• Non ci sono risultati.

Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro ve- ramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?

C. Campo, Gli imperdonabili

Antropologia e sociologia hanno fondato se stesse come discipline “secolari”, enfatizzando la rottura intellettuale con la teologia. L’idea di una rottura assoluta, tuttavia, è fuorviante. […] L’antropologia ha finito per accettare acriticamente le proprie asserzioni riguardo al suo statuto secolare, omettendo di riconoscere che ha di fatto incorporato all’interno del suo apparato teoretico una versione del pensiero agostiniano, o ascetico , persino nella stessa rivendicazione di un secolarismo assoluto. 13

[…]

L’antropologia è una disciplina non propriamente “secolare” quanto si pregia di essere. Se la sua com- prensione dell’esperienza religiosa fosse meno ancorata all’ascetismo, si ricorderebbe certo più spesso della propria preistoria teologica. (Cannell 2005: 341, 352 trad. mia)

Le riflessioni di Cannell riagganciano l’epistemologia alla storia: ribadiscono la specificità di uno sguardo — quello antropologico — che è genealogicamente imparentato con la biografia del col- lettivo di umani che l’ha prodotto. Che il cristianesimo sia una delle linee portanti della cultura occidentale non è nuovo; quello che sostiene Cannell, sulla scia di M. Sahlins (1996), è che le con- temporanee piste conoscitive occidentali, nella loro corsa verso il distanziamento da contenuti teologici, abbiano tuttavia mantenuto una linea “cripto-cristiana” di caratteristiche da cui dipende la forma dei rispettivi strumenti epistemologici (Bialecki, Haynes e Robbins 2008). Queste carat- teristiche non sono però “genericamente cristiane”, bensì risalgono a una specifica modulazione del pensiero cristiano, cioè a una tradizione storica che è poi divenuta maggioritaria e che oggi ritroviamo incarnata nelle maggiori sintesi ortodosse. Lo stesso Sahlins fa notare come diversi tratti della civiltà moderna — il dualismo oppositivo natura-cultura; la ratio economicista che pone la vita e la dimensione sociale e produttiva come opportunità di massimizzazione dell’inter- esse individuale; la concettualizzazione della società come organismo autoregolato e coercitivo Il pensiero ascetico cui fa riferimento Cannell corrisponde grossomodo alla concezione secondo cui il corpo materiale è un ingombro da

13

rimuovere e mortificare, al fine di slegare l’anima immortale dal suo giogo ed elevarla verso Dio. In realtà esistono diversi modi di praticare ascetismo, i quali non prevedono alcun tipo di rimozione corporea. In questo speciale caso, il pensiero ascetico presuppone che si possa separare, dentro l’umano, una zona materiale da una zona immateriale e che queste aree siano mutualmente esclusive: ciò che è anima/ mente/spirito/cultura non è corpo/carne/istinto/natura, ciò che è immateriale non si mischia con ciò che è materiale.

che si oppone all’individuo dotato di libero arbitrio; l’idea di umano come essere biologicamente incompleto e bisognoso, il cui desiderio costituisce la principale spinta verso l’azione — abbiano origine nell’esegesi patristica della Bibbia. Ciò detto, l’adozione inconsapevole di questi tratti ha comportato una concettualizzazione monolitica del cristianesimo, elidendo come “casi limite” tutti gli percorsi collaterali — non molto diversamente da quanto fece l’istituzione cattolica in tempi di purghe anti-ereticali. In tempi più recenti l’incontro con il pentecostalismo e le sue “es- orbitanti” caratteristiche rituali ha rimesso in gioco il discorso di Sahlins e anzi ha prestato brac- cio a una vera e propria provocazione teoretica (Smith 2008, 2010; Bialecki 2012, 2014; Reinhardt 2015). L’idea di alcuni studiosi è che il comportamento dei pentecostali nelle comunità, nei grandi raduni di massa, ma anche nel privato quotidiano presupponga una cosmovisione (metafisica, on- tologica, epistemologica) implicita, la cui esplicazione può rivelarsi tale da mettere in discussione le categorie più stabili della nostra zona filosofica di comfort — tra cui le stesse che si attivano “di pancia” quando pensiamo in termini generici al cristianesimo. Tra tutti Smith, filosofo e teol- ogo pentecostale, si spinge più oltre sostenendo che una “nuova storia della filosofia” — se com- pilata da un punto di vista pentecostale — potrebbe ridare «voce a voci che sono rimaste al mar- gine o silenziate dalla tradizione (razionalista) occidentale» (Smith 2010: 14 trad. mia). Proviamo a vedere se è possibile parlare di una “metafisica pentecostale” e quali sono luoghi topici in cui in- contrarla.

