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Agli albori del sistema amministrativo e fiscale italiano, nel 1861, si pone il problema del coordinamento dei vari ordinamenti presenti negli Stati previgenti, dove le molteplici previsioni tributarie e fiscali si presentano differenziate e difficilmente riconducibili a unità. Il sistema fiscale italiano, tra le molteplici fonti, discende parzialmente da quello napoleonico e soprattutto da quello vigente nel Regno di Sardegna, considerato uno dei più gravosi tra i modelli pre unitari. L’ordinamento sardo non era disciplinato da normative specifiche né poteva considerarsi sistematico, moderno ed efficiente. I già numerosi difetti di questa struttura vennero aggravati dalle severe differenze territoriali dell’Italia unificata, dall’eterogeneità della struttura economica e sociale e dalle incomprensioni linguistiche presenti tra le varie zone demografiche. Di fronte a una situazione di così grave scollamento, il nuovo Regno d’Italia opta quindi per un ordinamento unitario e accentrato a discapito di un possibile decentramento amministrativo.109 Tuttavia si manifesta, in tale fase, un'inevitabile

incoerenza strutturale e una forte influenza dei modelli precedenti sul novello ordinamento. Nel 1865 la legge n. 2248 attribuisce ai Comuni e alle Province un sistema tributario nuovo: è

109 AMOROSINO-LANTIERI 1982, pp. 33 e ss.; MARONGIU 2001, a p. 2, afferma che Acceso fu il dibattito tra chi riteneva che l’unità politica si manifestasse al meglio grazie ad uno Stato centrale forte e chi riteneva invece che dovesse crearsi a livello locale, mediante partiti, organi di autogoverno e associazioni della società civile.

con questo atto legislativo che si opera l’unificazione legale dei tributi vigenti negli Stati pre unitari.110 Le entrate sono classificate in patrimoniali e tributarie: le spese dovevano essere

finanziate innanzitutto mediante le prime e, solo nel caso di insufficiente copertura, potevano intervenire le seconde. Tra le entrate tributarie, da applicare solo in caso di gettito insufficiente, si possono rammentare: i Dazi, l’Appalto dell’esercizio del diritto di spesa pubblica della misura dei cereali e del vino, l’Affitto di banchi pubblici durante fiere e mercati, la Tassa per l’occupazione di spazi pubblici, quella sulle bestie da soma, da tiro, da sella e sui cani, nonché le sovraimposte alle Imposte dirette e reali dello Stato (di ricchezza mobile, sui terreni e sui fabbricati). Queste ultime, da entrata straordinaria prevista per coprire un eventuale disavanzo, diventano nel tempo il metodo ordinario di finanziamento, generandosi in tal modo una forte concorrenza tra centro e periferia a causa della comunanza delle fonti di entrata dei due livelli di governo.111 Di fronte a chi auspicava un’accentuata

autonomia tributaria dei Comuni,112 è prevalsa la tendenza dello Stato centrale di limitarla

mediante la fissazione di limiti massimi alle sovraimposte e tramite la sottrazione all’imposizione degli enti locali della ricchezza mobile.

La scelta attuata nella direzione di un accentramento impositivo e di gestione delle entrate e delle spese pubbliche ha messo in evidenza una precisa volontà politica: il prelievo e il finanziamento non sarebbero dovuti avvenire a livello territoriale locale, ma secondo le logiche della collaborazione nazionale. La contribuzione e la consequenziale percezione delle funzioni pubbliche hanno così subito un processo di centralizzazione, che ha escluso sempre più la responsabilità degli enti sub-statali nella potestà finanziaria e tributaria nonché, conseguentemente, nelle scelte amministrative e politiche.

