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Pericolosità sociale e “auto-co-immunità La paura dell’altro

La paura è fra i sentimenti quello che meno ragiona.

La società attuale viene sempre più paragonata ad una “società della paura”, in cui il panico sicuritario rischia di indurre politiche penali pronte ad accogliere l’irrazionalità dei bisogni emotivi di pena188. È altresì noto come la paura costituisca uno dei sentimenti su cui la politica fa leva, promettendo sicurezza e conquistando per questa via, più o meno meritatamente, coesione e consenso sociale.

Al riguardo, il crimine potrebbe essere considerato un fenomeno attorno al qua- le si cristallizza una serie di preoccupazioni e ansie, indicatori particolari di più ampie difficoltà di integrazione sociale che le istituzioni non riescono ad affrontare in modo efficace189.

È appurato come l’arma più antica del potere sia rappresentata dalla paura. Se- condo Montesquieu190, il sentimento della paura costituiva il principio d’azione di ogni regime dispotico. È appurato come attraverso la paura, il despota riesca a frena- re le ambizioni dei grandi uomini conservando così il suo potere. Entro la prospettiva descritta da Montesquieu, quindi, la paura funge da utile strumento politico per la stabilità e la continuità del potere tirannico.

188 M. PELISSERO, Pericolosità sociale e doppio binario, cit., p. 17.

189 ’atteggiamento della maggior parte delle persone che

confidano nella continuità della propria identità e nella costanza dell’

routine, e dipende dalla diffusione delle abitu- dini e dalla familiarità delle relazioni. La prevedibilità delle piccole routine quotidiane fornisce gene- ralmente un senso di sicurezza psicologica, ma quando quelle vengono sconvolte per una qualsiasi ragione, subentrano stati d’ansia capaci di scuotere e alterare anche gli aspetti più saldamente radicati della personalità. F. VIANELLO, D. PADOVAN, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell’insicu-

rezza, in www.ristretti.it/areestudio/giuridici/studi/vianello_padovan.pdf.

190 Montesquieu sosteneva fosse lo spettro del dispotismo a giustificare il principio della divisione dei

Anche la filosofa Hannah Arendt191, seppure ad un livello filosoficamente più profondo, ha posto l’accento sul ruolo della paura descrivendo il Terrore e le sue strategie nel contesto dei regimi totalitari.

Attualmente, la paura è diventata il sentimento dominante la vita pubblica, tan- to che vari studiosi sostengono di poter descrivere la nostra società come una “cultu- ra della paura”. Quest’ultima è quindi divenuta la lente d’ingrandimento di determi- nazione culturale, attraverso cui vien osservato il mondo192.

L’ossessione del rischio rappresenta un pericolo maggiore di tutti i rischi reali messi insieme e spesso la gente finisce per considerare tutto nell’ottica della paura193. La paura è inoltre contagiosa e può essere definita rischiosa se le informazioni, di carattere pubblico, vengono esposte in modo sufficientemente arbitrario194.

Il sentimento della paura può generare rabbia e altre reazioni abnormi compor- tando quindi, una modificazione a livello biochimico195.

191 Filosofa tedesca di origine ebrea, visse tra il 1906 e il 1975. La particolarità, l’eterodossia della tesi

arendtiana consiste nell’aver introdotto una netta distinzione tra Terrore e paura. Il terrore, in quanto essenza dei regimi totalitari, si fonda sulla sterile applicazione di quella che la Arendt definiva come la vera forza propulsiva di ogni totalitarismo, vale a dire quella legge naturale del movimento il cui scopo è la selezione di una élite dominante.

192 L. SVENDSEN, Filosofia della paura, cit., p. 16. In questo testo l’autore effettua una diagnosi sulla

società contemporanea ponendo in evidenza il pervadere della paura nell’ambito della vita quotidiana, e come questo sentimento riesca a colonizzare le nostre vite, nonostante si conduca un’esistenza tra le più sicure rispetto a quelle che ci hanno preceduto.

193 L. SVENDSEN, Filosofia della paura, cit., p. 17.

194 Ivi, p. 22. Secondo lo stesso autore: “La paura è anche un’importante risorsa politica per autorità

pubbliche, partiti e organizzazioni extra-statali. In un’epoca in cui le vecchie ideologie si stanno indebolendo, la paura diventa uno dei mezzi più potenti nel dibattito politico in quanto, crea il tessuto comune sul quale veicolare messaggi e può essere usata per disgregare gli oppositori, accusandoli di guidarci su strade rischiose”: Ivi, p. 21.

