III. Regalità negoziata: il consenso dei principes e la mediazione dei vesco
III.1 Enrico I rex pacificus e primus inter pares
III.1.5 Il rifiuto dell’unzione
Ma Widukindo non delinea in forme particolari solo la scena della designazione: anche quella immediatamente successiva dell’elevazione al trono, che Liutprando e Adalberto liquidano con poche parole, assume nella Storia dei Sassoni contorni del tutto inconsueti. Widukindo racconta che Everardo, rispettando la volontà di Corrado, porta il tesoro a Enrico, conclude la pace e gli promette amicizia. Dopodiché riuniti i principes e i
maiores nati dell’esercito dei Franchi Everardo «designavit eum regem coram omni populo
Francorum atque Saxonum». Ma quando l’arcivescovo Irigerio offre a Enrico la corona e l’unzione egli rifiuta entrambe spiegando: «satis michi est, ut pre maioribus meis rex dicar
et designer, divina annuente gratia ac vestra pietate; penes meliores vero nobis unctio et diadema sit: tanto honore nos indignos arbitramur». E visto che queste parole trovano l’assenso della universa multitudo la scena si chiude con l’acclamazione del nuovo re43.
Qual’è la peculiarità della scena? Cosa appare inconsueto? La risposta è più che banale, anzi addirittura ovvia: il rifiuto della corona e dell’unzione. Widukindo è il solo, fra le nostre fonti, a raccontare del rifiuto dell’unzione e della corona da parte di Enrico I. Questo rifiuto è davvero significativo perché se per Widukindo la corona è l’insegna del potere regio per eccellenza44, l’unzione è un rito ancora più caratterizzato visto che viene attribuito solo ai re tedeschi: Corrado, Ottone I e Ottone II, con l’aggiunta di Tiadrico, mitico re dei Franchi di epoca merovingia, che comunque sembra riconducibile a Ottone I in funzione di modello, come vedremo fra poco45. Il gesto di Enrico è gravido di significato proprio perché rappresenta un apax nella tradizione regia costruita da Widukindo. Ma qual è il senso di questo gesto? A nostro avviso rappresenta il tentativo di offrire un modello di regalità svincolato dalla “tutela” dell’episcopato, detentore esclusivo del rito dell’unzione. Attraverso di esso, infatti, i vescovi cercavano di ribadire la centralità del proprio ruolo nella creazione del re e quindi, per traslato, nel governo del regno46. Nelle parole di Enrico si esprime invece un modello di regalità incentrato sul consenso, sul rapporto di stretta collaborazione fra il re e i principes laici: infatti i maiores davanti ai quali a Enrico è sufficiente essere detto e designato, in altre parole riconosciuto, come re corrispondono ai
principes et maiores nati dell’esercito franco riunitisi per partecipare all’elevazione a re di
43 Ibidem, lib. I, cap. 26: «Ut ergo rex (scil. Corrado) imperarat, Evurhardus adiit Heinricum seque cum omnibus thesauris illi tradidit, pacem fecit, amicitiam promeruit; quam fideliter familiariterque usque in finem obtinuit. Deinde congregatis principibus et natu maioribus exercitus Francorum in loco qui dicitur Fridisleri, designavit eum regem coram omni populo Francorum atque Saxonum. Cumque ei offerretur unctio cum diademate a summo pontifice, qui eo tempore Hirigerus erat, non sprevit, nec tamen suscepit: "Satis", inquiens, "michi est, ut pre maioribus meis rex dicar et designer, divina annuente gratia ac vestra pietate; penes meliores vero nobis unctio et diadema sit: tanto honore nos indignos arbitramur". Placuit itaque sermo iste coram universa multitudine, et dextris in caelum levatis nomen novi regis cum clamore valido salutantes frequentabant».
44 Per i passi in cui compare la corona denomianta anche diadema cfr. ibidem lib. I, capp. 16, 25, 26, 29; lib. II, capp. 1, 12, 31, 36; lib. III, cap. 70.