Tale indirizzo politico, tendente a una sempre maggior accentuazione della posizione statale a discapito di quella locale, accresce fino al 1931, anno di emanazione del Testo Unico sulla finanza locale. Nel frattempo i Comuni si trovano costretti a ricorrere sempre più di frequente all’indebitamento per coprire le proprie spese, ma i progetti di riforma del sistema fiscale

110 AMATUCCI 2010, p. 97. 111 AMATUCCI 2010, pp. 97 e 98.

112 MARONGIU 2001, p. 14, sostiene che «quanto alle entrate fiscali non erano mancati coloro che avrebbero inteso dare alla finanza locale basi distinte e sciolte da ogni legame con la finanza dello Stato: si trattava “di un riflesso di quel sentimento di autonomia che fu in ogni tempo vigoroso in Italia, sebbene abbia avuto assai lenta e limitata applicazione”. Ma “per la svariata situazione in cui gli Enti locali si trovavano in Italia” gravi difficoltà insorsero quando si trattò di tradurre quel pensiero in concrete disposizioni di legge».

locale non raggiungono mai una completa attuazione. Neppure quando, il 14 settembre 1931, è emanato il Testo Unico n. 1175, si arriva a una ristrutturazione organica dell’ordinamento, ma ci si limita ad un’opera di sistematizzazione delle fattispecie esistenti. Il Testo Unico, entrato in vigore il 1. gennaio 1932, alleggerisce i bilanci degli enti locali di alcune spese, soprattutto per quanto riguarda la pubblica istruzione. Sullo speculare versante delle entrate l’intervento legislativo sopprime l’addizionale all’Imposta complementare, le Tasse sulle bestie da soma, da tiro e da sella, quelle sulle fotografie, i Contributi di fognatura, le Imposte su birra e acque minerali da tavola, la Tassa sugli esercizi e sulle rivendite e venne sostituito il Contributo di manutenzione stradale con la Tassa di circolazione sui veicoli a trazione animale e sui velocipedi. Molti comunque sono i prelievi che sopravvivono al Testo Unico: l’Imposta di patente e quella sulle industrie, sui commerci, le arti e le professioni, l’Imposta sulle insegne, di licenza, sulle vetture, sul bestiame e sui domestici, la Tassa sull’occupazione di spazi ed aree pubbliche, l’Imposta sui cani, sui bigliardi e sui pianoforti, la Sovraimposta fondiaria, l’Imposta sul valore locativo, l’Imposta di famiglia, i Dazi e i Contributi di miglioria, che proprio con questo intervento l’istituto vengono valorizzati e sistematizzati in due rami: generici e specifici.113 La limitatezza dell’intervento comporta l’ovvia conseguenza

per cui la Riforma non ha risolto i problemi dei Comuni, visto che permangono pesanti situazioni di squilibrio e rimane invariato il grado di autonomia.114 Le esigenze belliche,

intervenute qualche anno dopo, portano alle estreme conseguenze tale visione del sistema, comprimendo in maniera sempre maggiore le entrate degli enti sub-statali, i quali arrivano perfino a dover prevedere imposte straordinarie per garantire l’esercizio delle proprie funzioni.115 Terminata la seconda guerra mondiale, parallelamente al dibattito costituzionale

sull’autonomia locale è attuata un’analisi sull’ordinamento allora concretamente vigente: la Commissione Economica, istituita dall’Assemblea Costituente, ne evidenzia i principali difetti, identificandoli nell’incoerenza tra i troppi tributi vigenti, nell’insufficienza delle entrate a fronte delle spese obbligatorie, nella sperequazione tra i vari enti, nell’inefficienza

113MARONGIU 2001, pp. 264 e ss.

