Non siamo superstiziosi, è incivile pensare alle magie nere, noi siamo scientisti superevoluti… ma ahimè, qualcosa di vero c’è.
F. Battiato, Viaggio in Nepal
Proseguendo sul filo della addomesticazione immaginale dei soggetti riguardo a una speciale narrazione prosaica su come è fatto il mondo e come sono fatti i soggetti che vivono in quel mondo, giunge il momento di capire anche quale tipo di metanoia sia contenuta in questa storia — la morale della storia, il perché. Il richiamo a non sottovalutare il “perché” è una questione che ripercorre gran parte del pensiero critico di de Martino (1948, 1959, 1977) e che s’innesca laddove l’etnografo sia chiamato a confrontarsi con paesaggi culturali in cui gli umani ritengono possibile condizionare il corso degli eventi ricorrendo a poteri, forze ed entità sovrannaturali: quel che de Martino chiama «mondo magico». Il valore imprescindibile del perché coincide con la necessità di anteporre alla spiegazione “oggettiva” dei fatti preternaturali una comprensione narratologica del dramma storico che i mondi magici incarnano e agiscono: il dramma è ciò che dà senso dinamico a un contesto, il motivo ultimo che “fa girare” il mondo in una certa maniera e che ne fonda la coerenza antropopoietica e ontopoietica. Lo sguardo attento al perché dei mondi magici compor- ta il correlato simmetrico di una doppia tematizzazione dell’alieno e del proprio: se i mondi magi- ci rispondono a uno specifico dramma storico, il nostro mondo è anch’esso una risposta storica ad altri drammi. Qui ritroviamo la riproposizione antropologica di quanto affermava Lacan nel momento in cui interpretava la psicoanalisi come un sintomo [cfr. cap III §3.1]: i dispositivi di lavorazione dell’umano che le culture elaborano lungo il corso del proprio divenire sono tentativi specifici di rispondere ad esigenze particolari, che sono frutto della storia. L’eventuale dimensione terapeutica di questi dispositivi coincide solo con una parte speciale del tipo di “servizio” che essi offrono, un servizio che dialoga con tutti i livelli dell’esperienza incarnata dell’essere corpi umani in situazione (individuale, relazionale, culturale, educativo, istituzionale, etico, sociale, economico, politico) e che li rende, in ultima battuta, faticosamente esportabili altrove. In quest’ottica, i poteri magici sono simultaneamente il presupposto e la risposta riscattante di un particolare dramma storico, la cui “realtà” ha senso solo entro i confini di suddetto dramma. L’annosa impasse etno- grafica del dover formulare un giudizio sulla validità oggettiva delle pratiche magiche si pone proprio perché si sta guardando al fenomeno attraverso una categoria giudicante di “realtà” che è il frutto di un’altra storia rispetto a quella del magismo. Una storia ad esempio che ha ospitato la scienza come impresa conoscitiva e che ha investito, per scelta valoriale, su determinati presup-
posti onto-epistemologici — cui si legano coerentemente le idee riguardo a ciò che è reale. Come dice de Martino, i fenomeni paranormali sono la contraddizione della scienza e si ripropongono ogniqualvolta si assume il piano della “datità naturalistica” come l’unico possibile. Il piano della datità è, secondo de Martino, uno dei principali parametri culturali dell’occidente (direi relativa- mente recente): consiste nel concettualizzare ciò che esiste, ovvero ciò che è “presente” nel mon- do, come qualcosa di indipendente da qualsiasi condizionamento, qualcosa appunto di “dato”, di “gettato nel mondo”, di “oggettivo”. L’esistenza di un tavolo indipendentemente da qualcuno che lo guardi, o la certezza che domani il sole sorgerà a est, o la percezione di condurre un’esistenza saldamente identica nonostante il variare dei contenuti e della storia sono le garanzie speciali di una civiltà che ha abbracciato un’ideale positivo di realtà e che distingue