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Questi bambini sanno troppo. R. Beneduce, Etnopsichiatria

Nello spazio che segue vorrei fare principalmente due cose: da un lato, provare a rintracciare le coordinate teoriche sufficienti alla costruzione di una prospettiva antropologica sensibile all’ar- gomenti di questo lavoro e, dall’altro, utilizzare le questioni emerse dal campo etnografico [cfr. cap. II] come grimaldelli di costruzione del pensiero. Inizierò, tuttavia, con una suggestione che proviene dalla psicoanalisi e che utilizzerò come trampolino provocatorio per svolgere una serie di considerazioni, stavolta, non psicoanalitiche. La suggestione di cui parlo è la seguente:

«per un breve momento ci si è potuti render conto di che cosa sia l’intrusione del reale. L’analista è fermo lì. Rimane lì come un sintomo. Non può durare se non a titolo di sintomo. Ma vedrete che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarlo nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo» . 65

Nel testo citato Jacques Lacan nomina almeno quattro oggetti e li mette in relazione “fisio- logica”: c’è un reale che intrude nell’umanità, provocando un’emersione sintomatica, la psicoanalisi, il quale sintomo può essere efficacemente debellato ricorrendo al senso religioso. Procedendo nella lettura diventa chiaro che il senso religioso non è che l’obiettivo di quel che Lacan intende per “religione”, cioè il trovare «corrispondenza di tutto con tutto» (ibid: 99) in particolare nei momen- ti di crisi storica generale, in cui nulla sembra funzionare e gli umani sono attraversati da un diffu- so sentimento di angoscia. Il “reale” lacaniano sta esattamente nella «differenza tra ciò che fun- ziona e ciò che non funziona. Ciò che funziona è il mondo. Il reale, invece, è ciò che non fun- ziona. Il mondo va, gira bene, è la sua funzione di mondo. Per accorgersi che non c’è il mondo […], basta notare che ci sono cose che fanno sì che il mondo è immondo, se posso esprimermi così» (ibid: 97). “Immondo” qui non significa “impuro”, bensì non-mondo, senza-mondo: stare nell’immondizia come non poter stare dentro un mondo. Seguendo il ragionamento, dunque, la psicoanalisi sarebbe un sintomo dell’avanzare dell’immondo. Il suo status di sintomo dipende dal fatto che non è essa stessa il problema, men che meno la soluzione, bensì lo segnala, anzi segnala almeno due cose: che c’è un problema (il reale che sta disfacendo il mondo) e che c’è anche una prima reazione al problema (la psicanalisi). La psicanalisi è quindi un primo argine — provvisorio,

Il testo citato proviene da una conferenza stampa tenuta presso il Centre culturel français a Roma, il 29 ottobre 1974, dove

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J. Lacan fu interrogato da alcuni giornalisti in occasione di un congresso tenutosi presso i locali del Conservatorio di Santa Cecilia per l’École freudienne de Paris. La versione integrale della conferenza, assieme ad altri testi raccolti da J.-A. Miller, compare nel volume pubblicato nel 2005 dall’editore Einaudi (Torino) e curato da A. di Ciaccia: Dei Nomi-del-Padre seguito da

non risolutorio — al non-mondo, cioè all’angoscia provocata dall’arretrare dei confini del mondo. Perché ci sia mondo, cioè un “modo di girare” sensato che si fondi su un ordinamento coerente e che preservi l’umanità dal reale, occorre un pharmakon che rimetta il non-mondo nel mondo, che 66

impedisca alle cose e agli umani di evaporare assieme a ciò che ha perso valore. In tal senso la “re- ligione”, intesa come discorso ordinante produttore di valori non negoziabili e di competenze analogiche , è il riparo possibile contro il non-mondo, una matrice di infinite corrispondenze tra 67

ciò che diviene storicamente e che quindi può manifestare insensatezza. Sto utilizzando qui un linguaggio volutamente ispirato a quello di Ernesto de Martino. «Non poter esserci in nessun mondo culturale possibile» o «rischio di passare con ciò che passa, anziché farlo passare nel val- ore» sono note espressioni dell’autore che richiamano da vicino, secondo una declinazione antropologica, l’idea che Lacan accennava nel passaggio: la possibilità cioè che l’esistenza dell’u- mano sia racchiusa nella possibilità di poter contare su un mondo che funziona — nonché l’altra idea complementare, che sia l’umanità che il mondo possano venir meno («accorgersi che non c’è il mondo…»).