114In senso contrario GALLO 1979, pp. 13 e ss., il quale ritiene che, nonostante le numerose spinte verso un accentramento del sistema tributario, la realtà italiana del tempo mostrava come, nella sostanza, un’autonomia tributaria locale era possibile: il T. U. 1175/1931 consentiva di esercitarla mediante i numerosissimi tributi ivi organizzati. L’Autore afferma che la «sacrale enunciazione di autonomia fatta negli» articoli 5 e 128 della Costituzione «non può che suonare conferma e tacito riconoscimento del preesistente sistema finanziario, almeno formalmente orientato in senso autonomistico».

dei sistemi di controllo e di accertamento gestiti localmente e nell’eccessiva rigidità delle norme.116 La crisi della finanza locale, secondo lo studio della Commissione Economica, può

essere superata solo mediante un corretto intendimento sull’autonomia dei livelli inferiori di governo: e ciò può avvenire sia grazie a un’attenta analisi del rapporto tra indipendenza politica e amministrativa e autosufficienza finanziaria sia per mezzo di una sicura definizione delle funzioni e dei poteri ripartiti tra centro e periferia. La soluzione prediletta dalla Commissione è nel senso dell’unitarietà della finanza pubblica: Stato ed Enti locali, al fine di garantire una giustizia equilibrativa su tutto il territorio, devono convergere verso un unico pubblico potere.117 Viene auspicato l’inserimento in Costituzione del principio della

perequazione per le finanze degli Enti locali, che sarebbe poi dovuto essere concretamente disciplinato da una legge successiva di riforma della finanza locale. Ancora una volta la scelta politica rimane nel senso dell’accentramento del prelievo e della gestione della spesa. L’obiettivo di evitare una legislazione estemporanea e incoerente viene mancato poiché gli anni successivi sono costellati di leggi contraddittorie che modificano, istituiscono e abrogano le fattispecie tributarie per ragioni meramente contingenti e, parallelamente, si assiste a ciclici ampliamenti e restrizioni delle funzioni degli enti sub-statali. La mancanza di una sistematizzazione delle finanze acuisce la crisi di entrata delle autonomie; non è quindi senza significato che, verso la fine degli anni sessanta, mentre si comincia a tratteggiare l’ossatura della Riforma tributaria, si ribadisca la necessità di razionalizzazione del panorama sub-statale al fine di dipanare problematiche emerse dall’intrecciarsi di disposizioni parziali e temporanee.

La finanza locale, nel periodo precedente agli anni settanta, è evidentemente contrassegnata da un movimento verso la centralizzazione della gestione del prelievo. Di fronte alla frammentarietà delle fattispecie e alla dislocazione del prelievo presenti nel periodo post unitario l'ordinamento italiano reagisce con tentativi sempre più importanti di accentramento e amministrazione monolitica del territorio dal punto di vista fiscale. Il panorama finanziario e tributario della prima metà del secolo continua comunque a essere composto di moltissimi istituti, non riconducibili a un unico modello impositivo, poiché essi assumevano la veste di tasse, diritti, imposte, contributi, ecc., con caratteristiche disomogenee ma funzione

116 MARONGIU 2001, p. 283; AMATUCCI 2010, p. 101. 117 AMATUCCI 2010, p. 102.

sostanzialmente impositiva.

In vista di un'effettiva attuazione dell’autonomia finanziaria che la Costituzione prescrive per Comuni e Province occorre assicurare loro risorse sufficienti: si rende così necessaria una profonda innovazione fiscale, in grado di coprire il costante disavanzo in cui spesso essi si trovavano. Se da un lato la Carta fondamentale del 1948, all’interno di un sistema complessivamente ispirato alle logiche della collaborazione su base nazionale, riconosce una certa indipendenza agli enti sub-statali allora vigenti, dall’altro lato la preoccupazione principale riguarda il fatto che la copertura delle spese pubbliche sia sufficiente in base alle risorse loro attribuite. Quindi, a fianco di una timida ispirazione verso il decentramento amministrativo e finanziario, vigile permane l’attenzione nei confronti della tenuta economica del sistema pubblico.

