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Favore di Dio

II. Funzione di Dio ed electio divina del re

II.1 Intervento divino

II.1.3 Favore di Dio

Se, come abbiamo visto, l’intervento divino può avvenire a beneficio o a detrimento di un qualsiasi re, sono però le figure di Enrico I e di suo figlio Ottone I a ricevere maggiore attenzione da parte di Dio. Nei loro confronti si può notare una differenza non solo quantitativa ma anche qualitativa della presenza divina. Questi due re, infatti, tendono a instaurare un rapporto privilegiato con il Signore, non solo perché nei loro confronti, come è facile immaginare, l’intervento di Dio si traduce sempre in un aiuto, più o meno risolutivo a seconda degli autori, ma anche perché esso tende ad associarli alla sfera del divino con una intensità che non troviamo enunciata per nessun altro regnante.

II.1.3.1 Enrico I

Uno dei momenti centrali nella rappresentazione del rapporto fra Dio ed Enrico I è costituito dalla vittoria sugli Ungari avvenuta nei pressi di Merseburg nel 933.

Nell’Antapodosis lo scontro militare è preceduto da un discorso in cui Enrico infiamma gli animi dei suoi soldati ricordando loro che Dio non ha difficoltà ad abbattere i molti attraverso i pochi se la fede di questi ultimi lo merita. Però, per meritarlo, la loro fede deve essere provata non solo dalle parole tramite la professione, ma anche con le opere, cioè con le azioni. E per dimostrare la sua fede e con essa quella del suo esercito, Enrico fa un voto a Dio: promette per primo, in quanto per dignità e grado è il primo del suo popolo/esercito40, che mai più ci saranno pratiche simoniache nel suo regno, come invece accadeva con i suoi predecessori41. A questo discorso segue la descrizione della battaglia, che fin dai suoi esordi viene caratterizzata come lo scontro fra le schiere angeliche e quelle demoniache42. Se Liutprando insiste molto sull’abilità dei Sassoni nel mettere in pratica un consiglio tecnico-militare di Enrico, quello cioè di procedere compatti con gli scudi alti per proteggersi dalle temibili frecce ungare e di caricare i nemici subito dopo il primo lancio senza dar loro la possibilità di farne un secondo, la vittoria arride all’esercito di Enrico principalmente per la volontà di Dio di aiutare i Sassoni, come si può riscontrare in questi due passi: «Fitque divini muneris pietate, ut potius hos (scil. gli Ungari) fugere quam

40 Per la caratterizzazione di Enrico I come primus inter pares cfr. infra paragrafo III.1 41 LIUTPRANDIAntapodosis, lib. II, cap. 27.

42Ibidem, lib. II, cap. 30: «Haud mora, bellum incipitur, atque ex christianorum parte sancta ac mirabilis vox 'Kurie eleison', ex eorum vero turpis et diabolica 'húi, húi' frequenter auditur».

preliari iuvet» e poi «verum omnipotens Deus, qui pugnandi eis (scil. gli Ungari) audatiam tulerat, fugiendi etiam copiam omnino negabat»43.

Il rapporto particolare che esiste fra Enrico e Dio non è testimoniato solo dal favorevole intervento divino durante la battaglia, che abbiamo visto operare anche in altre occasioni, ma anche dalla consapevolezza che Enrico stesso mostra di avere, riguardo al favore divino nei confronti del suo popolo, i Sassoni, che nessun altro re, a parte Ottone come vedremo, esprime in tutta l’Antapodosis. E inoltre dall’ispirazione divina che gli ha suggerito le parole del discorso con cui ha incitato i suoi alla battaglia.

Enrico, infatti, ha parlato divini muneris flamine tactus. È la prima volta che nell’Antapodosis «il soffio del dono divino» tocca un re o un qualsiasi altro personaggio, laico o ecclesiastico che sia, e viene subito da pensare ai re d’Israele e al rapporto diretto esistente fra loro e il Signore, o, anche, al dono dell’ispirazione divina che spetta ai profeti nell’Antico Testamento. Bisogna notare, però, che flamen è un termine non troppo ricorrente nella letteratura latina altomedievale. Infatti è presente soprattutto nel linguaggio poetico44 mentre è molto raro nelle opere in prosa. È da registrare anche la sua totale assenza dall’Antico come dal Nuovo Testamento. L’uso certamente consapevole, come sempre in Liutprando, di questo termine specifico potrebbe derivare dalla volontà di differenziare il contatto divino avuto da Enrico rispetto a quello rappresentato negli altri due episodi di ispirazione da parte di Dio attestati nell’Antapodosis.

