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Immunità del soggetto biopolitico

Nel giro di qualche anno – da quando Foucault ne ha riproposto il concetto – la categoria di “biopolitica” ha conquistato un ruolo di primo piano nel dibattito teorico internazionale. Ci si domanda che cosa Foucault intendesse per “politica” e per “vita”. Tale rapporto potrebbe essere rintracciato nel paradigma di “immunizzazio- ne”154.

La categoria dell’immunità si pone sulla linea di tangenza tra la sfera della vita e quella del diritto. Se infatti nel vocabolario medico essa si riferisce a una condizio- ne di refrattarietà, naturale o indotta, nei confronti di una data malattia da parte di un organismo vivente, in linguaggio giuridico-politico allude ad un’esenzione, tempora- nea o definitiva, di un soggetto rispetto a determinati obblighi o responsabilità cui gli altri sono invece sottoposti. Tale paradigma di immunizzazione permette di ricolle- garci all’aspetto ambivalente, affermativo e/o distruttivo, del concetto di biopolitica. Il vantaggio di questo paradigma risiede nel fatto che queste due direzioni di senso – positivo e negativo, conservativo e distruttivo – ci dicono che l’immunizzazione è una forma di protezione negativa. Infatti, l’immunità, necessaria a proteggere la nostra vita, se portata oltre una certa soglia, finisce per negarla. La costringe entro una sorta di gabbia nella quale si perde non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza individuale e collettiva: vale a dire quella circolazione sociale, quell’affacciarsi all’esistenza fuori di sé, definita come communitas, ossia il carattere costitutivamente esposto dell’esistenza. Ci troviamo di fronte ad una contraddizione: ciò che salvaguarda il corpo individuale e politico è anche ciò che ne impedisce lo sviluppo. E che, anzi, oltre un certo punto, rischia di distruggerlo155.

Come è noto, per vaccinare un paziente nei confronti di una malattia, se ne immette nel suo organismo una porzione controllata e sostenibile. La medicina è fatta dello stesso veleno da cui deve proteggere. Se si riporta questa pratica immunologica all’interno del corpo sociale, si coglie la stessa antinomia, lo stesso paradosso contro-

154 Ivi, pp. 123 ss. 155 Ivi, p. 126.

fattuale: alzare continuamente la soglia di attenzione della società nei confronti del rischio – come da tempo siamo abituati a fare – significa bloccarne la crescita o addirittura farla regredire al suo stadio primitivo sia sul piano della libertà individua- le sia su quello dell’interesse generale. Non solo, c’è anche un punto oltre il quale l’insistenza ossessiva nei confronti del rischio diventa essa stessa un pericolo. È come se, anziché adeguare il livello della protezione alla effettiva entità del rischio, si adeguasse la percezione del rischio alla esigenza crescente di protezione. Vale a dire si creasse artificialmente il rischio per poterlo controllare.

Certo il sistema immunitario è necessario. Nessun corpo individuale o sociale potrebbe farne a meno, ma quando esso cresce a dismisura finisce per portare il corpo stesso all’esplosione o all’implosione156.

Al giorno d’oggi la paura della criminalità si è impossessata della vita quoti- diana, è diventata un fenomeno sociale imponente, aumentando il senso di insicu- rezza collettiva. Inoltre, ad accrescere questo stato d’animo collettivo, che gli italiani pongono al primo posto tra i problemi del Paese, contribuiscono anche situazioni di disordine sociale e di degrado fisico, sintomo di rottura del patto sociale, che induco- no senso di disorientamento sociale e paura dell’Altro da sé. Nella insicurezza collet- tiva è compresa, in maniera importante, il timore verso la criminalità in genere e in particolar modo la categoria degli extracomunitari157.

Pensare di risolvere questo stato di cose con gli strumenti concettuali e le stra- tegie autoconservative del lessico politico moderno appare impensabile. Credere che la vita possa essere salvata attraverso i canali ostruiti delle istituzioni sovrane o quelli, ineffettuali, del diritto internazionale, è un’idea che non porta lontano. La nuova politica deve essere ripensata a partire da un concetto di vita rinnovato, in modo tale che la vita così concepita possa indicare un orizzonte di senso diverso. La vita va ripensata in tutta la sua complessità e cioè deve essere sottratta a quella ridu-

156 Ivi, p. 127. D’altra parte il fatto che la minaccia più forte, o almeno quella avvertita come tale, sia

oggi costituita da un attacco biologico ha un significato ben preciso: e cioè che ormai non è più solo la morte ad insidiare la vita, ma la vita stessa ad apparire come il più micidiale strumento di morte.

zione a semplice e nuda falda biologica quale sogno di una biopolitica che col tempo è divenuta e si è rovesciata in tanatopolitica158.

