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Prima Psyche, poi il mondo; attraverso Psyche, la mediatrice, al mondo; e il mondo anch’esso, psiche, liberato in tal modo, in molteplici mon- di.

J. Hillman, Le storie che curano

Riprendendo l’idea della speculare riconfigurazione di interiorità ed esteriorità che le poiesi di seconda dimensione comportano, si può valutare la comunità pentecostale come un gruppo in- iziatico di praticanti riuniti attorno a una causa speciale, che li attiva e che parzialmente li allontana da certe egemonie culturali esistenti — benché, come vedremo, non tutte [cfr. cap. IV]. La polar- ità speculare tra interiorità ed esteriorità, ispirata qui ai lavori di Philippe Descola (2005), può es- sere agevolmente sostituita da quella tra individuo e mondo. Il ricorso alla categoria di “mondo” 75

piuttosto che a quelle di “rappresentazione”, o “visione”, o “sistema simbolico” non è neutrale, ma ricollegabile a una linea di indagine antropologica che parte almeno dalla nozione di «etnocen- trismo critico» di Ernesto de Martino e percorre gran parte dei contributi scientifici ricollegabili alla cosiddetta “svolta ontologica” . Il punto della svolta, emersa in opposizione critica nei con76 -

fronti di precedenti approcci alla diversità culturale, sta nella distanza di sguardo che intercorre tra il dire che “gli altri pensano diversamente alle cose” e il dire che “gli altri hanno cose diverse a cui pensare”. Il che equivale sostanzialmente ad accettare il monito del nostro intervistato quando insiste sull’esistenza di ciò che si incontra, più che di ciò che si pensa (o ci si “rappresenta” men- talmente). E rende, tra l’altro, comprensibili tutti gli sforzi di “evangelizzazione dell’antropologa” che ciascuna comunità ha posto in atto nei miei confronti [cfr. cap. II §2.5.1]: la conversione, in- fatti, può spettare a tutti, anche ai più scettici — l’importante è riuscire a mettere gli scettici nella posizione di fare gli incontri giusti, più che tentare di convincerli sul piano razionale.

Più generalmente, essere umani specifici, cioè messi in forma dalle operazioni antropopoietiche dispiegate da ciascun ambiente, vuol dire essere costruiti fin nella carne per avere una presa po- tente e ricettiva su quel mondo — e un mondo soltanto, non tutti. Al contempo, essere critica- mente etnocentrici vuol dire almeno due cose: 1) rinunciare alla possibilità di uno sguardo ogget- tivo e non indebitato alla storia specifica che l’ha costruito come tale, ovvero percepirsi soggetti

In questo lavoro, il termine “mondo” è utilizzato in accezione sinonima del termine “cultura”, perché con cultura si vuole

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intendere non solo l’ambiente materiale e immateriale in cui un gruppo umano evolve e in cui ciascuno si trova immerso, ma anche l’attività stessa del fare l’ambiente, nonché le occasioni di evoluzione, conflitto e distruzione a cui ogni lavoro culturale è suscettibile. In tal senso, anche dentro a uno stesso mondo, un mondo a reti lunghe, possono esserci convivenze e scontri tra mondi irriducibili che chiedono di poter prendere parola, soprattutto nelle compressioni spaziali di una storia in cui la globalità degli scambi sembra davvero povera di conversazione (Remotti 1990; Coppo 2013).

Per uno sguardo complessivo sui contributi teoricamente affini o ricollegabili alla “svolta ontologica” — o “ontological

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storici e non osservatori avulsi; 2) astenersi quanto più possibile dall’assorbire le cose ignote al noto delle nostre categorie giudicanti, bensì tematizzare sia il noto che l’ignoto come alternativi percorsi storici di soggettivazione. L’attenzione sottile di un pensiero criticamente etnocentrico consiste, quindi, non tanto nella ricerca sistematica dei luoghi di equivalenza discorsiva tra mondi, quanto nel sottolineare i luoghi di equivocazione — le incommensurabilità del dialogo che seg77 -

nalano le incommensurabilità tra ontologie ed epistemologie aliene — e farne centri dinamici di pensiero. Approcciare l’alterità a partire dal “dopo concettuale” della svolta ontologica somiglia, per certi versi, a quel tentativo di antropologia simmetrica che consiste nel (provare a) guardare 78