Al di là di natura e cultura …e supernatura — Per capire i pentecostali occorre capire com’è fatto il 14

mondo dei pentecostali — e non quale sia la “rappresentazione del mondo” dei pentecostali. In- tendere le cosmovisioni come rappresentazioni presuppone che ci sia una sola realtà e tanti modi di concepirla, ovvero separare l’unica natura dalle tante visioni culturali della stessa natura. Il dual- ismo natura/cultura è, come sappiamo, fondamento onto-epistemologico del sistema conoscitivo occidentale . La stessa scienza moderna è basata sull’idea che esista nel mondo qualcosa — che è 15

il suo oggetto di ricerca — di materiale, autonomo, sorretto da leggi immutabili e che queste leggi parlino un linguaggio matematico. A ben vedere, però, questa tradizione di pensiero non è esat- tamente una creazione di Galileo. Separare la dimensione materiale da quella immateriale era l’op- erazione fondamentale che distingueva il cristianesimo delle origini dal paganesimo inteso come idolatria della natura. Venerare le cose materiali, anche se create da Dio, significava venerare la

Il sottotitolo del paragrafo è ispirato al famoso testo di Descola P. (2005) Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris. L’antropologo,

14

seguendo un impianto interpretativo filo-strutturalista che sigla il maestro Lévi-Strauss, propone di approcciarsi alle diverse sistemazioni ontologiche delle culture abbandonando il dualismo natura/cultura e concentrando l’analisi sulle modalità che i collettivi umani adottano per distribuire relazioni di continuità/discontinuità tra individui e ambiente. Descola propone allora uno “schema integratore” generale che individua quattro tipi ontologici, partendo da come gli umani distribuiscono continuità/discontinuità di interiorità e continuità/dis- continuità materiale: naturalismo (discontinuità interiore e continuità materiale); animismo (continuità interiore e discontinuità materiale); totemismo (continuità interiore e continuità materiale) e analogismo (discontinuità interiore e discontinuità materiale).

Per un’analisi archeologica del binomio natura/cultura e della prevalenza del pensiero monista all’interno della civiltà occidentale si veda

15

creatura e non il creatore, perché Dio non è nelle cose del mondo, egli le ha soltanto create e le ha predisposte in autonomia. Il primo vero e proprio disincantamento del mondo è stato opera del cristianesimo stesso (Sahlins 1996: 411) e non del razionalismo moderno. Cristianesimo e Scienza moderna condividono, almeno, un presupposto metafisico non indifferente: che tutto ciò che è visibile, materiale e governato da leggi immutabili fa parte della natura. Ciò su cui divergono, in- vece, è l’ontologia (quel che esiste nel mondo), nonché il sistema esplicativo che giustifichi le anomalie del mondo. Il “miracolo”, ad esempio, è un’anomalia. Il sistema esplicativo cristiano si basa su di un supernaturalismo interventista: Dio (che esiste) interviene (o s’infila) nella natura (che è altra cosa da Dio) e sospende temporaneamente le leggi naturali. Sul versante opposto si pone invece lo spettro dei naturalismi che spaziano tra l’adesione più o meno marcata a un sistema es- plicativo di tipo riduzionista. Il fisicalismo presuppone che non esista altro tranne la materia e che tutti i fenomeni del mondo siano (saranno!) spiegabili col solo ricorso alle leggi di natura e ai pro- cessi fisici. Più morbido invece è l’orientamento non-riduzionista il quale ritiene che il ricorso esclu- sivo alle leggi di natura non sia spiegazione sufficiente a dar ragione di tutti, ma proprio tutti, i fenomeni. Entrambi i sistemi esplicativi tengono fermo un comune denominatore monista: la recalcitranza a impegnarsi ontologicamente nei confronti di “oggetti” immateriali. Sostanzial- mente, il naturalismo è una forma di “anti-supernaturalismo”. Come dice Smith, il naturalismo sembra essere una tesi molto generale: non è esattamente sicuro di cosa sia, ma certamente è si- curo di cosa non è. Infatti, sembra tutt’altro che chiaro che cosa sia “naturale”, che cosa sia una “legge naturale” o una “forza naturale”, e men che meno si ha una definizione positiva di cosa sia “non-naturale”, “spirituale” o “supernaturale” (Smith 2008: 884). Ciò detto, i pentecostali mani- festano un’impegno ontologico decisamente “terzo” rispetto sia al naturalismo scientifico, sia al supernaturalismo cristiano. Per comprenderlo occorre uscire non solo dall’opposizione natura/ cultura, ma anche dall’opposizione natura/supernatura. La natura dei pentecostali non è un sis- tema chiuso e autoregolato: è un sistema aperto all’imprevedibilità e instabile. In altri termini, il “miracoloso”, l’“imprevedibile” o l’“anomalo” costituiscono il tessuto stesso della natura, poiché è la presenza di Dio a sostenerne la regolarità. Conseguentemente la natura — la creazione — può cessare di essere: il mondo può finire da un momento all’altro. L’ontologia pentecostale, per- tanto, non presuppone interventismo divino: al contrario sembra essere qualcosa di molto più vicino a un naturalismo incantato [Figura 3], un “realismo magico”, o comunque un “realismo dello