Il primo è inserito poco dopo l’intervento divino che muta il cuore dei cristiani e li spinge a combattere i Saraceni del Garigliano. Un giovane Saraceno, racconta Liutprando, a causa di ingiurie subite dai suoi correligionari li abbandonò e si rifugiò presso papa Giovanni X. Qui divino tactum spiramine propose al pontefice di affidargli un manipolo di armati col quale tendere imboscate ai suoi antichi compagni. L’azione, andata a buon fine, servì a dare coraggio ai cristiani che finalmente presero le armi contro i Saraceni e in seguito formarono la coalizione che sotto la guida del papa distrusse per intero l’insediamento del Garigliano45. Il secondo episodio, invece, riguarda i conti Udone e

43Ibidem lib. II, cap. 31.

44 Per un significativo esempio dell’uso del termine flamen in un’opera poetica coeva cfr. Vita s. Landelini, ed. K. Strecker, MGH, Antiquitates, Poetae Latini Medii Aevi V-1, Leipzig 1937, p. 211: «Ingenitus genitor, per verbum cuncticreator / et genitus regnans, nutu fabricata gubernans / sanctificium flamen a quis procedit in orbem / personis trini, sed trino numine simpli» e inoltre l’introduzione alla Vita alle pp. 174-178.

Corrado il Saggio, fedeli di Ottone I, che si trovarono a giocare un ruolo decisivo durante la prima rivolta antiottoniana. Sono loro, infatti, a uccidere i duchi Everardo e Giselberto, capi della ribellione insieme al fratello del re Enrico. Liutprando racconta che i due conti si trovavano ad Andernach sul Reno e lì si accorsero della presenza del grande esercito dei duchi ribelli, ma per l’esiguità delle loro truppe esitavano ad attaccarli. Allora iubente Deo

non locutionis, sed inspirationis presero a seguirli e dopo poco si imbatterono in un

sacerdote disperato perché spogliato dei suoi beni dai ribelli e proprio da questo uomo di Dio Udone e Corrado vengono a sapere che i due duchi si sono attardati in compagnia di pochi milites a mangiare sulla riva del fiume mentre la maggior parte dell’esercito ha già passato il Reno. A questa notizia i conti spronano i cavalli e si gettano sui duchi ribelli riuscendo nell’impresa, fino ad allora sempre fallita, di ucciderli46.

Come si può notare, sempre di ispirazione divina si tratta. Ma mentre nel caso di Enrico il termine usato per esprimerla, flamen, assume un valore particolarmente pregnante per la sua rarità e per l’appartenenza a un lessico prevalentemente poetico, nei due esempi successivi l’ispirazione divina è resa attraverso due parole, spiramen e inspiratio, di uso decisamente più comune e prosastico. Si ha l’impressione, quindi, che Liutprando abbia voluto dare minor risalto al contatto divino presentato nei due episodi successivi rispetto a quello che ha visto protagonista Enrico I.

Lo scontro presso Merseburg trova largo spazio anche nell’opera di Widukindo. Come nell’Antapodosis la battaglia decisiva è preceduta da un accorato discorso di Enrico alle sue truppe nel quale li esorta a riporre le loro speranze nella divina clementia e a non dubitare perché anche questa volta, come nelle altre battaglie da loro combattute, riceveranno il divinum auxilium. Quindi nessuna sorpresa se gli Ungari voltano le spalle all’esercito teutonico e si danno alla fuga finendo in gran parte uccisi o catturati47. A conferma dell’avvenuto intervento di Dio Widukindo afferma nel capitolo successivo che

46Ibidem, lib. IV, cap. 29.

47 WIDUKINDI Res Gestae Saxonicae, lib. I, cap. 38: «Rex vero postera die producens exercitum exhortatus est, ut spem suam divinae clementiae committerent, divinum sibi auxilium quemadmodum in aliis preliis adesse non dubitarent; communes omnium hostes esse Ungarios; ad vindictam patriae parentumque solummodo cogitarent: hostes cito terga vertere vidissent, si viriliter certando persisterent».

Enrico appena rientrato in patria, pro victoria divinitus concessa, devolve al servizio divino e ai poveri il tributo precedentemente destinato agli Ungari48.