il mondo come fanno le popolazioni amazzoniche, cioè in maniera prospettivista. Da questa parte dello sguardo, i corpi in situazione — corpi lavorati antropopoieticamente — sono l’elemento determinante della presa sul mondo e degli oggetti che ogni cultura cerca di nominare e oggetti- vare. Un esempio oramai classico per illustrare il tipo di decentramento di cui sto parlando è quel- lo proposto da Viverios de Castro (1998): un’analisi prospettivista del termine sintagmatico “birra di manioca”, il quale per gli umani indica la birra di manioca, mentre per i giaguari significa “sangue”. Il termine è lo stesso, ma gli oggetti sono differenti: avere una diversa ontologia non vuol dire, cioè, che i giaguari credono che il sangue sia birra di manioca, né che il sangue “rappre- senti” la birra; per loro il sangue è la birra, la loro forma vivente fa sì che il sangue sia birra, per- ché il corpo coincide con il punto di vista, con la prospettiva — il corpo ha una forma tale che permette di manipolare e di essere manipolati dalle cose in un modo unico. Se si potesse parlare con i giaguari, probabilmente utilizzeremmo una traduzione in “giaguarese” del termine “birra di manioca”, ma staremmo drasticamente equivocando il significato, il quale è deittico, dipende cioè dal contesto dell’enunciazione. Analogamente, se dialoghiamo con un individuo che ha attraver- sato un differente percorso di soggettivazione, il quale presupponga una qualche distanza onto- logica, possiamo credere di scambiare con lui idee e informazioni sulla “realtà”, sull’“essere umano”, sulla “mente”, ma non necessariamente quei termini indicano le stesse “cose” e men che meno indicano il medesimo contenuto esperienziale. Non a caso io stessa ho impiegato diverso tempo prima di capire che l’anima e lo spirito erano due regioni separate tra loro e che questa separazione riposava su un preciso discrimine ontologico: quello tra gli oggetti immateriali e gli oggetti spirituali. L’errore era mio: continuavo a tenere per buono il dualismo carne/spirito — malamente riadattato al tradizionale dualismo corpo/mente — mentre le evidenze etnografiche dimostravano che c’era qualcosa di più e che andava rivisto assieme agli esperti [cfr. Appendice].

L’equivocazione di cui sto parlando qui consiste in quelle particolari circostanze di dialogo in cui gli interlocutori non

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stanno parlando della stesa cosa e lo sanno. Questo avviene soprattutto in contesti di comunicazione inter-ontologica, quan- do gli interlocutori si scoprono portatori di diverse sistemazioni ontologiche e pertanto non si possono accomodare su una medesima distribuzione di significanti e significati. L’equivocazione controllata diventa allora un segnalatore di differenza, piuttosto che un intralcio traduttivo. (Nathan e de Pury 1999; Viveiros de Castro 2004; Bouznah e Lewertowsky 2013)

Fare dell’antropologia simmetrica significa, a partire dall’accettazione del principio di parità ontologica ed epistemologica

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delle culture, provare a fare l’inverso del lavoro dell’antropologo, cioè guardare la civiltà degli antropologi attraverso le cate- gorie emiche di un’altra tradizione culturale, per produrre uno spaesamento (Latour 1991).

Perciò uno sguardo prospettivista ed etnocritico mi è parso decisivo nell’avvicinarmi alle dinamiche delle comunità pentecostali, per almeno due ragioni: 1) i pentecostali abitano un mon- do fatto in una certa maniera e si riscoprono diversamente umani stando in quel mondo; 2) la comunità pentecostale è prima di tutto un luogo di metamorfosi che promuove una speciale for- ma di umanità, la quale non necessariamente ha senso e non sempre risulta tenibile fuori dal loro mondo — anche se il “fuori” ha una memoria tradizionale cristiana. E in ciò emerge la “qualità dispositiva” della comunità, cioè nell’essere «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve, tanto del detto che del non-detto» (Foucault 2001 citato in Bianchi 2013: 223-224) e che ha la funzione strategica dominante di rispondere a un’urgenza: l’urgenza di fare l’uomo nuovo (e la donna nuova). Tra “dis- positivi” così intesi, “istituti culturali” e “culture” forse passa soltanto una differenza di grado, o meglio di “gittata” della rete poiché, in ultima battuta, l’obiettivo/esito rimane quello di rispon- dere, secondo modi storici, all’urgenza di fare gli umani e di metterli nelle condizioni di fare de- terminate cose e non altre. Come dispositivo, cioè rete di elementi operante dentro altre reti di reti più ampie, la comunità ha la «capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, model- lare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (Agamben 2006: 21-22) e di portarli verso nuovi orizzonti di soggettivazione/oggetti- vazione grazie al “corpo a corpo” diretto. Ogni descrizione di un dispositivo è a fortiori la de- scrizione di una soggettivazione e di una oggettivazione dell’esperienza e del tipo di presa che esse perseguono in relazione (critica o meno) ai modi di soggettivazione/oggettivazione vigenti nei contesti speciali in un operano.