La razionalità della politica moderna ha introdotto il dilemma dell’individualizzazione – totalizzazione, singolo – società che nella sua antinomicità ha storicamente prodotto “gli immani massacri delle guerre moderne, il razzismo di Stato, il genocidio” che costituiscono il punto estremo in cui la biopolitica moderna si trasforma in tanato-politica. In altri termini il dilemma indotto da due forme etero- genee di potenziamento della vita una rivolta ai singoli individui, l’altra al benessere collettivo è, secondo Foucault, alla radice dei problemi concernenti la razionalizza- zione politica che, attraversando la modernità, giungono fino a noi. Fra le forme che assume, secondo Foucault, l’antinomia individualizzazione – totalizzazione due appaiono particolarmente significative anche nell’attualità del dibattito bioetico e biopolitico: la non corrispondenza fra crescita delle capacità e crescita delle libertà e il rapporto conflittuale libertà-sicurezza159.

“Relativamente al campo della devianza, non a caso, oggi in molte aree del no- stro Paese e in alcune zone dei centri urbani si riscontra una elevata sensibilità al rischio di vittimizzazione, in parte dovuto ai mutamenti sociali e alla diretta espe- rienza della criminalità da parte di ampi strati della popolazione. D’altro canto, le potenziali influenze della insicurezza collettiva sulle scelte di politica criminale non riflettono tanto il dato oggettivo di aumento del tasso di insicurezza, quanto piuttosto la percezione sociale di tale insicurezza. Ciò in quanto il rischio non rappresenta mai un dato statico ma costituisce, piuttosto, un fenomeno costantemente costruito e negoziato in quanto elemento di una rete di interazione sociale. Da questa prospettiva la società dell’insicurezza si trasforma in società della paura, in cui il panico sicurita-

158 Il vivente può diventare oggi una fonte di ispirazione di nuove domande per la riflessione politica,

ma anche il cardine di una rotazione capace di rovesciarne interamente la prospettiva (L. BAZZICALU- PO, R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita, cit., p. 129) Sulla tanatopolitica si consulti anche: R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004, pp. XVIII-216; R. ESPOSITO, Dall’impolitico

all’impersonale. Conversazioni filosofiche, a cura di M. SAIDEL e G.V. ARIAS, Milano-Udine, 2012,

p. 211.

rio rischia di indurre politiche penali pronte ad accogliere l’irrazionalità dei bisogni emotivi di pena”160”.

A proposito di esiti tanatologici, Esposito cerca, invece, di rovesciare dialetti- camente il paradigma immunitario, secondo cui un’eccessiva protezione della vita si trasforma inevitabilmente nella sua auto-distruzione, domandandosi se sia possibile essere soggetti anziché oggetti di una biopolitica e pensare, quindi, in termini di una biopolitica affermativa. Per sperimentare tale possibilità bisogna spostarsi dall’orizzonte teorico entro il quale la biopolitica è stata finora pensata per contami- narne il lessico e i termini attraverso una nuova ricerca insieme epistemologica e teoretica. La categoria di immunizzazione vuole essere un primo contributo in questa direzione. Naturalmente ciò richiede una problematizzazione della concezione cor- rente di sistema immunitario come pura barriera difensiva o addirittura offensiva degli organismi biologici verso ciò che non ne fa originariamente parte, una differen- te filosofia della immunizzazione e della stessa identità individuale in cui questa sia intesa non come un dato definitivo, ma come un costrutto determinato appunto dal rapporto continuo con l’ambiente in cui è immersa161.

Il nuovo modo di essere del corpo politico dovrà fare leva proprio sulla valo- rizzazione dei differenti elementi presenti nello stesso che lo costituiscono. Ogni nato viene al mondo come un estraneo, o uno straniero, non solo nei confronti di tutti coloro con cui per la prima volta entra in contatto, ma della stessa madre che lo portava dentro combattendo contro di lui nella tensione di due sistemi immunitari diversi e contrapposti. Il nato, colui che entra per la prima volta nel mondo, è l’espressione del fatto che non soltanto l’estraneo e lo straniero, ma il potenziale nemico, almeno una volta, la prima volta, è stato ospitato in ragione della sua stessa eterogeneità162.

160 M. PELISSERO, Pericolosità sociale e doppio binario, cit. p. 17.

161 L. BAZZICALUPO, R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita, cit., p. 130. 162 Ivi, p. 131.

Da questo punto di vista la funzione immunitaria lascia trasparire nella forma più limpida il rapporto costitutivo che la lega al suo rovescio comune. Il nato è il portatore singolare, ma anche infinitamente plurale, del munus in tutti i sensi che originariamente caratterizzavano questo termine: in quello del dono, ma anche del rischio e dell’obbligo che tale dono comporta163.

La nascita non può essere né imposta né presupposta perché ha la forma e il contenuto dell’esposizione: una volta reciso il cordone ombelicale che lo lega al ventre protettivo della madre, il nato è l’esposto.

Il processo di socializzazione della politica porta con sé l’evidente indeboli- mento del nesso sovrano obbedienza/disobbedienza, esclusione/inclusione a favore di una prassi di implicazione reciproca dei due termini. È la dialettica dell’immuniz- zazione.