Sembrerebbe quindi una scena assolutamente conforme a quella presentata da Liutprando. Ma una prima differenza salta subito agli occhi: Enrico non parla per ispirazione divina, non ha alcun rapporto diretto con Dio, la sua funzione è unicamente quella di esortare l’esercito a non dimenticare del favore divino goduto in passato e a confidare in esso anche in quel particolare momento. Vi è poi una seconda differenza, che procede nella stessa direzione indicata dalla prima. All’inizio del capitolo, prima del discorso appena citato, Enrico ne pronuncia un altro, ma non all’esercito bensì convocato

omni populo. A quest’ultimo Enrico si rivolge non per esortare ma per chiedere consiglio:

se debba continuare a pagare il tributo agli Ungari con il denaro destinato alla chiesa oppure se debba usarlo per glorificare il Signore. Il popolo si esprime a favore della seconda opzione e «operam suam deinde promittens regi contra gentem acerrimam, dextris in caelum elevatis pactum firmavit».

Nel racconto di Widukindo, Enrico non ha legami diretti con l’intervento di Dio, è il popolo/esercito dei Sassoni a esserne protagonista e beneficiario. Enrico, invece, è interamente calato nella dimensione terrena, svolge principalmente la funzione di attore di un’azione politica: il patto di mutuo soccorso stretto fra il re e il suo popolo. Ma su questo rapporto e sul suo significato all’interno della Storia dei Sassoni si rimanda al capitolo seguente49.

Prima della grande vittoria sugli Ungari, Dio era intervenuto solo un’altra volta in battaglia a dare sostegno all’esercito sassone. Widukindo racconta che le barbares nationes, espressione che nella Storia dei Sassoni indica sempre l’insieme dei popoli slavi, già resi tributari da Enrico, si ribellano al re e quest’ultimo invia un esercito guidato dai conti Bernardo e Tiatmaro per sedare la rivolta. Dopo il quinto giorno che assediano Lenzen, una città slava posta sull’Elba, i sassoni sono informati dell’arrivo di un forte esercito di slavi che ha intenzione di attaccarli di sorpresa la notte successiva. E «cum conventus esset populi circa tentoria legati (scil. Bernardo), eadem hora collega dictante precepit, ut per

48 Ibidem lib. I, cap. 39: «Rex vero victor reversus modis omnibus gratiarum actiones divino honori, ut dignum erat, solvebat pro victoria de hostibus sibi divinitus concessa, tributumque, quod hostibus dare consuevit, divino cultui mancipavit et largitionibus pauperum deservire constituit».

totam noctem parati essent, ne qua forte irruptio barbarorum in castra fieret». Durante la notte, nutu divino, incomincia a cadere una forte pioggia che si protrae fino all’alba, quando invece il sole splende e dà speranza e fiducia al populus Dei, cioè, in questa specifica occorrenza, all’esercito sassone, «cuius faciei claritas atque serenitas circumfulsit illos». A cosa è dovuta questa fiducia? Alla constatazione che l’esercito degli slavi è costituito in prevalenza di pedites, e quindi, a causa della pioggia notturna, la loro capacità di manovra è molto compromessa. L’intervento divino ha messo gli slavi in una condizione di inferiorità, nonostante il maggior numero di soldati, rispetto ai Sassoni tra le cui fila, infatti, vi sono soprattutto equites. Segue il racconto della battaglia che vede trionfare i Sassoni. L’origine divina di questa vittoria è poi ribadita alla fine del capitolo quando Enrico accoglie con tutti gli onori Bernardo e Tiatmaro, «qui parvis copiis divina favente clementia magnificam perpetraverint victoriam»50.

L’espressione populus Dei, che in tutta la Storia dei Sassoni ricorre solo in questo passo, trova un unico parallelo nell’invocazione rivolta da Ottone a Dio durante la battaglia di Birten: «Deus, omnium rerum auctor et rector, respice populum tuum». Visto che in questo caso Ottone prega il Signore affinché protegga le sue truppe in difficoltà al di là del Reno, bisogna constatare che questa espressione, nelle sue uniche due ricorrenze, indica sempre l’esercito dei Sassoni, piuttosto che la sua popolazione in senso ampio.

È interessante notare che nella Continuatio Reginonis l’unico intervento divino a favore di Enrico I è inserito da Adalberto durante una campagna contro i Boemi, popolazione associata al mondo slavo, che viene sconfitta prestante Deo51, mentre l’autore non sente il bisogno di collegare la battaglia di Merseburg, di cui non cita il luogo ma che è ben evidente fra gli eventi dell’anno 934, al favore divino e preferisce ricopiare la notizia dagli Annales Augienses senza inserire altri elementi nel testo come fa invece in altri passi della sua opera52.