In tal modo si evidenzia la necessità di una riforma, che non deve essere un mero sviluppo del modello previgente, ma che dovrebbe rappresentare una radicale trasformazione della struttura del prelievo tributario.118 Negli anni sessanta si registrano molte richieste da parte dei

livelli inferiori di governo di maggiori entrate, necessarie per finanziare i sempre più numerosi e importanti pubblici servizi sollecitati dal processo di sviluppo economico. Inoltre non mancano pretese nei confronti del governo centrale affinché eserciti un’azione maggiormente incisiva in materia finanziaria: si ritiene difatti che quest’ultimo disponga di un surplus di entrate di cui potrebbero godere anche Comuni e Province.

Nella vigenza della precedente versione dell'articolo 119 della Costituzione, la prima trattazione legislativa in tema di riparto finanziario tra livello statale e locale si verifica in forza della legge n. 281 del 16 maggio 1970 che, secondo la dottrina, ha alterato il modello costituzionale imponendo una struttura di riparto che comprime i tributi propri sull'ammontare delle risorse complessive regionali e creando un sistema fortemente dipendente dai trasferimenti erariali. La citata legge introduce alcuni tributi propri, quali l'Imposta sulle concessioni statali, la Tassa sulle concessioni regionali, la Tassa automobilistica regionale, la Tassa sull'occupazione del suolo pubblico e l'addizionale all'Imposta erariale di trascrizione al Pubblico Registro Automobilistico, sui quali le Regioni potevano influire mediante modulazione delle aliquote entro margini prestabiliti. La legge provvede anche alla creazione

di due strumenti, il Fondo Comune e il Fondo per il finanziamento di programmi regionali di sviluppo, i cui trasferimenti costituiscono la percentuale più elevata delle entrate regionali.119

La Riforma del sistema tributario non è quindi in grado di creare un valido coordinamento con l’importante novità istituzionale degli anni settanta: l’attuazione della Costituzione per quanto riguarda le Regioni a statuto ordinario. La Riforma fiscale, infatti, rimanendo improntata su un modello fortemente centralista, non pone la dovuta attenzione al sistema finanziario di quell’importante categoria di enti sub-statali, i quali rimarranno per lungo tempo sovvenzionati principalmente mediante trasferimenti statali e non grazie a tributi propri.120

La legge n. 825 del 9 ottobre 1971, recante la delega al Governo per la Riforma tributaria, si propone l'obiettivo di recare un ammodernamento effettivo all’ordinamento, non semplicemente ricercando strumenti di finanziamento idonei, ma giungendo anche al riesame di molte funzioni degli enti sub-statali e una rivisitazione generalizzata delle strutture amministrative.121 A fianco di questi tentativi d’innovazione si attua una grande riduzione e

semplificazione dei tributi dei Comuni, che in precedenza si concretizzavano nelle più svariate caratterizzazioni e sistematizzazioni. Tributi propri e sovraimposte erano le componenti principali del sistema tributario locale pre-riforma: con l’abolizione nel 1971 delle Imposte erariali sul reddito dominicale dei terreni e dei fabbricati, nonché sui redditi di ricchezza mobile, scomparvero le relative sovraimposte e, tra i tributi propri, si ebbe l’abolizione di: Imposta di consumo, Imposta sull’incremento delle aree edificabili, Contributo di miglioria, Imposta di famiglia, Imposta di patente, Imposta sul valore locativo, Imposta sulle industrie, i commerci, le arti e le professioni, Tassa sulle insegne e Imposta sulla pubblicità affine. In loro sostituzione, oltre che con i finanziamenti trasferiti dallo Stato, le spese degli Enti locali sono coperte dall'Imposta comunale sugli incrementi dei valori degli immobili, dall'Imposta comunale di pubblicità e da una compartecipazione all’Imposta locale sui redditi.122 Sopravvivono comunque tributi tradizionalmente comunali, coma la Tassa sui

cani, la Tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e la Tassa per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, i quali, nonostante la perdita del ruolo ancillare rispetto alle maggiori imposte locali abrogate, non assumono un rilievo maggiore nel quadro delle tipologie di

