, Milano 1962, p. 21; cfr. G. VASSALLI, Funzio-

ni e insufficienze della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1961, p. 311.

235 D. PETRINI, La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, 1996, pp.

definite e disciplinate le prime misure di prevenzione personali a carattere stretta- mente amministrativo236.

Il sistema di prevenzione ante delictum, a-

gli albori dello Stato unitario, venne approntato all’interno dell’ordinamento penale italiano nella seconda metà dell’800, all’indomani della costituzione del Regno d’Italia, ossia nel 1861, sotto il segno di un’emergenza.

Sin dall’epoca liberale, le misure di prevenzione furono elaborate per fronteg- giare determinate categorie di soggetti che non avevano ancora commesso reati. La connessa pericolosità sociale fu formalmente ritagliata su fenomeni di mera antiso-

a- tiche di classi a rischio, che potevano tradursi in situazioni di devianza sociale, anche se penalmente irrilevanti, come ad esempio il “malandrinaggio”237.

Per quanto riguarda la Scuola classica, l’opera di Carrara238 offre, invece, spun- ti indispensabili per cogliere i primi sintomi del disagio verso le misure di prevenzio- i- zia di cui parlava Carrara, contrapponendole ai delitti veri e propri, non erano prov- vedimenti praeter delictum

contravvenzionale. Da questa prima distinzione derivava il secondo punto fermo del pensiero del Carrara: il rifiuto delle pene del sospetto, applicate sulla mera base di indizi di colpevolezza. Quindi, i due capisaldi del pensiero del Carrara in materia preventiva erano: la natura, tipica e tassativa, delle trasgressioni di polizia; il rifiuto delle pene del sospetto.

236 Ossia, la sottomissione, la diffida, il foglio di via obbligatorio, il ricovero di minori di anni 16 in

stabilimento di pubblico lavoro. I destinatari dei provvedimenti furono i forestieri che esercitavano il commercio ambulante senza licenza, coloro che erano sospettati di commettere furti di campagna, o pascolo abusivo, gli oziosi e i vagabondi.

237 Cfr. M. SBRICCOLI, Giustizia criminale, in M. FIORAVANTI (a cura di), Lo Stato moderno in Euro-

pa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 489 ss. Con legge del 24 giugno 1871, per la repressione

del malandrinaggio, si pervenne ad una ampia riforma della legge organica di Pubblica sicurezza, risalente al 20 marzo 1865, n. 2248, allegato b.

Ma egualmente critico risulta, nel suo complesso, l’approccio al problema espresso dagli esponenti della c.d. Scuola positiva, nonostante le impostazioni teori- che propugnate dai positivisti offrissero, in qualche misura, argomenti per legittimare il diritto di prevenzione. Nella misura in cui, infatti, la pena veniva a perdere i propri tradizionali (ed esclusivi) contenuti retributivi, per acquisire nuove valenze di natura emendativa, e nella misura in cui il concetto di pericolosità sociale veniva a costituire il baricentro dell’intero sistema penale la cui finalità ultima sarebbe stata di conse- guenza non solamente repressiva ma anche preventiva, era evidente che le misure di prevenzione potevano essere in effetti non del tutto estranee al quadro che si era andato componendo.

etti o pericolosi, per i quali manca la prova della commis

239 n-

iabilitative-curative proprie delle misure di sicurezza. Alla ovvia accusa di limitarsi a incapacitare i soggetti marginali, elimi- nandoli dal contesto sociale, il sistema preventivo personale avrebbe reagito millan- sociale che caratterizzavano, secondo l’insegnamento positivista, ogni ambito dell’intervento penale240.

fattispecie soggettive di perico-

costruite dai positivisti sia in chiave meramente antropologica, sia con maggio-

re attenzione alle dinamiche sociali ed economiche241.

239 Al modello poliziesco tradizionale, i positivisti contrapponevano un intervento (meritevole, questo

solo, di dirsi preventivo) basato sui sostitutivi penali, in grado di affrontare alla radice le implicazioni profonde del vagabondaggio e dell’oziosità. Venivano distinti i pochissimi oziosi e vagabondi “pato- logici”, per i quali andava prevista una punizione anche severa, dall’altra foltissima schiera di coloro che potevano essere recuperati alla collettività per i quali occorrevano meri interventi di natura socia- le.