L’obiettivo di fare umani nuovi presuppone, almeno, una qualche forma di insoddisfazione o di pensiero critico nei confronti dello status quo, unita alla consapevolezza che per porre in atto un mondo diverso occorre sempre partire da chi lo abita. Nelle comunità che ho frequentato gli uo- mini e le donne andavano eccome rifatti a nuovo, perché lasciarli inalterati significava impedire loro di incontrare Dio e, soprattutto, di consegnarli all’incapacità di riconoscere le complesse modalità d’azione del male perché, se lo spirito è inattivo, è il mondo stesso che si fa spiritual- mente illeggibile. In questo senso l’antropopoiesi comporta sempre anche un’ontopoiesi e vicev- ersa. Il mondo, infatti, non è che la materializzazione di una particolare interiorità; il soggetto non

è che l’interiorizzazione di un particolare mondo: parafrasando alcuni teorici della svolta ontolog- ica, “la psiche è reale e la realtà è psichica” (Henare, Holbraad and Wastell 2006: 28). 79

Più esattamente, psiche e cultura rappresentano strutture mutuamente necessarie e ridondanti, permet-

tendo entrambe di dare significato e prevedibilità al mondo (interno ed esterno) e dunque prevenendo paura e perplessità: “anche se le due strutture [cultura e psiche] vengono acquisite indipendentemente, esse conservano rapporti omologhi: una è il doppio dell’altra […] Il soggetto esiste se — e soltanto se — queste due strutture coesistono in lui in un rapporto di omologia” [Nathan 1986: 80]. Entrambe hanno la funzione di definire una chiusura, rispettivamente nell’individuo e nel gruppo — e dunque di mantenere la loro identità — come passo preliminare per qualsiasi apertura verso l’altro. (Cardamone e Zorzetto 2000: 191 citato in Coppo 2003: 114-115)

In altri termini, tra psiche e mondo c’è «una forte continuità di sostanza» (Coppo 2003: 114). Questa prospettiva mette in causa espressamente ogni tentativo di innalzare barriere tra la neces- sità di ciò che chiamiamo “mondo reale, materiale o fisico” e l’aleatorietà di qualcos’altro che in-

Il concetto di psiche ha una storia tale, per la cultura occidentale, da renderlo molto ingombrante e talvolta intraducibile.

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Nell’età pre-ellenistica, a fianco del temine psyché altri termini, come thymos o phrenes, indicavano particolari “zone” della componente immateriale degli esseri umani, secondo logiche del sé che non sono riuscite ad attraversare intatte le forche caudine del divenire storico del nostro pensiero (Faranda 2014). La specializzazione teorica del termine “psiche”, giunto infine nei registri della psichiatria, della psicologia e della psicoanalisi, è stata prima esito di una lavorazione filosofica (al- meno da Platone e Aristotele) e poi teologica (da Paolo ai Padri della Chiesa), fino a divenire un concetto estremamente sofisticato e indissociabile dalla storia delle tecniche create per esplorarlo. Nella sua accezione più generica, che è quella che qui utilizziamo — e che in fondo è quella meta-culturalmente più “pragmatica” perché parzialmente analoga a elaborazioni provenienti da tradizioni lontane dalla nostra — può indicare, insieme al noto sinonimo “anima”, quella parte immateriale e vitale degli umani che permette loro di stare in relazione con gli altri umani. (Coppo 2003: 114)

Figura 7. Albero genealogico da compilare, prelevato durante un raduno carismatico cattolico. Al soggetto viene richiesto di inserire, nel riquadro corrispondente alla figura parentelare in questione, particolari eventi o problemi che, a suo avviso, hanno ancora delle ripercussioni negative sulla propria vita.

vece releghiamo alla visione, al discorso o alla narrativa: non può darsi alcuna posizione di ester- nalità giudicante e nessuna trascendenza discorsiva rispetto al mondo culturale da cui ciascun dis- corso proviene — non c’è linguaggio universale e non c’è universo fuori dal linguaggio.