doviziosamente ciò che è naturale e immutabile da ciò che invece può essere condizionato. Diversamente accade invece nel mondi magici, poiché laddove l’intenzionalità umana può condizionare la natura attraverso poteri sovrannaturali, la datità di ciò che c’è non è un presupposto, bensì un problema dominante: il mondo magico è un mondo ancora “in decisione”, dove la presenza è labile e corre il rischio di venire meno. I poteri magici non sono pertanto “positivi” nello stesso senso in cui lo è un tavolo, bensì sono traboccanti di intenzionalità umana e operano in un mondo che ha alienato il suo diritto all’esistenza. L’applicazione acritica della categoria giudicante di “realtà” al problema dei poteri preternaturali è, per de Martino, un esempio di boria culturale — il rifiuto di uno sforzo di pensiero — da cui non può che seguire una spiegazione in chiave psicologica degli “errori del pensiero primitivo”, oppure l’attribuzione di una presunta datità a fenomeni paranormali per in- trodurli nel mondo della datità come elementi misurabili — nonostante l’evidente resistenza dei poteri magici a qualsivoglia forma di legalità/riproducibilità. Se la presenza è labile e l’oggettività un problema da risolvere, il ricorso a istituti magico-rituali di maneggiamento e sostegno della presenza costituiscono una risposta-riscatto adeguata. Da qui il richiamo all’entocentrismo critico:
«Solo un equivoco polemico, maturato nel corso delle lotte millenarie che la nostra civiltà ha dovuto sostenere per distinguersi dalla magia e per determinare qual è, ha potuto mantenere fino a oggi l’osti- nato pregiudizio che questo riscatto magico dell’oggettività in crisi metta capo a un mondo assoluta- mente immaginario, contesto di idee deliranti e di esperienze allucinatorie.» (de Martino 1948: 126)
Il riscatto della presenza è, cioè, la morale della storia, il perché, il motore narratologico di ciò che fa girare il mondo e che richiede, a chi viene da altrove, uno sforzo di comprensione. La presenza, la coscienza, è tra di noi ipostasi metafisica di quella che in realtà è una scelta storica: la forma dell’umano, la sua presenza, è un “farsi” e in quanto opera umana contiene anche la sua disfatta, cioè la possibilità di vedersi sgretolare nei suoi fondamenti. Ogni cultura, si può dire, predispone di propri mezzi per oggettivare, addomesticare e poi riarginare il vissuto angosciante del venir meno della presenza: in tal senso tutti le piste locali che operano nel senso del riscatto — dalla trance sciamanica, ai culti di possessione, al rituale magico, ai dispositivi divinatori, fino ad ar-
rivare alla seduta di psicoanalisi e alla visita medica — sono finalizzati anche a intervenire a sostegno del soggetto in crisi che sperimenta l’indebolimento del proprio esserci nel mondo. Ma con una sostanziale differenza: che per noi l’esserci unitario dell’individuo è un “mai deciso”, o un “sempre deciso”, cioè non entra nel mondo delle decisioni storiche. Laddove la datità natural- istica è un presupposto, la labilità della presenza in crisi è soggetta a patologizzazione, un grave incidente di percorso che isola il soggetto nel suo stato d’inefficacia e può evolvere verso esiti es- iziali. Laddove la suddetta datità è un problema non ancora deciso, il venir meno della presenza è un fenomeno profondamente intrecciato alle trame del quotidiano: può e deve quindi essere la- vorabile attraverso interventi tecnici mirati a maneggiare ritualmente l’esserci e a sostenerlo. Richiamando poi la reciprocità omologica tra soggetti e mondi di cui dicevo sopra, ne consegue che al venir meno dei soggetti corrisponda correlativamente il rischio del venir meno del mondo nella sua globalità, quello che nei termini demartiniani viene indicato come «apocalisse culturale», ovvero il “rischio di non poterci essere in alcun mondo culturale possibile”.