Spirito”, poiché tutto ciò che è naturale/reale lo è in quanto agito e sostenuto da Dio sotto forma di Spirito Santo. Lo Spirito è naturale — creatore e creatura sono una stessa natura. Da ciò segue che anche il miracoloso è normale, l’extra-ordinario è ordinario. L’ontologia pentecostale somiglia molto più a un supernaturalismo materiale o a un supernaturale materialismo: siglando nuova- mente Latour, essa è ai nostri occhi naturalisti un ibrido prodotto dai dualismi isomorfi materiale/ immateriale, natura/cultura, natura/supernatura, immanente/trascendente. Il mondo pente- costale è anche molto meno confortevole di quello naturalista o supernaturalista, perché nessuna autonomia naturale ne garantisce la presenza continuativa: nessun principio di uniformità. Essa è pertanto «in disaccordo con il piano immanente della modernità secolare e problematizza l’oppo- sizione egemonica tra trascendenza ineffabile e immanenza meccanicistica. L’analisi della teologia pentecostale come naturalismo spiritualizzato permette di ridefinire l’immanenza come una ver- tigine dei pentecostali, un luogo in cui devono immergersi per ritrovare un autentico cristianesi- mo, ma anche dove possono assistere allo svanire di questi confini autoritari» (Reinhardt 2015: 407 trad. mia). Occorre ora capire come sia possibile aderire a intuizioni metafisiche così lontane dal comune sentire della civiltà moderna.

Pratica omeostatica di un paradigma indiziario — La risposta non è banale, però è semplice: in praxi. 16

Per i pentecostali quel che c’è nel mondo non gode di nes- sun diritto inalienabile all’e- sistenza, né di uniformità, ed è normalmente predisposto all’anomalia. La materia, in quanto creata e abitata da Dio, eccede se stessa ed è fin- tanto che Dio non la sospen- da: Smith la chiama “ontolo- gia partecipativa” perché Dio e creazione non sono entità discrete, ma compenetrate. Allora il sistema esplicativo dell’anomalia, prima di tutto, non con- templa anomalia alcuna e, inoltre, rende ragione dell’evento non ordinario nei termini di una L’espressione paradigma indiziario risale all’elaborazione teorica che ne dà C. Ginzburg (1979) Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A.

16

Gargani (ed.), Crisi della ragione, Einaudi, Torino. Secondo l’autore, ciò che costituisce tale paradigma è uno speciale modo inferenziale della conoscenza che tocca trasversalmente tutti gli umani (e anche i non-umani) e che si differenzia da quello logico-deduttivo e da quello in- duttivo per il fatto che parte da una serie di elementi particolari (indizi, segni, tracce) e ne trae una conclusione anch’essa particolare, sep- pur valida. Questo stile dell’inferenza, di tipo abduttivo, è principalmente semeiotico, perché prende elementi apparentemente sconnessi e li carica del valore di segno: è quindi una modalità di conoscenza che richiede la maturazione esperienziale di un “colpo d’occhio”. Il para- digma indiziario, inoltre, richiede un tipo di intelligenza più simile all’astuzia che alla logicità e per tale ragione accomuna i saperi compe- tenziali tipici di cacciatori, divinatori, medici, filologi, critici dell’arte. Più in generale, esso accomuna tutti coloro che hanno a che fare con “cose nascoste” da ricostruire intuitivamente collegando tra loro le tracce che, sulla base della loro esperienza, reputano come rilevanti.