240 M. PAVARINI, Le fattispecie soggettive di pericolosità nelle leggi 27.12.1956 n. 1423 e 31.05.1965

n. 575, in Le misure di prevenzione. Atti del convegno di Alghero, Milano, 1975.

241 Questi modelli facevano riferimento non solo al delinquente-tipo (ladri, assassini) ma anche a

figure devianti e marginali (vagabondi, prostitute). Anche sotto questo profilo, il sistema preventivo personale sarebbe uscito rafforzato dalla previsione di modelli soggettivi di riferimento, che sembra-

Ma fu proprio l’idea cara a tutti i positivisti, secondo la quale esistono anche delinquenti incorreggibili, a legittimare ulteriormente la spirale perversa per cui un soggetto pericoloso può essere progressivamente eliminato dal tessuto sociale, trami-

n- temente dalla commissione di un reato242.

Con l’entrata in vigore del t.u. di p.s. del 1926 e con il successivo t.u.l.p.s del 1931 veniva chiarita la strategia di fondo del regime: estendere in via ordinaria le misure di prevenzione personale anche alla pericolosità politica ed amministrativiz- zare la loro applicazione.

Gli atteggiamenti della dottrina del ventennio nei confronti delle misure disci- plinate dai due testi unici del 1926 e 1931 erano stati sostanzialmente due: lo scadi- mento di interesse per i temi che avevano appassionato il dibattito nei decenni prece- grande rilevanza assunta dalla disputa tecnico-giuridica sulla natura, giurisdizionale o amministrativa, dei nuovi interventi preventivi del codice penale Rocco riguardanti le “misure di sicurezza”. Il silenzio sembrava coinvolgere quasi tutta la cultura giuri- dica: le linee portanti della cronica crisi delle misure di prevenzione scomparivano sia dalla cronaca giuridica che dal dibattito dottrinale. Era presente una totale subor- dinazione dell’individuo e dei suoi diritti alle esigenze di conservazione dello Stato, che il fascismo ereditava da una certa cultura liberale. L’autoritarismo liberale, infat- ti, aveva caratterizzato buona parte della cultura giuridica prece

i-

vano giustificare l’intervento preventivo di polizia indipendentemente dalla commissione di un reato, soprattutto quando tale intervento veniva mascherato con le finalità di emenda.

242 Quindi, nell’analisi della pericolosità sociale, la perdita di valore del dato prognostico del reato a

favore di valutazioni di carattere antropologico o criminologico avrebbe offerto una indispensabile giustificazione teorica ai provvedimenti limitativi della libertà personale, sganciati dall’accertamento di una violazione penale. È possibile, però, mettere in rilievo un altro elemento e cioè il fatto che in quell’ambito culturale si approfondiva l’idea, già presente nel pensiero classico, che la legittimità del modello preventivo dipendesse dalla sua reale effettività, dalla sua capacità di ridurre i reati all’interno della società.

viduale prima dello Stato”, detto principio portato alle estreme conseguenze, rendeva impossibile una critica al sistema complessivo della prevenzione di polizia243.

L’atteggiamento di fondo era di conferma della piena legittimità e necessità dell’intervento preventivo dello Stato, basato addirittura sul diritto dello Stato alla legittima difesa con il solo limite che esso fosse fondato su di un pericolo reale e non presunto senza peraltro spiegare gli indici attraverso i quali tale effettività del peri- colo potesse essere accertata244.

Grande rilevanza era assunta dalla disputa tecnico-giuridica sulla natura, giuri- sdizionale o amministrativa, delle neointrodotte misure di sicurezza nel codice Roc- co. Obiettivo del regime fascista era quello di svalutare gli aspetti di contiguità tra le nuove misure e la pena tradizionale, per costituire un ambito di intervento preventi- vo, sia post che praeter delictum, riconducibile sempre e comunque agli interessi ed alla valutazione discrezionale dello Stato-amministrazione, quand’anche nelle moda-

aria245.