Quel che ho visto e ascoltato nelle comunità durante il periodo di osservazione non soltanto ma- nipola, ma mira esplicitamente a modellare nel profondo la strutturazione psichica dei soggetti attraverso esperienze che coinvolgono tutti i livelli della presenza dei corpi in situazione: fisicità, gesti, linguaggio, conversazione, silenzio, emotività, soprattutto immaginazione. A queste manipo- lazioni sono direttamente legate le operazioni di ontopoiesi di cui parlavo prima: “installare” con successo lo spirito nell’individuo equivale a concedere l’accesso degli immateriali spirituali all’in- terno della sistemazione ontologica e a porre le condizioni della loro convocabilità. Per tentare una formalizzazione teorica dei meccanismi impliciti che sorreggono le pratiche osservate, vorrei prendere nuovamente a prestito alcune suggestioni apparentemente esorbitanti, per poi porle a servizio del nostro sguardo. Nello specifico vorrei richiamare alcuni passaggi logici del ragiona- mento di James Hillmann (1973, 1983, 1991, 2013) riguardo alla professione psicoanalitica, provando a trarre delle conseguenze antropologicamente valide per il caso che qui ci interessa. Con le dovute cautele rispetto alla tradizione analitica cui Hillman appartiene, che è notoriamente quella junghiana, l’autore ha effettuato un’interessante operazione di de-naturalizzazione interna alla disciplina, partendo proprio dal concetto di “psicoanalisi”.

La psicoanalisi è infatti un’opera di narrazione immaginativa nel regno della poiesis, vocabolo che sig- nifica semplicemente “fare”, e in questo caso, fare parole dell’immaginazione. La nostra è un’opera compresa in un ambito più particolare della poiesis, la retorica, con cui voglio significare il potere persua- sivo dell’immagine in parole, un’abilità nel parlare, nello scrivere, nel leggere. Dare dimora a un cosmo poetico e retorico alla psicologia del profondo non è altro che la conseguenza di un passo compiuto nelle mie Terry Lectures del 1972, in cui cercavo di fondare una psicologia dell’anima che fosse anche una psicologia dell’immaginazione; una psicologia che non trova il suo punto di partenza nella fisiolo- gia del cervello, nella linguistica strutturale, o nelle analisi del comportamento, ma nei processi del- l’immaginazione; una psicologia, cioè, che presuppone un fondamento poetico della mente.(Hillman 1983: 2)

In questo segmento Hillman mette a fondamento dei processi interiori individuali il “fare immag- ini” e lo pone in competizione con altri fondamenti più tradizionali come la fisiologia del cervello (Freud) o la linguistica strutturale (Lacan). Il contenuto denaturalizzante sta nel considerare ogni sforzo umano di oggettivazione (teorie, soggetti e oggetti) — comprese le teorie psicoanalitiche — una parafrasi letterale, o prosaica, di unità psichiche instabili, complesse ed eccedenti, che egli chiama immagini o sembianti. La psiche del profondo è allora quella catena spiraleggiante che va di sembiante in sembiante secondo principi di corrispondenze analogiche, laddove i processi di

soggettivazione/oggettivazione costituiscono la drizzatura (prosa è il femminile latino dell’aggetti- vo prorsus, “diritto”) capace di collegare i sembianti alle unità del discorso lineare — che è quello che usiamo per riordinare e comunicare l’esperienza e che si sorregge invece su un principio di identità elementare. Ad esempio, l’idea di un “io” costante e identico a se stesso è una drizzatura prosaica della percezione immaginale di una psiche che si rivolge a ciò che sta facendo, dicendo, provando — una finzione retorica necessaria, però, nel momento in cui occorre prendere parola in un mondo dove esistono esseri umani con cui dover dialogare e che esigono una qualche for- ma di continuità con se stessi. Ogni processo di soggettivazione/oggettivazione comporta, quin- di, una drizzatura che agisce sulla strutturazione dell’individuo e del mondo e ne è a sua volta agi- ta — in altri termini, ogni drizzatura è storica. Queste azioni sono “letteralizzanti”: fissano cioè quel che è eccessivo e ambiguo in un qualche significato univoco e determinato (un nome, un termine), che proprio per la sua “letteralità” cessa di essere equivocato e può entrare nel linguag- gio lineare per costruire discorsi coerenti su sé, sul mondo. Perciò ogni psiche possiede almeno due tipologie di operazioni inverse e complementari, una analogica/poetica e una logica/letterale: la prima opera attraverso i tropi poietici della corrispondenza e della somiglianza (analogie, metafore, metonimie, ecc.), mentre le seconda opera attraverso la “diacrisi intellettuale” (Hillman 1983: 98), distribuendo cioè prosasticamente le identità e le differenze tra elementi. La morale per la psicoanalisi è che le sue teorie sono altrettante drizzature prosaiche e che in sede terapeutica quel che conta è riuscire a sollecitare la “guarigione” riconducendo il paziente a un più efficace «senso del vivere e del morire all’interno di un cosmo immaginale» (Hillman 1983: VI). Ma per questo lavoro la parte rilevante sta nel concetto di “letterale”, che a mio avviso trova una forma pressoché sinonima nel concetto di “naturalizzazione”. Naturalizzare, come dicevo sopra, signifi- ca da un punto di vista antropologico conferire a una serie di elementi cultural-specifici un con- notato di necessità che ne vela, in gran parte, l’origine normativa e storica e vi sostituisce un sen- timento di normalità. Nulla ha efficacia antropopoietica primaria, se non naturalizza. E questa naturalizzazione è declinabile in molti modi, come fa notare Descola (2005) — tutto sta a come si viene articolando di volta in volta la relazione tra interiorità ed esteriorità (o, con le sue parole, tra