maggiore intensità partecipativa di Dio in un particolare “sito” della creazione — un kairos. Per entrare in questo mondo c’è un solo modo: esporsi in prima persona, partecipare ai kairoi, abitu- arsi a percepire e a discernere la presenza a colpo d’occhio — cioè fare esperienza. La parteci- pazione alle attività collettive — assemblee comunitarie, sessioni di preghiera, celebrazioni e ri- correnze, raduni di massa, scuole bibliche, testimonianze — è l’occasione per immergersi nell’at- tività dello Spirito Santo e riattivare la propria dimensione spirituale. In altri termini, stare nel col- lettivo significa entrare in relazione con il mondo abitato dal collettivo e addomesticarsi a quel mondo tramite le pratiche che lo veicolano e lo fanno agire. Non è una visione del mondo a costruire le pratiche, ma sono le pratiche stesse a produrre il mondo: il rituale è esso stesso un modo di stare nel mondo. Dalla pratica — e dall’esposizione continua alla pratica — segue una manipolazione estetica profonda dell’individuo, un training che porta, assieme all’esperienza diret- ta, anche una nuova competenza ermeneutica: saper associare, a certi fatti, il valore di segno. È così che lentamente prende forma l’individuo “continuo” al mondo pentecostale, un soggetto, cioè, che partecipa di quel mondo ed è attivato da ciò che solo in quel mondo accade. Le riunioni pen- tecostali sono note per la modalità particolarmente emotiva e corporea di praticare il culto — una modalità appunto pneumocarismatica, vale a dire fondata sull’esperienza concreta e non-mediata della relazione con lo Spirito Santo. L’esposizione alle attività collettive permette l’apprendimento non soltanto di un modo diverso di fare culto, ma soprattutto di un “modo diverso di pensare” (Smith 2010: 25): i più disparati accadimenti — gioia colma di sorriso, scoppi di pianto e gemiti, mani alzate in gesto di lode, spontanee genuflessioni, canto e danza, irruzioni di profezie e linguaggi asemantici, Bibbie aperte casualmente su versetti speciali, ma anche urla strazianti di dolore e improvvise bestemmie, svenimenti inspiegabili, mani che si stringono e si impongono sui fratelli, voci in testa, occhi che si chiudono… — diventano sintomi/tracce/indizi visibili di qual- cosa di “nascosto” che è stato convocato, che si sta “muovendo” e che va ricostruito abduttiva- mente a posteriori. Allora la conversione può avvenire solo dopo che, in uno spazio immateriale dell’umano appositamente predisposto e chiamato “interiorità” o “spirito” o “anima”, la ricom- posizione dell’intrico degli indizi si congiunge analogicamente all’ontologia e alle teorie causali di cui il collettivo è rappresentante. Ciò che si sta muovendo — nello spazio esteriore, negli spazi inte- riori e attraverso questi spazi [Figura 4] — è Dio stesso, attraverso la terza persona rappresentata dallo Spirito Santo (Reinhardt 2015: 423). Dato che, in ultima battuta, non è illecito dire che esis- tano tanti pentecostalismi quante le stesse forme aggregative pentecostali locali (Naso 2013), segue che ciascun collettivo produce, riconferma e promuove — attraverso modalità rituali pro- prie che manifestano “somiglianze di famiglia” — una particolare declinazione pneumocarismati- ca dello stare al mondo in quanto cristiani.

Riusciamo ora a comprendere come l’assenza di un’autorità istituzionale dominante di discernimento 17

richieda una norma che sia posta in essere da forme omeostatiche di giudizio e critica. Comprendiamo che la trascendenza qui si è spostata dalla non-partecipazione (ineffabilità) a una partecipazione inten- sa tra individui e cose (Reinhardt 2015: 429 trad. mia)

La teologia pentecostale, infatti, non si apprende per accumulo lineare di informazioni propo- sizionali, bensì in praxi, attraverso un procedimento spiralizzante di continuo assestamento cogni- tivo, propriocettivo e senso-motorio che si esplica nel contatto diretto col collettivo. Infatti, la partecipazione dello Spirito Santo dentro al mondo fa sì che gli effetti divini non siano appannag- gio esclusivo dei convertiti in cristo. Guarigioni, profezie, miracoli sono a disposizione di tutti, soprattutto dei curiosi che orbitano attorno alle zone di maggiore intensità partecipativa, pur sen- za assumersi l’onere di un impegno personale. La volontà e la responsabilità sono, in altri termini, i fattori decisivi che distinguono un semplice visitatore dal membro convertito della comunità. Invece, la capacità di colpo d’occhio e la competenza pneumocarismatica (o potremmo dire “tec- nica”) distinguono un membro semplice da un membro anziano. L’epistemologia pentecostale somiglia, allora, molto più a quella degli artigiani, dei cacciatori o dei medici che a quella dei teologi o dei filosofi, nel senso che appare molto più banausico-competenziale che teoretico-con- templativa.

