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§2.5 NOI E LORO

I: E tu come l’hai risolta questa cosa?

2.5.1 IO E LORO

Non potevo chiudere questa sezione senza dedicare spazio a un ulteriore e costante luogo di polarizzazione: quello tra loro, i pentecostali, e me, l’antropologa. La qualifica professionale con la quale mi sono presentata a tutti gli informatori ha comportato, naturalmente, una serie di po- sizionamenti reciproci che occorre mettere in evidenza. Alcuni tra questi posizionamenti erano più o meno prevedibili. Banalmente però, molto altro non poteva essere in alcun modo controlla- to. Un po’ perché la ricerca, nella sua interezza, era stata sin da subito orientata in senso esplorati- vo e fattivamente calibrata su strategie qualitativo-etnografiche — il che presuppone sempre delle perturbazioni oltre che un’auspicabile flessibilità metodologica per accoglierle. Un po’ perché le concezioni non specialistiche degli informatori riguardo l’antropologia o il profilo scientifico-pro- fessionale dell’antropologo, se mal gestite da parte mia, potevano giungere a compromettere la buona riuscita di tutto il lavoro. Di conseguenza, il tipo di percorso che scelsi di adottare con tutti prima di aprire le osservazioni all’interno di ciascun gruppo fu di prendere contatto esclusivo con i leader delle comunità e di negoziare preventivamente insieme la possibilità o meno della mia pre- senza, mettendo loro al corrente dei presupposti teorici, dei metodi di raccolta dei dati, delle pos- sibili conseguenze o applicazioni scientifiche del lavoro e — se proprio il caso — della mia po- sizione personale in merito a quanto avrei visto con i miei occhi. Con questi buoni propositi iniz- iò, così, un primo tempo di frenetici contatti telefonici a valle del quale, con un po’ di fatica, si riuscirono a concordare degli appuntamenti privati con ciascuno di loro.

La storia delle udienze coi leader era quasi da copione: io andavo presso i loro studi, ci sedevamo frontalmente ai lati di un tavolo da lavoro, dinanzi ai rispettivi oggetti del mestiere. Si cominciava sempre con un’atmosfera cordiale, benché leggermente ingessata e un po’ troppo ufficiosa. Io tiravo fuori il mio taccuino con la penna, lasciando in borsa il telefonino silenziato; loro mette- vano la Bibbia sul tavolo, a portata di mano, insieme a qualche testo di teologia; i loro telefonini restavano attivi sul tavolo, vicino ai testi. Io mi presentavo, fornivo qualche informazione bi- ografica, raccontavo la genesi del progetto di ricerca ed elencavo gli obiettivi scientifici. In rispos- ta mi vedevo intavolare una formale e generica disamina delle caratteristiche teologiche o storiche del pentecostalismo, qualche breve lettura commentata dei testi disponibili o dei passaggi biblici, alcuni suggerimenti bibliografici e poi, solo molto dopo, qualche perplessità. Le perplessità erano tutte su di me, ovviamente. Le informazioni sul pentecostalismo le potevo trovare in mille testi, perché presenziare? E fu lì che mi resi conto di quanto fosse denso e ambiguo ai loro occhi il mio ruolo e di come questo contribuisse a mettere in forma il nostro modo di stare in relazione. Benché io mi fossi sempre presentata come una giovane neolaureata in procinto di svolgere una ricerca di dottorato in antropologia, le differenze di grado nel mondo della ricerca diventavano superflue e franavano dinanzi all’indirizzo specifico del mio percorso di studio: più che una stu- dentessa di qualsivoglia livello di specializzazione, ero un’antropologa — e gli antropologi sono