119 COVINO 2005, p. 14. 120 NIKIFARAVA 2004, p. 955. 121 MARONGIU 2001, pp. 292 e 293. 122 AMATUCCI 2010, p. 103.

imposizione locale.123

La Riforma del 1973 quindi, oltre all’accentramento impositivo e della gestione del finanziamento pubblico, vuole anche realizzare una drastica semplificazione e riduzione dell’apparato tributario locale in modo che, anche in tal senso, la periferia veda compresso e svalutato il proprio margine d’incidenza. I Comuni, per far fronte a una capacità di entrata così diminuita, dal 1973 al 1977, in attesa della complessiva e definitiva modifica, sono resi destinatari da parte dell’amministrazione finanziaria centrale di un ammontare di risorse pari a quello riscosso mediante i tributi aboliti nel 1972, maggiorato di una percentuale prevista legislativamente. In questo modo l’autonomia impositiva degli enti sub-statali è pesantemente messa in discussione poiché, per compensare quanto tolto alla periferia, si innesca il meccanismo dei trasferimenti erariali: la finanza locale viene così trasformata in un sistema di finanziamento di tipo derivato, cioè basato sulla devoluzione delle risorse dal centro alla periferia.124 Questo processo, inoltre, porta alla limitazione di quelle forme d’intervento

regolamentare cui gli Enti locali avevano precedentemente fatto largo uso grazie anche alla moltiplicazione dei tributi locali e alla genericità dei caratteri costitutivi delle diverse forme di prelievo.125 L’obiettivo di fondo della Riforma, da raggiungere per mezzo sia del conferimento

al governo centrale delle facoltà impositive e di gestione delle risorse sia della semplificazione dei tributi decentrati precedenti con conseguente ridotta applicazione dello strumento regolamentare locale, è quello dell’accentramento tributario erariale.126 Con la

relegazione di Comuni e Province a un ruolo subordinato rispetto allo Stato si cerca quindi una corretta applicazione dei tributi, un’attività di controllo effettiva e un’imparzialità che l’autonomia locale si credeva avesse messo fortemente in discussione.127In realtà le

problematiche legate alla fiscalità dei livelli inferiori di governo sono tutt’altro che risolte

123 DI PIETRO 1998b, p. 2.

124 BATISTONI-BELLÉ 2009, a p. 250, afferma che gli Enti territoriali potevano contare su entrate proprie limitate, poiché riuscivano a coprire solo il 20 per cento della propria spesa, mentre i servizi erano per la maggior parte finanziati per mezzo dei trasferimenti dal centro.

125 DI PIETRO-CAVAZZUTI 1994 p. 153.

126 AMATUCCI 2010, a p. 6, prende atto che era prevalso «il principio dell’unitarietà del sistema tributario e della centralità del sistema finanziario giustificato dalla difficoltà di gestione e dei maggiori costi della finanza locale, nonché dalla difficoltà di individuare basi imponibili adatte alla autonomia impositiva. La drastica riduzione dell'autonomia impositiva degli Enti locali ed il carattere di finanza quasi totalmente derivata degli Enti sub-centrali, secondo la classe politica dominante, causò una forte deresponsabilizzazione politica e gestionale degli amministratori locali e, conseguentemente, la crisi della finanza locale sarebbe derivata dalla politica di “facile spesa”».

poiché l’entità dei trasferimenti, nella pratica, non è adeguata alle funzioni dei Comuni che, per surrogare il perduto gettito che si otteneva precedentemente per mezzo di imposte coinvolgenti ampi strati della popolazione, ricorrono sempre più spesso e pesantemente all’indebitamento, anche per finanziare le spese correnti fino ad arrivare a un circolo vizioso di crescenti deficit e crescenti indebitamenti.128

