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§2.5 NOI E LORO

I: Questa è una chiesa molto inserita nel sociale.

PAdS: Noi sì. Noi come Chiesa Apostolica sì. Sì, sì. E in questo diamo libertà alle nostre comunità, lì dove si trovano, di sposare la causa sociale a loro più confacente. Quindi… Mentre invece come chiesa nazionale, abbiamo dei campi di missione dove lavoriamo come chiesa nazionale attraverso un comita- to missionario. Abbiamo missioni in Angola, in Burkina Faso, in Togo, nel Malawi, nel Senegal… E poi ci occupiamo di alcuni progetti precisi quale, nei paesi del terzo mondo, indifferentemente se sono della nostra denominazione o no, cerchiamo di sostenere dei pastori a distanza dandogli la serenità di uno stipendio mensile [“Progetto Corban” nda] . Abbiamo una grossa raccolta di bambini adottati a distanza. Collaboriamo con diverse associazioni a livello internazionale… E poi una delle cose che ci contraddistingue in Burkina Faso e in Togo è un progetto chiamato, “Progetto Dorcas”, che in realtà significa mettere delle donne o degli uomini nella possibilità di attivarsi per un proprio guadagno. Quindi creare un’idea e un prospetto aziendale personale, che poi lo finanziamo inizialmente, e loro vanno avanti. Attualmente abbiamo portato avanti più di mille di questi progetti che stanno cammi- nando. E la cosa più bella, in Togo specialmente, è che chi è entrato in questo progetto inizialmente, ora è promotore per altri. E quindi si sta moltiplicando quella che è un’idea imprenditoriale, che nasce dal bisogno e che cammina poi per esperienza. [cfr. Appendice]

Il rapporto tra CA nazionale e regioni altre (leggi “svantaggiate”) si articola in interventi a chiaro mandato evangelico — come l’impianto di chiese, la divulgazione di valori e precetti evangelici e l’evoluzione di comunità cristiane locali — indirizzati a favorire la transizione verso modelli di sviluppo e di civiltà di tipo nordeuropeo — come l’erogazione di servizi igienico-sanitari e la creazione di centri medici, la creazione di centri per bambini e per le donne, la gestione di proget- ti di microcredito e di sostegno alle imprese. Non diversamente vanno le cose su scala locale, benché non sempre la causa sposata sia di carattere esplicitamente missionario. Nel nostro caso l’impellenza sociale da fronteggiare, da qualche anno a questa parte, era oramai diventata palese:

Pastore Alberto di Stefano: In un certo senso la Chiesa Apostolica è indirizzata a un servizio a tutta la comunità. […] La comunità deve prendere coscienza di un’attività speciale che in questo periodo il Signore ci ha affidato, che è l’accoglienza. [cfr. Appendice]

Nel giugno del 2015, come molti ricorderanno, centinaia di migranti provenienti dall’Africa e diretti verso le regioni del nord Europa sono stati di colpo bloccati alla frontiera francese dalla

Gendarmerie e rispediti a Ventimiglia. Lo stato di blocco, aggravato da un continuo turn-over tra chi

riusciva in qualche modo a oltrepassare la frontiera e chi invece continuava a sopraggiungere dal meridione, ha messo in allarme l’intero territorio, dando avvio a una serie di misure d’emergenza.

Di fatto, la regolamentazione dei rifugiati che circolano all’interno dell’area di Schengen — i 60

cui meccanismi sono quelli del protocollo di Dublino III (2014) — prevede che le domande di protezione internazionale vengano esaminate presso il primo paese di sbarco, a scapito di quale che sia il progetto migratorio originario di ciascun richiedente. Un sistema, questo, che ha di- mostrato palesemente, e non solo a Ventimiglia, i suoi limiti. Le misure d’emergenza si rias- sumono spesso, pertanto, nella necessità di garantire un servizio di soccorso e d’accoglienza im- mediata a coloro che non hanno altra possibilità che confrontarsi con la macchina burocratica locale. Servirà ricordare brevemente in questa sede che, nonostante l’esistenza dal 2001 di un sis- tema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati (lo SPRAR — in cui la rete locale 61

di enti gestori, il Ministero dell’Interno, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) collaborano col fine di garantire nel modo più strutturato possibile servizi di accoglienza integrata ai beneficiari), l’accoglienza 62

primaria o straordinaria viene offerta attraverso strutture governative di primo livello (CPSA, CDA, CARA, CIE) oppure gestita in modalità CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria): le 63