«Alla domanda: “gli spiriti ci sono?” la risposta sarà dunque la seguente: “se per realtà si intende il dato deciso e garantito del nostro mondo culturale, gli spiriti non ci sono. Ma se riconosciamo una forma di realtà che nel corso del dramma esistenziale magico storicamente determinato emerge come riscatto di una presenza in rischio in un mondo in rischio, dobbiamo altresì accogliere la realtà degli spiriti per entro la civiltà magica. In questo senso, gli spiriti non ci sono, ma ci sono stati, e possono tornare nella misura in cui abdichiamo al carattere della nostra civiltà, e ridiscendiamo sul piano arcaico dell’espe- rienza magica.» (de Martino 1948: 167)
Il discorso demartiniano sul mondo magico è un prezioso corrimano per l’analisi delle co- munità pentecostali, che si trovano a mio avviso sospese a metà strada tra una modalità di costruzione dei soggetti parzialmente informata dai modelli di datità positiva della civiltà occiden- tale contemporanea e altri modelli che invece si legano più intimamente al dramma storico del cristianesimo, di cui il pentecostalismo si è dimostrato un operatore rivitalizzante a sfondo chilias- tico. Qui il tema della fine del mondo umano, l’apocalisse cristiana neotestamentaria, si lega a un’elaborazione ulteriore dell’essere umano come “sempre deciso”, la cui parte immateriale però — l’anima, lo spirito — può venir meno a causa dell’assedio maligno e inficiare così la continuità unitaria della presenza. In questo senso, la venuta di Gesù cristo come «colui che salva» e garan- tisce per il riscatto da tutti i mali per le anime convertite nel mondo oltre il mondo, il regno dei cieli, costituisce uno dei momenti del dramma che pone l’aldilà come orizzonte trascendente e collettivo di garantita ricomposizione dell’esserci. La fine del mondo umano è il dramma che pre- cede necessariamente l’entrata nel regno dei cieli, ma appunto per questo viene mutata di segno ponendolo come oltre trascendente che pre-allude alla salvezza eterna. Allora la presenza, per darsi come esperienza unitaria, trova nell’oltre del mondo umano — nella fine dell’umanità terrena — il luogo immaginale del riscatto dal vissuto angosciante della propria labilità. Dell’apocalisse cris-
tiana e della declinazione chiliastica elaborata in seno alle comunità pentecostali parlerò più avanti [cfr. cap. III §3.4]. Per ora mi interessa analizzare più nello specifico il tema della labilità della pre- senza e vedere come questa sia il presupposto e l’obiettivo delle pratiche rituali.
Se la presenza non è mai garantita come cifra unitaria e continua — ma vive anzi costante- mente il rischio dell’assedio da parte di forze maligne — questo significa che essa può essere al- meno manipolata tecnicamente. Nello specifico, considerata la tridimensionalità dell’umano sec- ondo le poiesi pentecostali — corpo, anima e spirito — è possibile manipolare la predominanza di una dimensione sulle altre per favorire determinate conseguenze. A mio avviso, lo scopo di alcune pratiche pentecostali ha esattamente l’obiettivo di indebolire o attenuare la presenza uni- taria, per facilitare la predominanza della dimensione spirituale e indurre, così facendo, l’apertura di una relazione diretta con le entità immateriali spirituali. La glossolalia, l’ascolto nello spirito, il visionarismo profetico e l’investimento nella dimensione onirica, ad esempio, contribuiscono in maniera preponderante a diminuire il raziocinio vigile (che è un prodotto dell’anima) per dare spazio all’emersione di contenuti inediti che poi vengono associati a interventi divini (che stanno nello spirito). In altri termini, per fare relazione — cioè sperimentare sulla terra il regno dei cieli — occorre moderare i toni e i gradi della presenza unitaria e rinforzare l’attivazione dello spirito. Lo spirito, occorre ricordare, è uno spazio interiore che può ospitare le forze invisibili e che per questo va tenuto il più possibile sotto controllo. Un passo della Bibbia è esattamente al punto:
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il botti- no. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde. Quando lo spirito impuro esce dall'uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l'ultima condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima. (Lc 11, 21-26)