Non potrebbe essere qui meglio reso il vissuto di fine del mondo come vissuto della perdita della in- tersoggettività dei valori che rendono un mondo possibile come mondo umano. Il segno interno della mondanità, ciò che costituisce il suo carattere di normalità, è la sua prospettabile intersoggettività, il suo appartenere a una prospettiva di operabilità socialmente e culturalmente condizionata: e non a caso il termine più pertinente per designare la normalità del mondo è attinto dalla vita associata, onde il mondo normale è “domestico”, “familiare”, “mio”. (De Martino 1977: 50)

Detto altrimenti, umani e mondi non sono entità assolute, o “fatti naturali”, bensì ontologica- mente secondi a qualcosa che li precede e li eccede, e che è per tutti. La suggestione psicoanalitica non può che arrestarsi qui, dinanzi all’esigenza idiografica di contestualizzare storicamente quel “per tutti”. Psicoanalisi — e religioni — hanno davvero un aspetto sintomatico, ma questo si evince soltanto restituendo a entrambi il loro ruolo di istituti culturali specifici nati in corrispon- denza di determinati percorsi umani che hanno avuto bisogno di dotarsene. Sono, in tal senso, il frutto del “lavoro delle culture” (Coppo 2003), se con “cultura” s’intende l’insieme delle incessan- ti pratiche di costruzione, ordinamento, preservazione, assestamento, modificazione — e dis- truzione — del mondo umano da parte degli umani stessi. In questa prospettiva, dunque, non esiste mondo fuori dall’umanità, ma fuori dai mondi non possono esistere gli umani: umani e mondi si dànno in co-evoluzione e risultano dal continuo addomesticare e ammansire ciò che sta

Il termine greco pharmakon — che indica simultaneamente “rimedio”, “veleno” e “sacrificio” — ci è sembrato migliore di

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“cura” o “farmaco” perché possiede una qualità di vox media, ossia di un’indeterminazione che necessita di un contesto per essere specificata. Pharmakon indica, cioè, in senso lato tutto ciò che produce un cambiamento, i cui esiti possono essere migliorativi o esiziali a seconda di come lo si somministra e a chi (Latour 2000).

In generale, il saper trovare somiglianze e corrispondenze tra elementi anche molto eterogenei. Nello specifico, un saper-fare di tipo

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alle periferie del visibile e all’infuori dell'ordine, ciò che non ha nome e ciò che può anche provo- care angoscia.

C’è quindi un’area misteriosa per gli umani, che essi possono intuire ma non comprendere o lavorare direttamente, un’area che li eccede, che si sottrae a ogni tentativo di osservazione diretta, dominazione, classificazione, analisi, sistemazione; […] in una parola, inaccessibile alla lingua, al pensiero. Ai bordi di quest’area, come formiche o api ai limiti delle loro costruzioni, gli umani sono indaffarati in un lavorio continuo, un chiacchiericcio infinito che produce innumerevoli immagini, discorsi, rappresentazioni, metafore.(Coppo 2003: 118)

Le aree misteriose ed eccedenti di cui parla Coppo non riguardano esclusivamente l’esteriorità, ma anche l’interiorità degli stessi umani: sono quelle zone immateriali di opacità che richiedono sofisticati dispositivi di conoscenza per entrare in risonanza. Ci tornerò fra poco.

Che ci sia in ogni umano una latente eccedenza di qualcosa che è “altro” da lui/lei e che in qualche modo debba essere sottoposta a operazioni culturali di contenimento è il presupposto delle teorie antropologiche che vanno sotto il nome di antropopoiesi (letteralmente, “costruzione 68

dell’umano”) . Remotti, il padre della prospettiva antropopoietica, propone di sostituire classiche 69

concezioni dell’umano come “essere biologicamente incompiuto” e quindi “culturalmente riem- pito e reso adatto al contesto”, con l’idea di umano biologicamente generico, cioè “potenzial- mente eccedente” e praticamente inadatto, in quanto non-specializzato, a vivere nel contesto in cui nasce. Il lavoro di cultura, in tal caso, non è tanto quello di potenziare il neonato, quanto quel- lo di sfrondare la totipotenza che deriva dalla sua genericità, per investire soltanto su alcune qual- ità e rinforzarle, lasciandone a fortiori inespresse delle altre — fare l’umano specifico vuol dire, cioè, impedire un divenire “altrimenti” umano, impedire un divenire non-umano. Questo perché l’umanità non appartiene alla “datità” naturale, ma agli obiettivi di cultura, e segue un modello ben preciso, i cui connotati sono anch’essi sanciti culturalmente. Le teorie antropopoietiche oc- cupano quindi un zona di medialità epistemologica rispetto alla maggioritaria partizione culturale del nostro sistema conoscitivo: quella tra natura e cultura. Se l’umano va costruito, e vedremo come, allora l’umano “naturale” non esiste, ma esistono tanti modi di umanità quante lavorazioni culturali possibili. Significa, più specificamente, che il “programma” biologico di un individuo

Per un affondo si vedano Remotti 1990, 2011, 2015 e Consigliere 2014.