195 Ivi, p. 31, secondo il quale la rabbia e la paura hanno componenti biochimiche molto simili. Inoltre,

non esiste alcuna realtà fisica necessariamente subordinata ad una realtà emozionale. Ovverosia, due persone possono trovarsi nella stessa situazione fisica, ma in una realtà emozionale diversa. Esistono reazioni corporee spesso collegate alla paura, come ad esempio l’accelerazione del respiro o del battito cardiaco, o il loro apparente blocco, come un generale tremolio o la sensazione di movimento “congelato”. La reazione degli esseri umani alle minacce, comporta il rilascio di sostanze come l’adrenalina e il cortisolo provocanti una “accensione” del sistema nervoso. La ragione umana può fare ben poco quando la paura sopraggiunge. Ivi, pp. 31-32.

E questo dato risulta di particolare rilievo se si considera che i sentimenti non sono solo qualcosa di “naturale” e diretto ma sono soprattutto reazioni, individuali e collettive, socialmente costruite196.

Le emozioni sono strettamente collegate con specifiche categorie di compor- tamento e i motivi per cui queste categorie si sono sviluppate risiedono nel fatto che sono state evolutivamente vantaggiose197.

La paura è seguita di solito o dalla fuga o dall’attacco198. Ciò significa che l’induzione alla paura conduce, inevitabilmente, a reazioni o di remissione o di ag- gressività199.

Il fenomeno della “paura derivata” presenta anche dei riflessi assai marcati ri- guardo il sentimento e la percezione collettivi200. Questi ultimi determinano, secondo

196 Ivi, p. 36: “gli uomini creano fantasie sul male, lo vedono nei luoghi sbagliati, e distruggono se

stessi e gli altri imperversando inutilmente”. cfr. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit.; ID., La

società disciplinare, cit.; J. BOURKE, Paura: una storia culturale, Roma, 2007.

197 L. SVENDSEN, Filosofia della paura, cit., p. 36. Provare un sentimento di paura e dar corso a tutte

le conseguenze connesse, il più delle volte contiene vantaggi di carattere sociale, indotti e precostituiti culturalmente. Cfr. con l’opera di L.BERZANO,F.PRINA, Sociologia della devianza, Roma, 2005, p.

108, dove si recita: “Un individuo diventa deviante quando le interpretazioni sfavorevoli nei confronti della legge sono più forti di quelle favorevoli. Questo costituisce il principio dell’associazione diffe- renziale”. Si sottolinea altresì, il ruolo assunto dalla variabile costituita dalla manipolazione dell’allarme sociale, descritta finemente dal sociologo Sutherland: Ivi, p. 109.

198 L. SVENDSEN, Filosofia della paura, cit., p. 37. Come la paura possa determinare agiti inconsulti,

indotti da un certo sistema culturale, rendendo il soggetto “pericoloso”. Cfr. con l’opera di F. ANTO- NINI, L’uomo furioso, Studio sull’aggressività collettiva, Firenze, 1974.

199 È importante sottolineare questo aspetto poiché contenente forti implicazioni anche rispetto al

concetto di “pericolosità sociale”. Il sociologo Zygmunt Bauman descrive in alcune delle sue opere le conseguenze della cosiddetta “paura derivata”, espressione, più che altro, di un sentimento di insicu- rezza prodotto dal dubbio circa l’esistenza di pericoli potenziali, sul presupposto (creato culturalmen- te) che il mondo sia un posto insicuro. La paura è dunque una sorta di visione del mondo, nella quale la propria vulnerabilità è la regola fondamentale. Sul punto vedasi anche, L. SVENDSEN, Filosofia

della paura, cit., p. 55; Z. BAUMAN, Paura liquida, Roma-Bari, 2008, pp. 5 ss.

200 Il sociologo Anthony Giddens descrive l’era della tarda modernità come una “cultura del rischio”.

Questo non corrisponde, però, ad una maggiore esposizione ai pericoli, bensì al grado e all’intensità della rappresentazione del “pericolo” in quanto tale, ad opera dell’individuo. Vedasi al riguardo l’opera A. GIDDENS, Identità e società moderna, Napoli, 1999, p. 6; anche L. SVENDSEN, Filosofia

della paura, cit., p. 57. Il sociologo Ulrich Beck definisce questa cultura presente a livello collettivo

come la “società del rischio”, percezione basata non su dati di fatto bensì, prevalentemente, su una fantomatica prognosi futura circa “quello che potrebbe succedere”. In U. BECK, La società del ri-

schio: verso una nuova modernità, ed. it. a cura di Walter Privitera, Roma, 2000, p. 95, viene descritta

il paradigma epistemologico costruzionista201, quei fattori di contesto tipici di una “società del rischio”202.