La caduta dello spirito è lo scacco della caduta umana in quanto rischio di disintegrazione e di dispersione: l’assedio dello spirito da parte di forze maligne costituisce un’elaborazione immagi- nale della perdita di presenza unitaria sotto forma di possessioni, invasioni e vessazioni, come «es-
traneità che fa violenza, una forza demoniaca che costringe l’esserci ad abdicare» (de Martino
1948: 115). Per questo non basta tenerlo “pulito”: lo spirito deve essere il più possibile riempito di Spirito Santo per mantenersi un uno stato d’inaccessibilità, come fortezza. In altri termini, la relazione più importante che un umano possa mantenere attiva per riscattarsi dalla dispersione è quella con Dio. Un umano che ha messo Dio al primo posto è un umano che pecca di meno, che può accedere alla via della santità intesa come presenza unitaria, in cui tutte le dimensioni sono in rapporto di sudditanza a quella spirituale. Ora, questo stato di “grazia” è messo a dura prova dal mondo ordinario, dove altre forme di relazione compromettono la salvifica predominanza di
quella con Dio e disattivano lo spirito. Allora la comunità diventa quella “palestra di tonificazione dello spirito” che permette di risvegliare o scuotere lo spirito e rendere i soggetti in grado di sos- tituire le relazioni malsane o fuorvianti con quelle spirituali. La relazione con Dio diventa un germe strutturante (Simondon, Virno e Combes 2006) all’interno dell’individuo preso nel proces- so di ristrutturazione del sé e che innesca un profondo rimaneggiamento delle priorità relazionali stesse: Dio, Gesù, Spirito Santo e poi di seguito la comunità intesa come corpo mistico, ma anche come spazio fisico e sociale, i membri e le figure di riferimento, colti nella loro competenza di operatori della mediazione tra visibile e invisibile, diventano attaccamenti necessari secondo l’ur- genza di “rifarsi” in quanto umani rinnovati e salvi sul piano spirituale dell’esistenza — l’unico piano possibile di unità della presenza.
Per inciso, il termine “attaccamenti” va qui inteso per come è stato delineato da Bruno Latour (2000), cioè come l’insieme delle relazioni fondanti di assoluta reciprocità che “sorreggono” la presenza dei soggetti al mondo. Qui, la prospettiva bowlbiana (Bowlby 1989) di una necessità bio- logica, oltre che affettiva, della relazione madre-bambino per la sopravvivenza del soggetto è radi- calizzata al punto da valutare come necessità bio-psico-cognitiva l’insieme di tutte le relazioni che ciascun individuo intrattiene con i soggetti, nonché gli oggetti materiali e immateriali del suo mondo, ciò da cui ognuno si sente personalmente e intimamente attivato e che, qualora venisse a mancare, provocherebbe il rischio del venir meno della presenza, cioè l’esperienza di una crisi radicale. In tal senso, Dio è certamente un attaccamento per qualsiasi pentecostale; ma lo è altret- tanto la comunità presa sia come spazio che come somma di individui, poiché per molti versi è l’unico luogo che permette ai pentecostali di vivere la propria appartenenza fino in fondo.
Questo “rifarsi”, dunque, dell’umano comporta l’apprendimento di nuove forme di relazione spirituale, cioè di esperienza spirituale diretta, che non si basano più sugli elementi caratteristici delle relazioni ordinarie (il corpo nella sua materialità sensoriale, le strutture emotivo-cognitive, la veglia razionale, il linguaggio lineare, la teoria della mente , ecc.) e che richiede, anzi, una qualche 82
forma di “ammorbidimento” dello stato cosciente. In altri termini, lo stato cosciente (che è una facoltà dell’anima e non dello spirito) è proprio ciò che blocca l’attivazione dello spirito. Se con stato cosciente intendiamo, infatti, «la capacità dell'io di vagliare e sintetizzare le esperienze del mondo esterno e interno, integrandole in un insieme di coordinate spaziotemporali […] quindi dare ordine e significato ai vissuti, analizzare, sia pure con un minimo divario temporale, ciò che
Nel linguaggio filosofico, la “teoria della mente” consiste nella capacità di attribuzione all’altro (l’interlocutore, l’umano,
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l’animale) di una “mente” come la propria, che garantisca la possibilità di una reciproca comprensione e di una condivisione di vissuti.