Il taglio decisivo della sovranità (dentro/fuori) viene, se non superato, depoten- ziato da una prassi che regolarizza contenendo. Una prassi che non mira ad annienta- re il nemico/pericolo ma a mantenerlo, almeno fino a quando è statisticamente vitale, nel corpo stesso della cittadinanza. È un’assunzione calcolata della minaccia mortale per portare a termine un compito di salvaguardia della vita164.

163 Il termine latino hostis ha un parallelo in un altro termine latino, munus, inteso come un dono che

obbliga a uno scambio, dalla radice mei che è proprio “dare in cambio”. Se munus vuol significare un dono che obbliga a uno scambio, l’aggettivo derivato communis è propriamente chi ha in comune dei

munia cioè dei doni da scambiarsi. Ora quando questo sistema di compensazione gioca all’interno di

una stessa cerchia determina una “comunità”, un insieme di uomini uniti da questo legame di recipro- cità. E così dalla radice mei arriviamo alla radice meit con il suffisso t che compare nel verbo latino muto: cambiare, scambiare. L’aggettivo derivato mutuus ne precisa il significato in reciproco, dall’uno all’altro. Quindi mutuare vuol dire prendere in prestito. Noi per esempio intendiamo il mutuo appog- gio nel senso di reciproco, dall’uno all’altro, facendolo entrare nel ciclo dello scambio. Così termini diversissimi gli uni dagli altri come hostes, xenos, munus o mitra, ci riportano allo stesso problema: quello delle istituzioni di ospitalità e di reciprocità grazie alle quali gli uomini di un popolo trovano

accoglienza presso un altro popolo e le società praticano alleanze e scambi. L’espressione semplice

per donare, per un dono che non esiga un contro-dono la troviamo nella radice indoeuropea del latino

do, donum, e dorum in greco. La nozione di donare indica ovunque in tutte le lingue il dono senza

ritorno.) Per un approfondimento del tema si rinvia a: S. ZANARDO, Il legame del dono, Milano, 2007, p. 40.

164 Dialettica del liberalismo – come ci fa notare Foucault – tra produzione della libertà e consumazio-

ne della stessa da parte di coloro che producendo la libertà, la limitano. L’obiettivo della maggiore libertà implica la messa in opera di strategie di sicurezza. Maggiore libertà significa maggiori control- li, maggiori interventi, procedure di riduzione della libertà, costi, sacrificalità.

Non va inoltre dimenticato che la normalizzazione, per quanto si riferisca ad una sorta di immanentizzazione del potere regolativo, richiede comunque l’applicazione di una regola, che esclude, delimita, circoscrive il campo del suo intervento produttivo-protettivo, anche se poi riassume a livello statistico ciò che ha escluso. E questo significa che non abbiamo finito con la questione del diritto e della sua sovranità165.

Il potere biopolitico passa attraverso i corpi e ogni ampliamento dei diritti ha come corollario una crescente iscrizione della vita nell’ambito del governo. Dunque è nella corporeità che affondano le rivendicazioni di un potere di autogestione del corpo, di felicità e soddisfazione dei bisogni, la capacità e la possibilità di ritrovare la propria spontaneità espressiva contro le diverse forme di disciplinamento e di repres- sione166.

Questo è l’esito estremo della “moderna” individualità anticomunitaria come luogo legittimante della politica. Luogo di potere come luogo di differenza.

Dobbiamo ricordare le difficoltà di una resistenza vitalistica e immanente, in- frapolitica: perché questa singolarità sia politica deve avere la consapevolezza che il suo stesso porsi non si dà come nuda vita prima della forma.

La stessa proiezione che la presenta e la racconta come energia e vita, come corpo vivente, non fa che artatamente deprivare il vivere, che è sempre un modo di essere della vita, una possibilità, un potere di “forma”. Ci sono livelli diversi di forma di vita, e queste forme sono non-essenze, sono azione multipla ed eterogenea di forze in direzione dell’ibridazione con l’alterità, dell’artificio, della tecnica attra- verso intenzioni, scelte, relazioni. Ciò è molto importante poiché né la biologia né la antropologia ci disegnano l’essenza dell’uomo prima del suo costitutivo relazionarsi a ciò che è fuori di lui, a ciò a cui si apre: l’animalità o vitalità dell’uomo è il suo stesso “aprirsi”, “sentire”, la sua reattività attiva o la sua passività recettiva- trasformatrice che dipende da ciò che è altro da sé. E, dipendendo, (dunque in modo

165 L. BAZZICALUPO, R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita, cit., p. 140. 166 Ivi, p. 141.

non divinamente creatore e non “autentico”) disegna forme mimetiche costituendo, dunque, tecnica, arte come artificio e tecnica. Questo implica un ripensamento dell’identità come costitutivamente non insulare, meticcia, ibrida ma dotata di una spinta liberatrice167.