Nella Vita Brunonis Ruotgerio utilizza la gratia divina per motivare la pacificazione intervenuta dopo la conquista militare della Lotaringia per mano di Enrico: la conquista,

50 WIDUKINDI Res Gestae Saxonicae, lib. I, cap. 36. L’espressione divina favente clementia ricorre spesso nelle arenghe dei diplomi di Ottone I.

51 ADALBERTIContinuatio, anno 928, p. 158,: «Heinricus rex Boemos hostiliter invasit et prestante Deo fortiter superavit».

52Ibidem, anno 934, p. 159: «Heinricus rex Ungarios multa caede prostravit, pluresque ex eis conprehendit». Cfr. Annales Augienses, ed. G. H. Pertz, MGH Scriptores I, Hannover 1826, p. 69, anno 934.

infatti, era stata in grado di infondere un timor tanto grande nei Lorenesi insieme con un

amor altrettanto forte fra i Sassoni da essere in grado di garantire che la coesione degli uni

prevalesse sulla paura degli altri, ottenendo così la “pacifica” unione del regno della Lotaringia con quello dei Franchi orientali53.

Nei primi versi dei Gesta Ottonis, invece, compare l’unico intervento divino a favore di Enrico che consiste nella concessione della pax civilis da parte di Cristo, rex pacificus, durante la vita di Enrico54. Ma sull’insistenza sul tema della pace interna, che caratterizza anche in altre fonti il regno di Enrico, e sulla sua caratterizzazione come rex pacificus avremo modo di tornare, ampiamente, più avanti.

II.1.3.2 Ottone I

Nessuna figura tra tutte quelle che affollano le fonti che abbiamo analizzato gode di così tanto favore divino, diretto o indiretto, come Ottone I. Se questa constatazione non ci sorprende di certo, visto il gruppo di opere selezionato, ci spinge comunque a porre l’accento sugli episodi e le situazioni in cui questo favore si manifesta e allo stesso tempo sulle differenze che a seconda delle fonti caratterizzano gli interventi di Dio nei confronti di Ottone.

Nell’Antapodosis di Liutprando vi è un blocco narrativo, che occupa venti capitoli del quarto libro, interamente dedicato alle vicende di Ottone I e delle lotte intestine che scoppiarono poco dopo la sua incoronazione a re di Germania.

Lo scontro di Birten (939), all’interno di queste vicende, è di fondamentale importanza perché mostra con chiarezza lo scarto qualitativo del rapporto esistente fra Ottone e Dio rispetto a tutti gli altri delineati nell’opera. Siamo nel pieno della prima rivolta antiottoniana ed Enrico, il fratello minore del re, ha da poco unito le sue forze a quelle dei duchi ribelli Everardo e Giselberto. L’esercito regio è presso il Reno, a Birten appunto, ma solo un esiguo numero di milites è passato sulla sponda opposta quando all’improvviso giunge l’intera armata dei ribelli. Resisi conto che non hanno più la possibilità di mettersi in salvo al di là del Reno i milites di Ottone si gettano a capofitto contro i nemici. Ottone

53 RUOTGERI Vita Brunonis p. 4, cap. 3: «sed post aliquantum temporis tantus timor per gratiam divinam invasit extraneos, ut nihil umquam eis esset formidabilius, tantus amor colligavit domesticos, ut nihil umquam in quolibet potentissimo regno coniunctius videretur».

54 HROTSVITHAE Gesta Ottonis, p. 276, vv. 17-18: «Huic rex pacificus dederat de sidere Christus / eius civilem vitae per tempora pacem».

vorrebbe andare in loro soccorso, ma ne è impedito dalle acque del fiume, allora scende da cavallo e «sese cum omni populo lacrimas fundens ante victoriferos clavos, manibus domini et salvatoris nostri Iesu Christi adfixos suae que lanceae interpositos, in orationem dedit». Grazie a queste preghiere i nemici si danno alla fuga mentre nessuno dei milites di Ottone viene ucciso. Che questo racconto rappresenti un exemplum è detto chiaramente all’inizio del capitolo dove Liutprando afferma: «ut scias quam facile est Deo in paucis plures vincere, et quod quisquam in abundantia virtutis suae non salvabitur, audi antiquum a Domino renovatum miraculum»55. Ma è il meccanismo con cui scatta il miracolo che non ha precedenti in tutta l’opera. Infatti l’intervento di Dio è innescato dalle preghiere di Ottone, nasce da un atto di volontà, da una richiesta del re anche se certamente amplificata dalle preghiere dell’omnis populus e dalle proprietà della Santa Lancia, cioè quella su cui Ottone ha pregato56.