Prefetture locali avviano trattative con gli enti gestori presenti su territorio sia per via diretta che tramite gare d’appalto. Come per lo SPRAR, anche i CAS sono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, tramite un calcolo effettuato sulla base della retta giornaliera

pro-capite, pro-die di ciascun utente (in genere 35 euro). Essendo previsto come servizio d’emergen-

za, il CAS è concepito come “alloggio temporaneo”, in attesa del passaggio al piano SPRAR — benché nella maggioranza dei casi i beneficiari rimangono nei CAS per tutta la durata delle pratiche, se non di più. Per la stesa ragione, l’accoglienza nei CAS è meno soggetta a regolamento, quando non dispersiva e pulviscolare, e i servizi offerti (servizi di gestione amministrativa, di as- sistenza generica alla persona, di pulizia e igiene ambientale, di erogazione dei pasti, di beni di

Il termine “rifugiato” indica, giuridicamente, il titolare di protezione internazionale. Si tratta di persona che “temendo a ragione di essere

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perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese d’origine di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. Questa definizione si trova all’art. 1A della Convenzione di Ginevra del 1951, recepita nell’ordinamento italiano dalla legge n.722 del 1954. I profughi che intendono beneficiare del titolo sono tenuti a fare richiesta di protezione presso lo Stato ospite, rimanendo tali finché le autorità competenti (in Italia le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale) non decidono in merito alla stessa domanda. Le forme di protezione sono in tutto tre: internazionale, sussidiaria (per coloro che, pur non possedendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, subirebbero danni gravi se facessero ritorno ai loro paesi secondo quanto stabilito dal decreto legislativo n. 251/2007) e umanitaria (per coloro che, pur non potendo ricevere protezione internazionale, hanno diritto a un permesso di soggiorno per motivi umanitari secondo quanto stabilito dal decreto legislativo n. 286/1998).

La legge n.189/2002 ha istituzionalizzato una serie di misure decentrate di accoglienza realizzate tra il 1999 e il 2000 da associazioni e

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organizzazioni non governative, prevedendo la costituzione del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. La stessa legge ha istituito la struttura di coordinamento del sistema – il Servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e suppor- to tecnico agli enti locali – affidandone ad ANCI la gestione.

Ricorrendo al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, la rete SPRAR realizza interventi di “accoglienza integrata” che in

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tendono superare la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompag- namento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico.

Nel 2014 e nel 2015, a fronte del grande numero di persone arrivate in Italia attraverso gli sbarchi — e non essendoci posto a sufficien

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za nei centri SPRAR — il Ministero dell’Interno ha istituito, tramite le Prefetture, dei centri di accoglienza straordinaria (CAS), presenti in tutte le aree del paese. Nei centri di accoglienza straordinaria della Prefettura di Genova ci sono oltre 1000 posti, distribuiti tra più di 20 centri collettivi ed oltre 60 appartamenti presenti nell’intera area metropolitana.

comfort e generi consumabili, il pocket money, servizi di trasporto, servizi per l’integrazione e per l’orientamento ecc.) sono variabili e non sempre obbligatori.

In concomitanza con gli episodi di Ventimiglia, pertanto, la stessa Prefettura genovese ha in- tensificato le misure di soccorso attraverso bandi di gara ai CAS anche più di due volte all’anno. Ed è proprio in questo tipo di progettualità che la comunità di pastore di Stefano si è impegnata prendendo immediatamente contatti e con la Prefettura e con le forze presenti sul territorio. In un primo tempo un gruppo di 6 rifugiati (di sesso femminile) provenienti dalla Nigeria è stato inviato dalla Prefettura — tramite “assegnazione diretta” — e sistemato presso la canonica della CA grazie alla mobilitazione generale della comunità: l’ospitalità doveva essere temporanea, di qualche settimana al massimo. Tuttavia, le relazioni tra CA e Prefettura sono continuate fino alla proposta, da parte di quest’ultima, di partecipare ai bandi e di consolidare le attività di volontaria- to. Grazie alla mediazione del CEIS genovese (Centro di Solidarietà di Genova) — ente no-profit da tempo attivo anche su progetti di ospitalità diffusa come l’householding sociale — la CA di di 64

Stefano è riuscita ad affittare un appartamento da mettere a disposizione e a entrare, così, nella rete dei CAS del comune genovese.