Con l’emanazione della Costituzione le misure di prevenzione vennero “riadat- tate” ai nuovi principi di libertà. In Italia prima della Costituzione repubblicana la loro irrogazione avveni

approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773. Poiché il sistema si era rivelato in eviden- te contrasto con la Costituzione (in particolare con l’art.13), potendo tali misure

essere gravemente la legge 27 dicem-

bre 1956, n. 1423, legge che, ancora oggi, costituisce l’architrave dell’intero sistema,

243 Sul punto, in particolare, G. AMATO, Individuo ed autorità nella disciplina della libertà personale,

Milano, 1976, p. 261.

244 A. SACCONE, La legge di pubblica sicurezza, Milano, 1930, pp.185 ss.

245 D. PETRINI, La prevenzione inutile, cit., p.148. La natura amministrativa delle misure di sicurezza,

dichiarata dalla rubrica del titolo VIII del libro I del c.p. del 1930 non costituiva una mera questione sistematico formale, ma coinvolgeva una visione (dei rapporti tra cittadino e autorità da un lato, e tra i poteri dello Stato dall’altro), secondo la quale l’amministrazione poteva legittimamente e discrezio- nalmente valutare quali interventi compiere ai fini della prevenzione della criminalità, intervenendo in maniera anche molto incisiva nella sfera di libertà dei soggetti, al di fuori di qualsiasi controllo.

peraltro alquanto affollato da corpi normativi che si sono succeduti talvolta in se- quenza assai ravvicinata246.

Con la legge 31 maggio 1965, n. 575, invece, il legislatore ha introdotto nel no- stro ordinamento una serie di istituti a carattere preventivo specificamente, diretti al contrasto del fenomeno mafioso; ampliando l’ambito di applicazione della legge n.1423/1956, il provvedimento normativo estendeva le misure di prevenzione ivi previste ai soggetti “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”247.

Con la legge 22 maggio 1975, n. 152 (artt. 18 e 19), si stabiliva che le norme della legge n. 575/1965 fossero applicabili anche ai soggetti responsabili di atti pre- paratori diretti alla commissione di reati di sovversione e di terrorismo, nonché alle varie classi di soggetti socialmente pericolosi, indicate nei numeri 1 e 2 del primo comma dell’art.1 della legge n. 1423/1956. Con la legge 13 settembre 1982, n. 646 (c.d. legge Rognoni - La Torre), il legislatore apportava delle modifiche alla denomi- nazione originaria mutandola in “associazioni di tipo mafioso” per ricomprendervi espressamente “ la camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denomina-

o- definita la fattispecie criminosa di cui all’art. 416-bis c.p.

Le misure ante delictum e i giudizi sulla personalità dei soggetti passivi a cui rinvia la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, contrastano abbondantemente col sistema delle norme costituzionali248.

246 Sopravvivevano, però, nel nostro ordinamento, le misure previste dagli artt. 157 e 164 del Tulps

n.773 del 1931, che prevedevano, rispettivamente, il rimpatrio con f.v.o. e, come misura più affittiva, il confino di polizia, da espiarsi in una colonia o in un comune diverso da quello di residenza; il procedimento di applicazione veniva instaurato e gestito dall amministrativa, nella fattispecie il prefetto o il questore, in assenza di qualsivoglia garanzia per il proponendo.

247 La legge n. 575 del 1965 non definiva però i caratteri tipici dell’“associazione mafiosa”, per cui la

definizione e conseguentemente l’individuazione dell’“indiziato” diventava praticamente impossibile: la prima legge antimafia nasceva dunque con una sua congenita quanto fondamentale imperfezione, che ne avrebbe fortemente condizionato l’applicab NANULA, La lotta alla

mafia, Milano, 2009, p.4.

Non solo. I concetti di pericolosità sociale contenuti nel Codice Rocco del 1930, riferiti alle misure di sicurezza, sono definiti in modo più chiaro rispetto alle fattispecie soggettive ed oggettive contenute nella legge predetta sulle misure di prevenzione, contenente, di contro, concetti “impliciti” di pericolosità, e contorni non ben definiti. La legge del 1956, infatti, non fornisce nessuna definizione di “pericolo- sità”249. Tale ultima legge risulta assai meno rispettosa del principio di legalità in confronto al vecchio testo unico di pubblica sicurezza 30 giugno 1889, n. 6144, da un doppio punto di vista: da un lato per ciò che concerne la delimitazione delle categorie di persone suscettibili di diventare in concreto pericolose per l’ordine e la moralità pubbliche, dall’altro, per ciò che riguarda la determinatezza delle prescrizioni che si impongono all’osservanza del sorvegliato250.