“quelli che studiano le culture” — una definizione generica, questa, ma comune a tutti gli infor- matori con cui ho interagito. Di conseguenza il passo successivo, per loro, diventava cercare di capire come mai un’antropologa, cioè qualcuno che studia le culture (degli altri) fosse così interes- sata a dei cristiani che, ad ogni modo, vivevano a pochi passi da lei, parlavano la sua lingua e si confrontavano, in gran parte, con la medesima porzione di società. Era così necessario osservarli direttamente? Il loro sospetto nei miei confronti aveva, in realtà, un doppio fondamento. Per pri- ma cosa, essere un’antropologa mi consegnava immediatamente al “giro di vite” dei ricercatori accademici e a una modalità di sguardo (o ideologia) vagamente associata a posizioni di tipo sci- entista. Entro questa cornice di senso, il mandato della mia ricerca proveniva da quel mondo ed era fatto per ritornare a quel mondo nel modo meno “contaminato” possibile: io rappresentavo “la scienza” che veniva a porre il suo giudizio ultimo e insindacabile su un fenomeno che, da sempre, gli è contrario e incomprensibile — il mondo del sacro. Se intendevo rimanere fedele a quel mandato, non potevo che finire per tradire loro, fare cioè uso delle loro esperienze per rice- vere una valutazione sul mio lavoro e continuare così la mia carriera universitaria. Secondaria- mente, ma certo non meno problematico, il lavoro dell’antropologo richiamava alla mente l’im- magine dello specialista di gruppi umani alieni, il cui compito è soprattutto quello di familiarizzare con i comportamenti cultural-specifici e disambiguarne razionalmente le “bizzarrie”. Perciò, se io mi ero interessata ai pentecostali/carismatici doveva pur esserci qualcosa, in loro, che li distingue- va come gruppo e che consideravo poco comprensibile, se non addirittura irrazionale — tanto da renderli un adeguato oggetto d'indagine antropologica. Non a caso sono loro, per primi, a con- siderarsi dei cristiani del tutto “particolari” e talvolta fraintendibili persino da chi abbraccia lo stesso credo — figurarsi poi da qualcuno che viene dall’accademia! In altre parole, probabilmente li avevo presi per “pazzi” e volevo usare il loro caso per sensazionalizzarlo e prendere un bel voto — le espressioni che sto utilizzando non sono esattamente una mia idea. Dati questi presupposti, quel che tutti i leader mi spinsero a fare per ottenere in cambio la loro autorizzazione fu ben più che una semplice cornice teorica: bisognava che mi esponessi in prima persona. Chi ero davvero, al di là del mio ruolo professionale? Che cosa volevo? Che cosa me ne sarei fatta di tutti i dati — personalissimi — raccolti nelle loro comunità? A chi lo avrei raccontato? Con che tono? Insom- ma, come la pensavo esattamente? L’unico modo di rispondere non poteva che essere personale — perché le risposte professionali, che in ogni caso anteponevo e tentavo di privilegiare, sfocia- vano sempre in un corto circuito. Ed è così che ho fatto, perché in fondo anche io sono nata in una famiglia cattolica molto credente e questo fatto mi metteva in una posizione ben diversa da quella del ricercatore professionista: mi metteva nella posizione di poter essere una di loro o meglio di poterlo diventare — qualora loro si fossero rivelati sufficientemente bravi da convin- cermene. Detto in altro modo, era proprio la mia posizione che andava “ammorbidita” poiché io, portando il testimone de “la scienza sociale” dentro al loro territorio, venivo percepita come qualcuno di inamovibile, indelicato e pregiudizialmente scettico — questo al di là di qualsivoglia

orientamento teorico. Per avere a che fare con loro, dovevo dimostrare di possedere anche io un luogo interiore aperto alla metamorfosi. Dovevo dimostrare che sarei stata in grado di crescere con loro, che le cose che avrei visto mi avrebbero in qualche modo coinvolta e magari, perché no, anche cambiata. In ultima battuta, per avere l’accesso dovevo garantire loro altrettanta possibilità d’accesso. Dovevo rinunciare a essere super partes. Decisi quindi di renderli partecipi della mia ed- ucazione cattolica e del mio progressivo allontanamento dalla fede — ammettendo che quel mondo, tuttavia, continuava ancora a incuriosirmi e a stimolare la mia riflessione. Non avrei potu- to dire nulla di più efficace: da antropologa in cerca di voti mi ero trasformata di colpo in una pecorella smarrita che aveva ricevuto la sua chiamata attraverso il “pretesto” della ricerca etno- grafica. E per giunta ero approdata proprio a loro, i pentecostali, quelli che fanno sul serio a dif- ferenza di molti altri cristiani. Dopo questo primo incontro informale, il registro si è subito modi- ficato: pastore Olabode cominciò a considerarmi un’aspirante pastora; pastore di Stefano prese a chiamarmi «sorellina»; Mons. di Gregorio adottò un atteggiamento di benevola affettuosità. A breve giungemmo a concordare un periodo di osservazione di circa un anno e mezzo, una serie di interviste sotto falso nome a coloro che avrebbero accettato, un’intervista non anonima e trascrivibile a ciascuno di loro e la possibilità, non indifferente per me, che fossi io a esplicitare dopo un certo tempo agli informatori il mio ruolo professionale e il motivo della mia presenza lì. Questo per non allarmarli e concedere loro di conoscermi personalmente, prima che come ricer- catrice — ma soprattutto per vedere se la comprensione pubblica del mio ruolo avrebbe provoca- to delle perturbazioni e, se sì, quali.