D’altro canto, la paura, sebbene inibisca la capacità di scelta, riducendo gli spazi per la libera fruizione dei diritti e delle libertà fondamentali, conserva tuttavia, i germi della reazione e rende possibile il superamento della condizione di minorità e di dominio203. Inoltre, la paura non annulla nel soggetto la consapevolezza della sua individualità. Il timore, infatti, è espressione dell’individualità: un’individualità repressa, sottomessa, ma ancora presente e quindi ancora in grado di ribellarsi. La

201 Nel libro La realtà come costruzione sociale (Bologna, 1997), i sociologi Berger e Luckmann

intendono con il termine di costruzione sociale quel processo attraverso il quale le persone creano continuamente per mezzo delle loro azioni e delle loro interazioni una realtà comune e condivisa, esperita come oggettiva, fattuale e densa di significato soggettivamente. Come Garfinkel, anche Berger e Luckmann ritengono che l’interazione sia il luogo centrale dell’azione e dell’interpretazione del mondo circostante. Attraverso l’interazione, infatti, gli individui possono trasformare i loro signi- ficati soggettivi in fattualità oggettive, dando significato alla realtà e quindi costruendola. A differenza dell’etnometodologia, però, il costruzionismo sociale di Berger e Luckmann cerca di includere sia la realtà oggettiva sia quella soggettiva, unendo nella teoria e nella ricerca i piani micro e macro dell’analisi sociologica. C’è ampio disaccordo su che cosa sia il rischio, se si tratti di qualcosa di oggettivo o piuttosto di una costruzione sociale. Sebbene presenti sicuramente degli aspetti oggettivi, poiché esistono relazioni causali obiettive, il rischio è qualcosa di più. È composto anche da elementi soggettivi e sociali: un rischio non esiste indipendentemente da coloro che ne sono coinvolti. Il motivo per cui certe forme di rischio vengono messe in risalto più di altre è che si adattano a opinioni condi- vise dalla maggior parte delle persone, opinioni soprattutto di genere morale, suscettibili di variazione a seconda del tipo di cultura. Ogni rischio viene inserito in un discorso morale. Inoltre, è constatato come, il pericolo diventi degno di attenzione quando c’è qualcuno da incolpare. La socioantropologa Mary Douglas collega il concetto di rischio a quello di “colpa” e, più precisamente, spiega come il concetto di “rischio” entri a far parte del discorso morale e politico nel momento in cui la colpa è assegnata a qualcuno, poiché qualcun altro è minacciato dal pericolo. Insomma, la prospettiva di paura e quella di rischio necessitano di una vittima: senza vittima effettiva o potenziale perdono forza. L’aumento di concentrazione sulla paura coincide perciò con un corrispondente incremento di nuove categorie di vittime. La vittima è esonerata dalla responsabilità della situazione in cui si trova. La paura e il rischio hanno, pertanto, importanti riflessi sulla creazione del processo di vittimizzazione. Sul tema L. SVENDSEN, Filosofia della paura, cit., pp. 61 ss.; M. DOUGLAS, Rischio e colpa, Bologna,

1996.

202 La parola “rischio” deriva dal latino medievale risicum che vuol dire “osare”. Da questo punto di

vista, il rischio è collegato con la scelta, ossia il rischio è qualcosa che scegliamo di assumerci. Nella nostra quotidianità, invece, il rischio diventa non qualcosa che si sceglie, ma piuttosto qualcosa a cui siamo esposti contro la nostra volontà. Oggi il concetto di rischio è quasi unicamente carico di signifi- cato negativo. “Rischio” è diventato sinonimo di “pericolo”. In quanto esseri umani, abbiamo coscien- za del rischio perché le nostre vite sono imprevedibili. Il problema è che la nostra idea di pericolo spesso ci fornisce un’immagine sistematicamente distorta del mondo. Vedasi al riguardo L. SVEND- SEN, Filosofia della paura, cit., pp. 60-61. Cfr. M. DOUGLAS, Rischio e colpa, cit.

203 Fattori positivi della paura. Autoefficacia percepita e meccanismi psicologici. Utilizzare il senti-

paura nasce dalla consapevolezza di trovarsi in uno stato di soggezione e di dominio, e ciò rappresenta la linfa stessa della libertà e del desiderio di riscatto204.