Gli articoli 95 e 96 della legge 1889 fornivano una categorizzazione più precisa di quella contenuta nell’art. 1 della legge del 1956251.

Attualmente, al riguardo, viene sottolineato come la legge diventi fonte di in- certezza, e permetta che le intenzioni degli individui siano valutate per i fini più disparati252.

D’altro canto, la persona interessata dall’indagine si sente annoverata in un po- polo di sospettati. L’individuo non si sente più protetto dallo ius dicere ma controlla- to. Il legislatore pare proprio aver perso di vista il fatto di reato per privilegiare a

249 Ivi, p. 54. Il vizio di fondo ossia l’indeterminatezza delle fattispecie di pericolo, che consente

l’applicazione delle misure di prevenzione sulla base di meri sospetti di polizia, resta però tutt’ora inalterato. Altrettanto indeterminato resta l’oggetto delle misure patrimoniali, che possono colpire un singolo bene come l’intero patrimonio di un indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa o similare.

250 L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, cit., p. 54.

251 Appaiono pertanto giustificate le critiche espresse da Nuvolone circa l’incompatibilità con il

principio di legalità di almeno una parte della legge del 1956 laddove non si individuano comporta- menti tipici ma si ricorre solo a definizioni vaghe e generiche, riferentisi ad equivoche qualità di natura sociologica. Vedasi L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, cit., p. 55. Anche, ampiamente, P. NUVOLONE, Misure di sicurezza e misure di prevenzione, in Enc. dir., vol. XXVI,

Milano, 1976.

252 R. GUERRINI, L. MAZZA, S. RIONDATO, Le misure di prevenzione. Profili sostanziali e processuali,

purtroppo, ulteriormente suffragato dalle incertezze, dalle diverse e contrastanti opinioni di dottrina e giurisprudenza esistenti anche in materia di misure di preven- zione antimafia.

Ci si meraviglia del fatto che simili misure siano state per molto tempo (e lo siano tuttora) confuse con semplici limitazioni dei diritti provocate dalle necessità di polizia. Certo è che termini come “limite” o “limitazione” costituiscono accezioni di estrema ambiguità a loro volta ricompresi in categorie generalissime sotto cui ri- comprendere interi settori dell’attività svolta dalla polizia253.

È bene rimarcare come in assenza di un esplicito riconoscimento delle misure di prevenzione nella Carta costituzionale, pur essendo tali sanzioni ben presenti nell’esperienza giuridica italiana precedente l’emanazione della Costituzione, sia legittimo porsi l’interrogativo relativo al fondamento della limitazione dei diritti fondamentali, nei confronti di chi non abbia violato la norma penale, sulla base di un mero sospetto, consentendo in tal modo espressioni arbitrarie del potere. La sanzione maggiormente problematica che un ordinamento ispirato ai principi dello stato socia- le di diritto possa conoscere.

Il legislatore, nell’esercizio dei poteri attribuitigli e nel rispetto dei principi co- stituzionali, delimita l’ambito soggettivo delle persone pericolose, progressivamente ampliato rispetto a quello originariamente previsto dall’art. 1 della legge numero 1423 del 1956, con le leggi n. 575 del 1965, n. 110 del 1975, e da ultimo con le leggi n. 125 del 2008 e 94 del 2009.

In rapporto a settori criminali di accentuato allarme sociale il nostro ordina- mento ha proceduto all’adozione di strumenti più o meno autoritari d’intervento, anche perché, relativamente a quegli ambiti, l’adozione di tali strumenti poteva contare sul consenso diffuso della pubblica opinione254.

253 L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, cit., p. 21. 254 S. MOCCIA, La perenne emergenza, Napoli, 1997, pp. 78 ss.

La giurisprudenza costituzionale classifica la “pericolosità” come una qualità soggettiva, un modo di essere dell’individuo, da cui si deduce la probabilità che lo stesso possa commettere nuovi reati255.