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Smettendo un punto di vista esclusivamente etnocentrico, occorre ricordare che presupposti analoghi si ritrovano nelle

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puericulture di diverse popolazioni fuori dall’Occidente, pur manifestando concezioni e pedagogie del sé non assimilabili alle nostre. Ad esempio, presso le civiltà dell’Africa subsahariana, i neonati sono corpi-frontiera tra visibile e invisibile, il cui statuto di “essere umano” non è mai un presupposto, bensì un obiettivo da raggiungere attraverso complicate operazioni finalizzate a “legare” il neonato a questo mondo, affinché non ceda al desiderio di tornare da dove è venuto. Figure del limite come l’abiku (nato per morire) Yoruba o il kinkirga (bambino che inganna) e lo yewaya (che ritorna) Mossi manifestano l’am- biguità ontologica di questi nati, in bilico tra il mondo degli antenati e degli umani, il cui comportamento abnorme o la par- ticolare vulnerabilità vengono riorganizzati in semeiotiche locali volte a prescrivere specifiche tecniche di umanizzazione, come il divieto di lavare gli occhi per impedire che il bambino “veda troppo” e decida di morire. (Beneduce 2014: 161 sgg.)

appartenente alla specie umana è del tutto insufficiente a fare di quell’individuo un umano. L’u- manità è l’esito, mai terminato, di una costante attività di umanizzazione che inizia molto presto che penetra nel profondo la biologia, ne costituisce anzi la modalità espressiva. Le ipotesi di Re- motti trovano sostegno all’interno di diversi settori disciplinari. Studi e ricerche provenienti dal coro delle scienze naturali (epigenetica, endocrinologia, paleontologia, neurobiologia, biologia dello sviluppo, biologia evolutiva, psiconeuroendocrinoimmunologia) e umane (psicologia dello sviluppo, antropologia linguistica, antropologia biologica, antropologia psicologica) hanno messo in luce la scarsa efficacia esplicativa — se non l’erroneità — della partizione natura/cultura nelle questioni sia filogenetiche che ontogenetiche (Ochs e Schieffelin 1984; Gardner 1972; Jablonka e Lamb 2002, 2009; Despret 2002; Rogoff 2004; Lewontin 2004; Longo e Tendero 2008; Pisani 2001, 2007; Prochiantz 2009; Bottaccioli 2014), operando allo stesso tempo una critica interna alle ideologie riduzioniste che assumono la categoria — giudicante — del naturale come ultimativo e fondamentale livello esplicativo del vivente. Il divenire umano si avvicenda dunque senza frat- tura d’azione per entro la lavorazione reciproca tra soggetti e mondi, un divenire che non esaurisce mai completamente le potenzialità, ma che le indirizza verso “repertori” materiali e im- materiali culturalmente ordinati.

Gli umani non sono nati camminando, né camminano allo stesso modo. Non c’è, come osservava l’antropologo Marcel Mauss nel suo famoso saggio del 1938 sulle tecniche del corpo, una maniera naturale di camminare. In Giappone, almeno tradizionalmente, era convenzionale camminare “dalle ginocchia”, qualcosa che a noi sembra piuttosto un’andatura tremolante, ma che ha effettivamente molto senso se s’indossano sandali e si cammina su terreni ripidi, ed è anche comune nella campagna giapponese, specialmente quando si trasportano pesanti carichi appesi alle estremità di un lungo ed elastico bastone in bilico su una spalla. Agli Europei, tuttavia, tutto questo pare abbastanza sgraziato. Vengono loro insegnate, sin dall’infanzia, le virtù di una postura dirittta, e i girelli vengono impiegati per facilitare i bambini nello stare in pedi (come strumento, il girello non è nuovo, ma esiste da secoli). Ci insegnano a camminare a partire dai fianchi, e non dalle ginocchia, cercando di tenere le gambe più dritte possibile. E i nostri strumenti di trasporto, dagli zaini alle valige, sono costruiti tenendo a mente questa postura. Queste declinazioni della deambulazione sono supplementi non-genetici o superor- ganici aggiunti alla capacità universale di locomozione bipede, che è già stata impartita al corpo umano dai geni? Sicuramente no. Perché camminare non corrisponde alla somma di componenti pre-esistenti e aggiunte, ma è una tecnica che si acquisisce gradualmente soprattutto, ma non esclusivamente, nei primi anni di vita, e che viene incorporata nel modus operandi dell’organismo umano attraverso pratiche e training all’interno di un ambiente che include figure di presa in carico competenti, insieme a una variabilità di oggetti di sostegno e uno specifico territorio. (Ingold 2006: 17).