Le confessioni come genere epistemologico — Un’ultima considerazione va riservata al ruolo della 18

testimonianza per i collettivi pentecostali. Testimoniare significa raccontare — e non informare —

ai fratelli un’esperienza personale unica, irripetibile, che però può essere d’ispirazione e di esem- pio per gli altri. La testimonianza riceve spesso degli spazi molto privilegiati, sia nei sermoni che nei momenti di condivisione comunitaria, e anzi sembra essere la principale strategia di veico- Discernimento è un termine neotestamentario che indica la capacità, conferita da Dio, di separare qualitativamente le manifestazioni non

17

ordinarie dovute allo Spirito Santo dalle manifestazioni non ordinarie che provengono dal maligno. Infatti, fenomeni come “parlare in lingue”, vissuti catatonici e trance di tipo estatico, onirismi, profezie, locuzioni interiori e altri elementi tradizionalmente collegati alla pre- senza divina possono essere invece manipolate ed espresse attraverso influenza satanica. «Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Giov 4: 1-3)

L’espressione qui adottata richiama l’opera di Zambrano M. (2004) Le confessioni come genere letterario, Mondadori, Milano. Nel testo

18

l’autrice propone una rilettura delle Confessioni di Sant’Agostino, da cui trae considerazioni sia filosofiche che meta-filosofiche. Nell’idea di Zambrano, la confessione diventa una modalità di riflessione filosofica che segue dinamiche inverse a quelle della filosofia analitica tradizionale. Nelle sue parole, la confessione è una filosofia che non ha “voltato le spalle alla vita”, poiché esprime il tentativo di risolvere la confusione esistenziale entrando a gamba tesa nel tempo e nell’esperienza, piuttosto che astraendone. Infatti, la confessione è una modalità argomentativa che «parte dal tempo che si ha e, finché dura, parla a partire da questo, pur andando in cerca di un altro tempo. Sembra che la confessione sia un’azione che si verifica non nel tempo, ma con il tempo; è un’azione sul tempo nella realtà, e non virtual- mente. È il cammino per ottenere qualcosa in relazione al tempo» (p. 44). Nel raggiungere la “verità”, la confessione segue la progressiva trasformazione interiore del soggetto che rincorre la verità, comportando così per chi legge la consapevolezza che non c’è verità da ot- tenere se prima non si è ottenuta una metamorfosi che renda ricettivi e pronti nei confronti di quella verità. In un certo senso, la confes- sione è una storia filosofica, con annessa la morale della storia: esplicita che cosa comporta, in praxi, l’aderire ad una verità. Una praxi che, proprio perché confessata, resta un’esperienza specifica.

lazione di contenuti spirituali. La distanza che passa tra testimonianza e studio biblico è la stessa che sta tra ragione narrativa e ragione teorica, o tra esperienza e informazione. Laddove le sec- onde fondano la persuasività (leggi “verità”) su di un sapere avulso, neutrale e possibilmente uni- versale che si vuole tale in quanto epurato da accidenti circostanziali, le prime recuperano i con- tenuti espunti dalle seconde e ne fanno il principale strumento persuasivo (leggi “verosimile”). In questo senso, la testimonianza è l’operazione contraria all’insegnamento, perché produce in chi ascolta un’adesione analogica tra l’esperienza del narratore e qualcosa di simile che, meno inten- samente, albeggia nella coscienza del destinatario. L’ascoltatore sente che in se stesso qualcosa si ripete e se non lo sente, allora vuol dire che non è ancora pronto a recepire il mistero contenuto nella testimonianza che sta ascoltando — la testimonianza è un operatore iniziatico. Se lo sente, invece, è la propria persona tutta che rinasce assieme al racconto, poiché assume su di sé un sis- tema esplicativo nuovo che dà nuova forma e nuove immagini ai contenuti dinamici della propria interiorità. Alla testimonianza si aderisce fin nella carne, mentre le teorie si accettano all’interno del gioco linguistico che le mette in circolo — persino senza predisposizione alcuna. Non è un caso se, come ricorda Severi, è piuttosto la “riluttanza a non credere” che fa la forza di un’ade-