Con mia grandissima sorpresa, tuttavia, non ho osservato il benché cambiamento tra il prima e il dopo. Al contrario, dopo un trattamento di benvenuto esattamente identico a quello che ricevono i nuovi arrivati, ciascuna comunità ha mantenuto il proprio “stile collettivo” perfettamente inal- terato, nonostante stesse facendo progressivamente “amicizia” con il mio proposito di ricerca. Benché io avessi, a differenza di altri, un preciso mandato accademico a giustificazione della mia presenza, nessuno sembrava curarsene più di tanto. Anzi dal canto loro, qualora le cose avessero preso la piega giusta, un giorno sarei arrivata anche io a smettere di curarmene, perché avrei fi- nalmente compreso la vera causa della mia presenza lì: la ricerca personale ed esistenziale di Dio. Tutto questo lo si capiva dalle rare domande che talvolta qualcuno mi poneva riguardo alla ricerca in sé: il motore che generava curiosità nei miei confronti non riguardava più di tanto l’evoluzione del lavoro in relazione agli obiettivi iniziali; piuttosto si riferiva all’evoluzione della mia situazione interiore e spirituale nonostante gli obiettivi scientifici. Insomma anche i membri delle comunità, inizialmente inconsapevoli del mio ruolo e poi progressivamente familiarizzati, avevano finito per adottare nell’immediato la lettura dei loro leader: se ero lì, era per volere di Dio. Quella era la mia chiamata: noi come te, tu come noi. La qual cosa diventò palese attraverso le interviste con coloro che avevano dato disponibilità, perché per organizzarne gli aspetti logistici dovevamo aumentare i contatti e poteva capitare di vedersi anche all’infuori delle giornate concordate, per un caffè o una

passeggiata, magari per una cena di gruppo. Questi momenti “rubati”, posizionati all’infuori del- l’ufficialità etnografica, erano solo per me e chi stava con me e ospitavano uno spazio intimo libero di essere attraversato emotivamente. Era soprattutto in quei casi, lontano da registratori e taccuini, che saltavano fuori iniziative improvvisate — talvolta commoventi — di evangeliz- zazione nei miei confronti, che loro malgrado però venivano frustrate dal mio richiamo alla pre- senza del terzo della ricerca. Ancor più nelle interviste mi capitò di assistere a dei preamboli di preghiera che gli informatori chiedevano di svolgere prima di iniziare con le domande. Si trattava di preghiere mirate a invocare l’ispirazione divina su chi, in quel momento, era chiamato a fornire una testimonianza e un’esperienza di fede; ma si trattava anche e soprattutto di preghiere per me, l’antropologa, affinché le parole pronunciate arrivassero nel cuore più che nella testa; affinché trovassi il mio cammino e incontrassi finalmente Dio grazie alla ricerca che stavo conducendo. Di queste preghiere sono riuscita a trattenerne una, che riporto qui, a seguito della quale ho chiesto qualche delucidazione. È l’incipit della primissima intervista che abbia mai svolto per questo la- voro, realizzata a casa di Dalida in un caldo pomeriggio di primavera.

Dalida: Va bè intanto prima preghiamo. Va bene, ti dispiace?