Come sostiene l’antropologo Ingold, richiamando il famoso studio di M. Mauss sulle tecniche del corpo, l’umano è messo in forma dai rappresentanti del suo mondo culturale fin nei dettagli che

sembrano più naturali — e in tal senso il lavoro di cultura è anche un lavoro di naturalizzazione 70

— come la postura, la prossemica, la deambulazione, gli stili del sonno, le funzioni fisiologiche e metaboliche, la digestione, fino a toccare gli ambiti più complessi della strutturazione emotiva, cognitiva e pulsionale, l’utilizzo del linguaggio, i pattern di sviluppo, la distribuzione dei sessi e dei generi. La plasmazione e la manipolazione del soggetto cominciano almeno a partire dalla ges71 -

tazione intra-uterina e proseguono lungo tutto l’arco dello sviluppo attraverso pratiche implicite di accudimento e di inculturazione — con obiettivi, tappe e tempi localmente variabili (Rogoff 2004). Questo silente e continuativo insieme di operazioni è definito antropopoiesi primaria. Crescere serenamente all’interno di una società permette di assorbire i modelli vigenti mediante processi impercettibili: quasi «senza accorgersene, si diventa uomini e donne di un certo tipo, as- sumendo le “fogge” di umanità date e accolte nell'ambiente circostante» (Remotti 2011: 6) e il soggetto si viene progressivamente individuando secondo percorsi culturalmente predisposti. In questo senso si può dire che la forma specifica dei soggetti non è mai l’esito di una scelta individ- uale, bensì uno dei possibili sentieri collettivamente abilitati che anzi precede l’individuo e ne cos- tituisce il presupposto individuante (Consigliere 2014). Questo non deve, tuttavia, lasciar inten- dere l’antropopoiesi come una forma di determinismo culturale. È possibile infatti distinguere almeno un’altra dimensione poietica, secondaria, che agisce esattamente sulle riserve di potenzialità lasciate inespresse dalla lavorazione primaria e che introduce un senso mai esausto di possibilità e di trasformazione dell’individuo rispetto al collettivo umano di cui fa parte. In questa ulteriore dimensione si possono annoverare pratiche, saperi, percorsi e istituti che hanno l’obiettivo esplici- to di operare una mutazione permanente della forma primaria: istituti educativi, rituali iniziatici, rituali di passaggio, accesso a gruppi che richiedono specifiche attitudini e più generalmente tutto ciò che, attraverso un percorso riconosciuto e codificato, produce un cambiamento di status e concede ai soggetti la chance di poter “divenire altro”. Le antropopoiesi secondarie sono al con- tempo sia un lavoro culturale, sia un insegnamento meta-culturale. Infatti, come afferma Remotti:

la cultura conosce diversi momenti e si articola in diversi livelli: essa non è soltanto un insieme di scelte stabilizzate e socialmente condivise, un insieme di sentieri collaudati e tradizionalmente utilizzati dai suoi appartenenti per i loro traffici e i loro scambi. Essa contiene anche un livello ulteriore, che chi- ameremo “‘in più’ culturale” o più propriamente “meta-cultura”, giacché si tratta dell’insieme di espe- dienti mediante i quali i suoi appartenenti, uscendo dai sentieri previsti, acquisiscono la possibilità di riflettere sulla loro stessa cultura, sulle scelte originarie, ossia sui presupposti che l’hanno costituita. Questo uscire fuori dai tracciati normalmente utilizzati presenta rischi di non poco conto e di solito si

Concetto espresso da F. Remotti in Noi primitivi (1990): ciò che sembra naturale all’interno di una cultura non è tale, ma lo

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diventa per opera culturale, affinché una serie di gesti, operazioni, modi e pratiche entrino nei corpi e vadano da sé, in auto- matico.