La qualità descritta sopra si differenzia, però, dalla pericolosità sociale rilevan- te ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione. Infatti, “la pericolosità cui fa riferimento l’art. 3 della l. 27 dicembre 1956, n.1423 - Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità - è

quella sociale in senso lato, comprendente cioè, da una parte la semplice immoralità non costituente reato, dall’altra l’accertata predisposizione al delitto o la presunta vita delittuosa di una persona nei cui confronti non sia raggiunta una prova sicura di reità per un delitto. Tale pericolosità, a differenza di quella richiesta dall’art. 202 cod. pen. per l’applicazione di una misura di sicurezza, non è necessariamente collegata ad una affermazione di colpevolezza per un reato commesso, ma si ricava dall’esame dell’intera personalità del soggetto nonché da situazioni costituenti “sospetto” o “presunzioni”, purché gli uni e le altre appaiano fondati su elementi obiettivi e su fatti specifici ed accertati, quali la compagnia di pregiudicati, l’omertà, la mancanza di uno stabile lavoro, il tenore di vita superiore alle proprie possibilità economiche, le denunce per delitti anche colposi”256.

La legge n. 646/1982, oltre ad introdurre la figura di reato dell’associazione di tipo mafioso ha anche modificato la fattispecie di pericolosità al cui compimento consegue l’applicazione della misura di prevenzione257.

255 Secondo tale giurisprudenza tale qualità si differenzierebbe dalla cosiddetta “capacità criminale”,

presente sempre, in misura più o meno accentuata, nel caso in cui il soggetto abbia già commesso il reato, costituendo, quindi, un’ attitudine soggettiva alla commissione dei reati stessi. La capacità criminale rappresenterebbe, quindi, il genus e la pericolosità sociale invece, la species, poiché la prima costituisce solo una possibilità, mentre la seconda rappresenta una probabilità di compiere illeciti penali. In sostanza, la pericolosità sociale coinciderebbe solo con la dimensione prognostico - preven- tiva della capacità criminale ma non con quella etico - retributiva della medesima” (Cass., II, 5.6.1990, n. 9572, Aresu, CED).

256 Cass., I, 9.4.1968, ord. 590, Verterame, CED; conforme: Cass., I, 12.1.1968, ord. 2, Lorello, CED. 257 Quest’ultima è stata considerata la sanzione più problematica che un ordinamento ispirato ai

principi garantistici dello stato sociale di diritto possa conoscere. cfr. L. ELIA, Libertà personale e

misure di prevenzione, cit.; G. VASSALLI, Misure di prevenzione e diritto penale, in Studi in onore di

La nuova fattispecie di pericolosità, dal punto di vista strutturale, è stata model- lata sulla nuova ipotesi delittuosa di associazione ex art. 416 bis c.p., ritenuta censu- rabile anche sotto il profilo della sufficiente determinatezza. L’art. 1 della legge 31 maggio 1965 n. 575, introdotto nell’attuale formulazione dall’art. 13 della legge n. 646/1982, dispone l’applicabilità delle misure di prevenzione “agli indiziati di appar- tenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrisponden- ti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”. Tale fattispecie di pericolosità, per fondarsi su una base fattuale, carente sotto il profilo della tassatività, deve necessa- riamente assumere la fisionomia di una fattispecie di sospetto, con esiti allarmanti sotto il profilo della certezza del diritto. Inoltre, la presenza di indizi farebbe venir meno l’esigenza di attivazione del processo di prevenzione per attribuire preminenza al processo penale258.

La base dell’accertamento richiesto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione non riguarda gli aspetti fattuali poiché anche le fattispecie “indiziarie” introdotte ai fini di garanzia sono basate su fattispecie di sospetto che continuano ad assegnare al sistema delle misure di prevenzione il compito di sostituirsi alla ben più garantita attività di controllo del diritto penale del fatto, quando quest’ultima risulti inattuabile per carenza dei presupposti probatori. L’aspetto più grave è rappresentato dal fatto che questo fenomeno perverso sembra andare oltre il mero contesto norma- tivo antimafia.

In definitiva, qualsiasi richiamo al privilegio di elementi fattuali nell’accertamento della fattispecie di pericolosità, al fine dell’applicazione delle misure di prevenzione, è destinato a restare un’astratta affermazione di principio, dal