Pastore di Stefano: Alla fine di giugno 2015 noi siamo entrati a far parte di questi CAS — Centro di Accoglienza Semplice [nda Centro di Accoglienza Straordinaria] — e noi siamo cresciuti con loro, nel senso che abbiamo iniziato con 6, poi siamo diventati 11, poi siamo diventati 15, poi siamo diventati 20… Prima avevamo solo donne, poi ci hanno affidato anche gli uomini e così oggi abbiamo circa 70 persone. [cfr. Appendice]

Col tempo l’opera della comunità è cresciuta nelle competenze e nei servizi fino alla costituzione di un’associazione autonoma di volontariato — la “Emergenza & Amore” — dotata di personal- ità giuridica, sede legale e registrazione presso l’anagrafe genovese delle ONLUS attive nel settore dell’assistenza sociale e socio-sanitaria. Dal 2016 in poi “Emergenza e Amore” partecipa au- tonomamente ai bandi di gara. L’associazione mette a disposizione degli utenti (68 nel 2017, di ambo i sessi e provenienti prevalentemente da Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Marocco, Afganistan, Senegal e Ghana), una serie di servizi di assistenza alla persona (vitto, alloggio, igiene e assistenza medica), di assistenza all’integrazione (facilitazione per l’accesso all’istruzione scolas- tica, corsi di lingua, accompagnamento nell’attività professionale), di mediazione culturale e lin- guistica, di svago e socializzazione (attività nell’ambito dello sport, della musica, della danza) e infine, ma non meno rilevante, un’assistenza di tipo spirituale in chiara continuità con l’indirizzo religioso della CA. Non a caso, circa una decina di donne assegnate alla CA sono entrate a far parte della comunità evangelica e hanno ricevuto il battesimo. Benché l’atteggiamento dei volon- Pratica di accoglienza che consente a soggetti privati di dare in usufrutto le case sfitte ai migranti in cambio di agevolazioni fiscali, con

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cordando con gli enti gestori locali che si sono aggiudicati il bando le modalità dell’accoglienza e gli oneri, invece, a carico dell’ente (trasferimento ai privati dei fondi della Prefettura, assistenza nell’iter della richiesta d’asilo, percorsi di lingua e servizi di mediazione cultur- ale, assistenza sanitaria, ecc.).

tari e del pastore, in merito a questi sviluppi, sia piuttosto riservato e scarsamente spettacolare (un proposito che sono tenuta a mantenere), difficilmente sfugge il deciso mandato educativo che l’associazione ha assunto nei confronti dei suoi «ragazzi e ragazze» — così vengono chiamati i beneficiari dei servizi. E l’orientamento di tale educazione è evidentemente in linea con i valori e la costruzione antropologica del cristianesimo europeo, con annessi gli inevitabili slanci umanitari ispirati all’amore universale e all’abbattimento di ogni barriera, uniti a quel vago paternalismo che dinanzi alle divergenze di fatto tende di riflesso a irrigidirsi in autoritarismo. Il limite — che nemmeno la miglior catechesi sulla fratellanza può neutralizzare — resta quello cui accennavo sopra: spesso coloro che approdano ai servizi d’accoglienza non hanno affatto intenzione di fer- marsi nel paese in cui sbarcano e il differimento del progetto migratorio diventa decisamente in- tollerabile allorché si tende ad attribuire loro un posizionamento sociale da “educandi”, quando non “infantile”. Azioni come il rifiuto di apprendere l’italiano o di andare a scuola, presentarsi in ritardo agli appuntamenti, deridere gli operatori, recriminare sul pocket money o sui cibi distribuiti, infrangere intenzionalmente il coprifuoco, ecc. vengono in genere interpretate come “condotte adolescenziali” o come sintomi di diseducazione, manifestando così un doppio implicito: da un lato, un’incapacità culturale di comprendere il migrante a partire dai bisogni effettivi che egli/ella porta e la facile proiezione, su di esso/essa, di un’identità costruita a tavolino; dall’altro, il presup- posto che chi accoglie sia più illuminato del beneficiario su cosa sia meglio per lui/lei, per la sua evoluzione esistenziale, umana e sociale, nel perimetro politico della civiltà moderna e industrial- izzata. Un presupposto di natura etnocentrica. Pertanto, come vedevo accadere nel caso che sti- amo analizzando, le liti, le recriminazioni e gli episodi di ribellione verso le regole da parte degli utenti non erano per nulla rare e appariva del tutto impossibile aprire un tavolo negoziale tra pari. Le risposte “ufficiali” tendevano a scaricare l’onere sulle direttive della Prefettura, col risultato di allargare ulteriormente la distanza tra luoghi “coercitivi” dell’autorità e bastian contrario “cospi- rante” dei sopravvissuti alla traversata. Ma poi c’era tutto il versante delle “risposte di pancia” — raramente palesatomi dal pastore o dai volontari — talvolta fatto di sconforto: quest’ultimo riguardava, più che ogni altra cosa, l’incapacità effettiva di creare un clima di concordia e di amore reciproco tra “fratelli e sorelle”, l’impossibilità di trasmettere un insegnamento di pace e di uguaglianza (oltre che, soprattutto, un modello di umanità) a soggetti che, invece, sembravano quasi totalmente disinteressati.