Presso altre popolazioni (si veda ad esempio McCallum 1996 e Santos-Granero 2012), la riproduzione è regolata da una

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serie di norme che prescrivono ai futuri genitori uno specifico regime dietetico e comportamentale, il che fa sì che si possa parlare di manipolazione pre-uterina delle condizioni di concepimento e di gestazione del nascituro.

tratta di operazioni che comportano dolore e sofferenza (come i rituali antropo-poietici ci insegnano). Ma le vie impervie e difficili della meta-cultura rappresentano un guadagno irrinunciabile: quello del recupero del senso delle possibilità e, insieme a questo, l’idea altrettanto fondamentale, che l’uomo non è stato fatto, creato e prodotto una volta per tutte, ma è un essere la cui stessa struttura biologica richiede che venga di continuo reinventato, e non solo di epoca in epoca e di cultura in cultura, ma da persona a persona e, per ogni persona, in ogni momento del suo esistere. (Remotti 2015: 36)

Le poiesi di seconda dimensione richiudono il cerchio su quanto cercavo di sostenere all’inizio del paragrafo. Se l’umano non è mai tale una volta per tutte e anzi esistono modi di intervenire e ristrutturare — anche radicalmente — ciascuno, allora ogni individuo possiede in sé qualcosa di indefinito e invisibile che lo eccede e ne consente senza fine la manipolazione, ne garantisce la grazia della trasformazione. Le operazioni culturalmente preposte alla metamorfosi non possono che pensare, cercare di oggettivare, spazializzare, entrare in relazione con quelle zone di opacità attraverso dei “dispositivi” codificati e speciali, ovvero insiemi eterogenei di saperi, pedagogie, visioni, relazioni di potere, linguaggi, tecniche, strategie, e normatività, dal cui attrito con soggetti specifici emergono infine altre forme umane, altre possibilità di individuazione e altri mondi. Il ricorso all’idea di una lavorazione secondaria dei soggetti mi pare particolarmente adeguata per rendere conto del funzionamento delle collettività pentecostali in quanto dispositivi iniziatici, cioè finalizzati alla “produzione” di soggetti sufficientemente — e definitivamente — “rinnovati” da poter entrare in relazione con una “realtà” diversa da quella che abitavano prima. Seguendo le intuizioni di Isabelle Stengers (2006), i pentecostali costituiscono collettivi di umani raccolti at- torno a una “causa” speciale che li allontana dal senso comune e che li conduce verso forme di relazione e modalità di produzione dell’esistenza “opachi” — vale a dire resistenti, come abbiamo visto [cfr. capp. I, II] alle opposizioni che alimentano l’ordine pubblico: conoscenza oggettiva/ credenza, visibile/invisibile, realtà/rappresentazione, natura/cultura/supernatura, ecc. Se, come afferma Coppo, tra dimensione individuale (psiche, interiorità) e dimensione collettiva (cultura, esteriorità) non c’è frattura, bensì una continuità (Coppo 2003) costantemente lavorata e rinegozia- ta grazie al lavoro di cultura che esplora gli interstizi, sposta le frontiere, manipola la soglia, allora non possiamo che riconoscere la co-produzione mutua di umani e mondi, l’immersione dei soggetti rinnovati in un mondo che, proprio grazie a questo rinnovamento, non può più essere quello di prima.

«Fabulare [fabuler], raccontare altrimenti, non è rompere con “la realtà”, ma cercare di rendere percettibili, a far pensare e sentire, degli aspetti della realtà che, di solito, sono considerati accessori. Ed è, soprattutto, sottrarsi alla “favola delle origini”, quella che dobbiamo raccontare da Galileo in poi. Secondo questa favola, la fabulazione non è che finzione [fiction], senz’altro libera, ma innanzitutto falsa. Le verità che sembra produrre sono relative alle nostre idee, alle nostre convinzioni, alle nostre abitudini, non a ciò con cui abbiamo a che fare» (Stengers 2006: 169)

Nel brano citato Stengers mette in pratica quella che lei stessa definisce e rivendica come «ecolo- gia delle pratiche», operando una simmetrizzazione: l’opera consiste nel considerare tutte le imp- rese conoscitive umane come l’esito dell’attività di collettivi (“praticanti”) in carne e ossa raccolti attorno a un obiettivo (“causa”) che costituisce il perno della loro attivazione. La conseguenza è di ordine simmetrico perché impedisce di costruire una gerarchia di saperi fondata sulla differen- za tra verità e finzione, una differenza, questa, che secondo Stengers non appartiene al mondo, bensì è parte del discorso consensuale egemonico delle civiltà moderne (la “favola delle origini di Galileo”). Ogni impresa conoscitiva presuppone modalità specifiche per entrare in relazione con qualcosa che deve essere oggettivato: ciò che va indagato e come lo si debba fare, però, non è mai neutrale, bensì ordinato secondo scelte valoriali — il presupposto scientifico di una preliminare e necessaria distinzione tra fatti e valori è esso stesso un valore. In quest’ottica neutrini, atomi, elet- troni, neuroni, virus, inconscio, psiche ma anche spiriti, Dio, antenati, anima, demoni, fantasmi, non-morti, Vergine Maria, djinn, ecc. sono entità che abitano la zone opache esteriori e interiori