Risulta pertanto importante comprendere il ruolo che le passioni in generale, e la paura in particolare, possono esercitare nella costruzione di una teoria politica ispirata ai principi del liberalismo. I dilemmi che un simile problema pone forniscono elementi di riflessione sia entro una prospettiva prettamente storico-filosofica, vale a dire come tentativo di definire un itinerario filosofico-politico centrato sulla paura, sia rispetto agli inquadramenti sociologici. E sotto quest’ultimo profilo, risulta inte- ressante l’approfondimento di M. Foucault sulla storia e le pratiche disciplinari delle istituzioni politiche, in riferimento al ruolo più o meno marcato assegnato alla paura e alle forme di soggezione205.

Attualmente ci troviamo in presenza di un’azione politica che “insecuritizza” non solo la vita degli individui, ma i rapporti degli stessi con tutte le istituzioni depu-

204 Il termine “liberalismo della paura”, deriva da un interessante saggio di Judith Shklar pubblicato

nel 1989 nel volume Liberalism and the Moral Life (J. SHKLAR, The Liberalism of Fear, in ROSEN- BLUM N. (a cura di), Liberalism and the Moral Life, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1989, pp. 21-38). In quel saggio, la Shklar presentava una teoria suggestiva, reinterpretando alcuni concetti chiave del liberalismo. Una rilettura che merita di essere discussa e approfondita poiché, essa consente di sciogliere alcuni nodi inerenti all’interpretazione del modello liberale ed alla sua praticabi- lità politica e di chiarire quei fraintendimenti che mettono in discussione la solidità stessa di un simile approccio. Vedasi V. MAIMONE, Judith Shklar e il liberalismo della paura. Una teoria etico-

politica, Atti della Reale Accademia Peloritana dei Pericolanti, 2001, LXXVII. pp. 101-114.

205 L’attenzione a tale aspetto risulta anche importante da un punto di vista concettuale considerando

la paura come una componente essenziale nella teorizzazione e nella costruzione di sistemi politici. L’analisi approfondita delle implicazioni e delle scelte, sia individuali che collettive, derivanti dalla comprensione della rilevanza della paura costituisce una strategia politicamente vincente attraverso cui è possibile influire, in modo decisivo e costruttivo nella formazione di società nelle quali gli individui siano più liberi e dunque meno soggetti a forme di dominio e di violenza. Il tema della sicurezza, al centro dei profetici interventi di Foucault, successivi a Sorvegliare e punire, definisce la posta in gioco nell’esercizio della governamentalità. A giudizio di tale autore, il nuovo patto che lo Stato (incluso lo Stato sociale e socialista) offre al cittadino-consumatore è il cosiddetto “patto di sicurezza” post-schmittiano, emotivamente incardinato sul binomio paura-protezione. Se bisogna difendere la società dal pericolo e se, dunque, la sicurezza viene posta dallo Stato “al di sopra delle leggi”, qualunque pratica governamentale tenderà ad una circolare produzione di paura e sicurezza. Attraverso tale perverso meccanismo si legittima la pretestuosa protezione del cittadino, a sua volta, oggettivato nella “popolazione”, costituente, allo stesso tempo, il bersaglio del patto di sicurezza. Foucault inquadra il fenomeno terroristico all’interno dell’ossessione sicuritaria prodotta ad arte dallo Stato per governare la popolazione attraverso misure d’eccezione. Al riguardo, vedasi l’approfon- dimento: E. DE CONCILIIS,Foucault e il governo della paura, post-fazione a Critiche del giudizio, in

tate a proteggerli. Ciò risulta una conseguenza anche e soprattutto dei fenomeni di terrorismo che generano angoscia e disorientamento generale. Il risultato si manifesta attraverso una totale adesione delle persone alla volontà statuale, dalla quale sono portate ad accettare qualsiasi azione, l’imposizione delle tasse, la gerarchia, l’acritica obbedienza, purché lo Stato si faccia carico di proteggere e garantire il cittadino contro l’insicurezza e il pericolo collettivo206.

Pertanto, conoscere e soprattutto ri-conoscere la paura, costituisce non solo il primo passo per ammettere l’importanza determinante delle passioni nella motiva- zione degli uomini all’agire, ma anche la chance e scoprirne l’irrinunciabile funzione produttiva e mobilitante. Disconoscerla significa, al contrario, inibire o alterare quel processo emotivo e cognitivo che prelude alla valutazione e all’azione, e che consen- te di far fronte alla minaccia attraverso risposte costruttive, adeguate al perseguimen- to del bene degli individui e della collettività207.