Pastore Alberto di Stefano: Cerchiamo di non violentare mai le persone. È ovvio che in qualche modo siamo noi che dobbiamo tirare il carro e quindi siamo noi che diamo le direttive. Però cerchiamo di evitare sempre di violentare, di imporci… Cerchiamo il dialogo. Non sempre… [ride] …non sempre, come hai detto, è una negoziazione. Ma cerchiamo il dialogo. Ecco. [cfr. Appendice]

Ci fu un’occasione in cui pastore di Stefano mi chiese, esplicitamente, di prestargli aiuto in veste di antropologa per cercare di capire che cosa ci fosse alla base delle ribellioni — cosa che rifiutai

per consapevole inadeguatezza, rimandandolo ai servizi di consulenza antropologica tutt’ora attivi presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Genova — e fu lì, in quel frangente, che concordammo su quanto non sempre le buone intenzioni siano efficaci, se non mediate da una buona preparazione certamente antropologica, ma soprattutto geopolitica. Quello, più che una richiesta d’aiuto, mi era sembrato un primo timido passo di allontanamento dall’etnocentrismo.

Noi e coloro che non hanno pace — Un ultimo, rimarchevole, distinguo da valutare è quello che si in-

terpone tra chi ha trovato la pace e chi non possiede ancora i mezzi per raggiungerla. La pace im- plica una sensazione definitiva di gioia interiore, la cui caratteristica distintiva è quella di per- manere imperturbabile dinanzi a qualsivoglia imprevisto o evento esterno al soggetto. La pace è qualcosa che ciascuno può trovare solamente dentro di sé e non altrove, qualcosa che non appar- tiene per nulla all’ambito emotivo. Le emozioni, infatti, sono di competenza dell’anima, la regione interiore preposta alle relazioni immateriali tra umani: l’anima è dunque permeabile alle pertur- bazioni esterne e interagendo con esse produce come effetto l’intero spettro emotivo (tristezza, felicità, rammarico, collera, ansia, ecc.). Pace e gioia non vanno mai confuse con la felicità e l’ecci- tazione: mentre le prime sono inamovibili stati dell’essere, le seconde dipendono sempre da qual- cosa di contestuale (una promozione, una nuova amicizia, l’acquisto di una macchina, un viaggio turistico, ecc.). La felicità, insomma, somiglia molto di più al concetto di “godimento immediato” che a quello di “gioia” — e come tale passa e va. Al contrario, la pace è un prodotto spirituale: dipende, cioè, dall’attivazione dello spirito, come vedremo nel prossimo capitolo. Da ciò si deduce l’ultima polarità di cui ci occupiamo qui: quella tra coloro che vivono nell’attività dello spirito e che quindi hanno accesso alla pace (“noi”) e coloro che non sono spiritualmente attivi e che come tali possiedono soltanto stati emotivi caduchi e perturbabili (“loro”).

Pastore Alberto di Stefano: Quello che uno sente è la vera pace. La vera pace non è data da ciò che mi circonda, ma è data da ciò che io sono. Questo è il vero concetto di pace. Molti oggi pensano di rag- giungere la pace solo se hanno i soldi, hanno la macchina, hanno la casa, hanno la moglie, hanno la vita di successo e quella la scambiano per pace. In realtà quello è soltanto emozione, emotività. La pace è un equilibrio interiore che ci porta a stare bene con noi stessi. Chi sta bene con se stesso può stare bene con tutto.

I: Quindi prima stare bene con se stessi. Perché se non succede questo non si può stare bene