Nel capitolo immediatamente successivo veniamo infatti a sapere che questa lancia, grazie ai chiodi della croce di Cristo che porta nell’impugnatura, è una reliquia preziosissima, un oggetto «quo caelestibus terrea Deus coniunxerat, lapis scilicet angularis faciens utraque unum» e, sopratutto, un victoriferum praeeunte signum, giunto nelle mani di Enrico I per volontà divina e successivamente ereditata da Ottone57.

Come se tutto ciò non fosse sufficiente a mettere in risalto il valore esemplare della battaglia di Birten Liutprando dedica un ulteriore capitolo, intitolato «argumentum ex scripturis sanctis, quod huiusmodi victoria sive bellum non fortuitu, sed Deo disponente provenerit», alla spiegazione del significato di questo evento. E dopo la disamina di molti passi scritturali, tratti prevalentemente dal Nuovo Testamento e in particolare dall’episodio di san Tommaso, Liutprando giunge alla conclusione che Dio ha concesso a Ottone questa vittoria così insperata vista la scarsità di milites «volens mortalibus indicare quam carus Deo esset, qui orando tam inmensum cum paucissimis triumphum optinere promeruit» E poi rivolgendosi allo stesso Ottone continua «forte enim, immo certe, et tu prius ignorabas quam carus Deo existeres, quod post te cognoscere fecit, cum tanta victoria honoravit.

55 LIUTPRANDIAntapodosis, lib. IV, cap. 24.

56 Su questa celebre reliquia cfr. le considerazioni di GANDINO, Il vocabolario politico cit., pp. 32-33. 57Ibidem lib. IV, cap. 25.

Sancti etenim viri, quid virtutis habeant et quanti in conspectu divini examinis consistant, nisi probaverint ignorant»58.

E che Ottone sia un vir sanctus lo dimostra il comportamento tenuto nei capitoli successivi. Giunto in Alsazia per combattere il duca Everardo e abbandonato dalle truppe di molti vescovi istigati da Federico, arcivescovo di Magonza, Ottone è esortato dai suoi

milites a ritirarsi perché, gli fanno notare, le truppe rimastegli fedeli sono troppo scarse

rispetto a quelle dei nemici. Ma Ottone rifiuta con decisione ricordando loro che «melius est enim pro vera iustitia mortem subire quam eam fugiendo turpiter vivere. (...) Nam pro iusticia pugnaturos ob copiarum paucitatem ante pugnae experimentum terga dare, Deo diffidere est». E con queste parole non solo li convince a rimanere in Alsazia ma li incita anche a combattere con coraggio59.

Ma il climax si raggiunge nel capitolo successivo quando Liutprando presenta Ottone come modello di perfezione cristiana. Vincere i nemici in battaglia, egli afferma, è possibile anche ai peccatori se tale vittoria rientra nei piani di Dio (come nell’Antapodosis viene mostrato più volte), ma mantenere intatta la virtù dell’animo senza abbattersi nelle avversità né esaltarsi nei successi è tipico solo dei perfecti. E per dare un’ulteriore prova che Ottone appartiene a questa schiera racconta di quando un conte, di cui non fa il nome, chiede al re di cedergli l’abbazia di Lorsch contando sul fatto che molti avevano abbandonato Ottone e questi gli avrebbe concesso qualsiasi cosa pur di non perdere altre truppe. Ma Ottone non cede al ricatto e convocato il conte gli cita il vangelo di Matteo: «Nolite sanctum dare canibus», spiegando a tutti i presenti che andrebbe contro le indicazioni delle Sacre Scritture «si monasteriorum praedia, quae a religiosis viris Deo sunt militantibus tradita, tulero seculo que militantibus dedero». Il conte, allora, si getta ai piedi del re e ammette il suo peccato. A commento delle vicende raccontate fin qui Liutprando afferma, rivolto a Recemondo, «perpende itaque, qua constantia adhleta Dei (scil. Ottone) non solum visibiles, verum etiam invisibiles conterat hostes»; il re infatti riesce a resistere alle insidie del diavolo sia che siano visibili, come i grandi in rivolta, sia che siano invisibili, come il tentativo di indurlo a