si è provato, ricordato, pensato, […] distinguendo la nostra identità da quella degli altri» — una 83
forma di veglia razionale che si riconosce come tale — dobbiamo necessariamente intendere tutti gli altri stati come “accessori” o “rumori di sottofondo” che ostacolano la coscienza sotto forma di “turbolenze” caotiche e che ci impediscono di relazionarci in modo efficace col mondo ordi- nario. Ma se il mondo ordinario è proprio quello che cerchiamo di silenziare, perché la vera pace dell’umano (presenza) sta nell’oltre del mondo visibile, dobbiamo concludere con William James che:
la nostra normale coscienza in stato di veglia, la coscienza razionale, come la chiamiamo, non è altro che un tipo speciale di coscienza, mentre tutto attorno a essa, separate dal più trasparente degli scher- mi, vi stanno forme potenziali di coscienza del tutto diverse. Possiamo attraversale tutta la vita senza sospettarne l’esistenza; ma […] nessuna visione dell’universo nella sua totalità può essere definitiva, quando lascia fuori queste altre forme di coscienza. Il problema poi è come raccordarle col resto, tanta è la loro discontinuità con la coscienza ordinaria. Tuttavia, esse possono determinare atteggiamenti, sebbene non siano in grado di fornire formule; e schiudono l’accesso a una regione sebbene non sap- piamo darne una mappa. In ogni caso, esse vietano una prematura chiusura dei conti che dobbiamo rendere alla realtà. (James 1902: 334)
Le altre forme di coscienza sono, in ottica pentecostale, altre forme — le uniche vere e autentiche — di conoscenza: tra James e le comunità pentecostali sta uno iato consistente nel possedere o meno una mappa culturalmente redatta di quelle regioni misteriose cui gli stati non ordinari per- mettono l’accesso. L’indebolimento dell’esserci raziocinante è allora ricercato e innescato, al fine di addomesticare i fedeli con la costituiva labilità della presenza, laddove la comunione estatica con le entità spirituali costituisce l’opportunità di assaporare, sul piano spirituale dell’immanenza, il senso di ricomposizione unitaria e fusionale con l’Uno che spetta a tutti nell’oltre trascendente della vita dopo la fine del mondo umano.
La manipolazione della presenza coincide dunque con la lavorazione dell’oltre, nel suo spostamento rituale che “ammorbidisce” la coscienza e le impedisce di ricomporsi in sintesi uni- taria: ciò che la rende, appunto, coscienza presente. Alcune tecniche speciali contribuiscono, ed esempio, ad allontanare l’oltre attraverso l’assolutizzazione di contenuti psichici, resi a tal punto consistenti da alienarli alla sensazione di essere prodotti dal soggetto (de Martino 1948: 86 e sgg.): il soggetto si sente “agito” da qualcos’altro — che sono gli immateriali con cui entra in relazione estatica. La somministrazione di contenuti emotivi forti attraverso le pratiche di guarigione della
La definizione proviene dall’Enciclopedia Treccani, alla voce “coscienza”. La coscienza è descritta in modo più generale
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possibile come quell’insieme di operazioni intrapsichiche che emergono come “lavoro ordinato” dal “rumore di fondo” degli altri processi. Fare ordine dell’esperienza e rifuggire le “turbolenze” è, in tal senso, sia la costituzione che l’obiettivo della coscienza — tutto il resto è materiale confusionario finché non venga vagliato razionalmente in stato di vigilanza (fare un cenno sul pensiero monofasico in occidente e spiegare come il sogno, anch’esso recupero di materiali dispersi, non è ritenuto uno strumento di conoscenza affidabile)
memoria, o attraverso l’impiego rituale di musica e canto; la richiesta di fissare un punto o visual- izzare un’immagine divina astraendo quanto più possibile dal contesto e silenziando il “chiac- chiericcio” della mente; praticare digiuni e astinenze per facilitare l’emersione di contenuti attra- verso l’indebolimento fisiologico generale; curare gli stati onirici considerandone i contenuti come messaggi speciali e rivelatori; decidere di abbandonarsi al pianto rituale del “dono delle lacrime”; pregare per diverse ore: tutte questo tecniche portano i contenuti che emergono in una con- dizione di prevalenza e autonomia — quasi ontologica — che assume i connotati di un dolce assedio e che, in effetti, dista di ben poco dall’esperienza onirica. Del resto, la separazione tra co- scienza desta e coscienza onirica, come tra dimensione reale e dimensione onirica, è forte solo nella persona razionalizzata della nostra cultura, mentre per la persona “magica” è molto più la- bile (de Martino 1948: 90). Maturando esperienza si riesce progressivamente a leggere nella con- fusione di questi stati le forme immaginali predisposte (gli esseri spirituali benigni e maligni) e a