interiorità e fisicalità). Per di più Remotti (2011) mette in chiaro, come abbiamo visto, che le poiesi

secondarie sono un tentativo esplicito di condurre gli umani a una trasformazione, previo ri- conoscimento che ciò che viene dato per naturale probabilmente non è tale fino in fondo — «un umano che cos’è?» recita il canto iniziatico di un rito di passaggio Olusumba. Quel che aggiunge Hillman, dati i suoi interessi disciplinari, è che le porzioni di interiorità umana non ancora driz- zate o, diremmo noi, naturalizzate per via antropopoietica, non sono una riserva passiva di possi- bilità che attende di essere lavorata, ma sono esse stesse impegnate in un inarrestabile processo di produzione immaginale regolato da operazioni analogiche. Non molto tempo prima di Hillman un filosofo italiano, forse uno tra i massimi esploratori della sistemazione onto-epistemologica occidentale, dedicava un intero volume all’analisi dei due principali modi umani della cognizione:

il ragionamento analogico con i suoi procedimenti ancillari (i tropi retorici), preso in una continua “guerra civile” con il suo gemello complementare, il ragionamento logico con i suoi principi for- mali (identità elementare e terzo escluso) (Melandri 1968). Mettendone insieme le coordinate potremmo riassumere dicendo che: laddove ciò che esiste dentro e fuori dell’umano è sempre frutto di operazioni logiche di separazione coerente tra ciò che è identico a se stesso e ciò che non può esserlo (x è uguale a x, non datur tertium), la quantità di gradi di esistenza sufficiente a su- perare la soglia del controllore logico dipende da come vanno le sorti dello spazio immaginale e di quanto siano in corrispondenza sensata con ciò che può o non può esistere. In parole più sem- plici, se l’esito dell’antropopoiesi primaria riesce a naturalizzare qualcosa, ciò avviene perché essa giunge ad agganciare e dare forma espressiva a tutto ciò che, nell’interiorità del soggetto, continua ad accadere e a generarsi in eccedenza, senza sosta e secondo le sue regole. Facendo un passo in avanti direi che una cosa simile valga anche per le antropopoiesi secondarie: per rifare l’umano e consentire una metamorfosi occorre, dapprima, de-letteralizzare o de-naturalizzare quel che la lavorazione primaria ha prodotto e, al contempo, riproporre un aggancio diverso ritornando a dialogare con le dinamiche del corpo immaginale. Mi è sembrato, infatti, di ritrovare nel pente- costalismo un tentativo contemporaneo di entrare in relazione con questo registro, perché capace di lavorare le immagini con le immagini — nel perimetro protetto della singola comunità. Questa capacità, a mio avviso, è contenuta nel suo essere un dispositivo fondato su una narrativa de- monologica — se con “demoni” intendiamo non le letteralizzazioni storiche dei vari diavoli, ben- sì la personificazione delle esperienze. La demonologia è un modo di immaginare, più nello speci- fico è una tecnica di traslazione metaforica: la sostituzione di una cosa con un’altra come, ad es- empio, la sostituzione di una persona spirituale ad un complesso di eventi che accadono nella di80 -

mensione interiore del soggetto. Questi eventi, che cercherò di descrivere, sono insiemi complessi di elementi eterogenei di cui i soggetti fanno esperienza personale e che a un certo punto, dopo