Nel corso degli anni, mediante un'evoluzione caratterizzata dal principio di sussidiarietà, le funzioni pubbliche sono andate via via incrementando e, conseguentemente, si rende manifesta l'inadeguatezza del sistema finanziario previsto dalla Riforma.129 Si assiste infatti a

un’inevitabile deresponsabilizzazione degli enti sub-statali visto che si interrompe la correlazione tra responsabilità finanziaria e responsabilità del ceto politico di fronte ai propri elettori.130 Gli amministratori, operando per mezzo di tale sistema, non possono più godere del

precedente margine di manovra e si trovano costretti a gestire le risorse finanziarie su principi burocratici amministrativi piuttosto che su principi di efficienza ed efficacia della spesa. La situazione finanziaria diviene così sempre più critica, dato che sempre minore è la preoccupazione per la copertura delle spese.131 All’accentramento impositivo e al tentativo di

semplificazione non corrisponde un’implementazione della coerenza delle tipologie di tributi e delle forme di applicazione, riscossione e risoluzione delle controversie degli stessi. Di fronte a una molteplicità di entrate di difficile inquadramento dogmatico coesiste un quadro attuativo incoerente, dove prevalgono le necessità contingenti di rapida esazione rispetto a quelle di costruzione di un modello sistematico ispirato da principi congrui e stabili.132 Si deve

quindi costatare che la legge delega n. 825 si dimostrò, al contrario delle iniziali aspirazioni, priva di criteri generali poiché affidò agli enti sub-statali una normativa estemporanea in attesa di una promessa e prevista riforma che mostrasse un’effettiva coerenza, la quale però negli anni perse sempre più di interesse legislativo.133

Nonostante non abbia raggiunto gli obiettivi che dottrina e legislatore si erano posti, la novella

128 MARONGIU 2001, p. 295. 129 BATISTONI-BELLÉ 2009, p. 251. 130 DI PIETRO 1998 b, p. 2.

131 NICOLAI 2009, p. 1. 132 DI PIETRO 1998 b, p. 3.

133 DEL FEDERICO 1994, p. 143, ritiene che «l’evidente disegno di un sistema tributario centralizzato ha finito col condizionare la legislazione successiva, favorendo il consolidarsi e il diffondersi del fenomeno dei trasferimenti finanziari a discapito della fiscalità locale, e di fatto obliterando l’interesse per la riforma organica della finanza locale».

degli anni settanta ha come risultato una profonda trasformazione della finanza locale: questa, da sistema dotato di una certa autonomia, divenne quasi esclusivamente un modello derivato dalla finanza centrale. I trasferimenti, che andavano a sovvenzionare le spese locali, risultavano estranei rispetto alla qualificazione delle entrate tributarie poiché formati da assegnazioni periodiche che si dividevano in ordinarie, dipendenti da parametri fissi e spesa storica, e straordinarie, con finalità perequative.134

La mancanza di un disegno unitario della Riforma, il depauperamento delle autonomie locali e l’inaugurazione della stagione della finanza derivata producono una diffusa insoddisfazione nei confronti del vigente modello di finanza locale.135 Questo fenomeno è espressione di

soluzioni affrettate, predilette per sopperire a necessità contingenti, e che, quindi, non si dimostrarono in grado di costituire un coordinamento progettuale.136

La mancanza di un modello sistematico mostra a pieno i propri difetti quando, tra gli anni settanta e ottanta, l’autonomia impositiva degli enti sub-statali minori comincia un lento processo di ricrescita e sono introdotte nuove tipologie di prelievo collegate alle discipline della trasformazione urbanistica, della tutela dell’ambiente e del rilascio di alcune concessioni e autorizzazioni municipali. A fronte delle sempre maggiori esigenze finanziarie degli Enti locali, che non possono venir pienamente soddisfatte per mezzo dei soli trasferimenti statali, si ripropongono forme di imposizione che la Riforma degli anni settanta aveva voluto escludere, quali le addizionali e le sovraimposte, e si inizia un percorso caratterizzato dal