45 Per le indicazioni delle unzioni cfr. ibidem lib. I, cap. 9 (Tiadrico), cap. 16 (Corrado I), lib. II, cap. I (Ottone I), lib. III, cap. 76 (Ottone II). Per l’analisi della funzione di Tiadrico nella Storia dei Sassoni cfr. infra paragrafo III.2.1.
46 Per una disamina di lungo respiro sul rapporto fra unzione regia ed episcopato cfr. G. M. CANTARELLA, Qualche idea sulla sacralità regale alla luce delle recenti ricerche: itinerari e interrogativi, «Studi Medievali» 3a s. XLIV (2003), pp. 911-927 e CANTARELLA, Le sacre unzioni regie, in Olio e vino nell'alto
medioevo, LIV Settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 2007, vol. II, pp. 1291-1329.
Enrico. Anche se non bisogna dimenticare che insieme con il consenso dei principes Enrico riconosce come elementi fondanti della sua legittimità di re anche il favore della grazia divina e la pietas espressa da Irigerio, intesa probabilmente come un’espressione di approvazione da parte dell’episcopato tedesco di cui l’arcivescovo di Magonza era il primate.
Ma nonostante ciò ai nostri occhi rimane molto più rilevante il rifiuto dell’unzione, come d’altronde sembra indicare l’unica altra fonte del X secolo che fa riferimento diretto all’episodio raccontato da Widukindo. La fonte in questione è la Vita Udalrici, datata fra il 983 e il 99347, e narra che Udalrico, vescovo di Augusta, ebbe una visione in cui gli apparve san Pietro che portava due spade, l’una con l’impugnatura e l’altra senza. Il significato delle due spade è rivelato dallo stesso santo che, rivolgendosi a Udalrico, spiega: «Dic regi Heinrico, ille ensis qui est sine capulo significat regem qui sine benedictione pontificali regnum tenebit; capulatus autem, qui benedictione divina tenebit gubernacula»48. Un re che governa senza la benedizione dei vescovi è senza protezione, senza difesa. Questo il senso delle parole pronunciate nella visione che esprime con chiarezza il fastidio dell’episcopato tedesco per un modello di regalità che rivendica l’autonomia regia rispetto ai vescovi espresso dal rifiuto dell’unzione da parte di Enrico49; o meglio, tali parole costituiscono la rivendicazione dell’imprescindibilità del ruolo dei vescovi nella creazione del re e quindi della loro centralità nella gestione del regno.
Ma la Vita Udalrici si colloca in un altro contesto politico e ideologico rispetto all’età di Ottone I, quello della minorità di Ottone III e dei problemi a essa collegati50.
Il passaggio di potere fra Corrado ed Enrico e la valutazione delle fonti che ce lo raccontano sono stati circa una decina di anni fa al centro di una querelle storiografia molto animata cui hanno preso parte alcuni dei maggiori medievisti tedeschi51.
47 KARPF, Herrscherlegitimation und Reichsbegriff cit., pp. 105-106.
48 GERHARDI Vita Sancti Oudalrici episcopi, ed. G. Waitz, MGH Scriptores IV, Hannover 1841, pp. 388- 389.
49 KARPF, Herrscherlegitimation und Reichsbegriff cit., pp. 106-112.
50 Sul contesto politico della minorità di Ottone III cfr. T. OFFERGELD, Reges pueri. Das Königtum Minderjähriger im frühen Mittelalter, Hannover 2001, pp. 649-784. In generale sull’azione politico- ideologica di Ottone III cfr. K. GÖRICH, Otto 3. Romanus Saxonicus et Italicus. Kaiserliche Rompolitik und
sachsische Historiographie, Sigmaringen 1993 e N. D'ACUNTO, Nostrum italicum regnum. Aspetti della
politica italiana di Ottone III, Milano 2002.
51 La querelle è nata dalla dura presa di posizione assunta da G. ALTHOFF, Von Fakten zu Motiven. Johannes Frieds Beschreibung der Ursprünge Deutschlands, «Historische Zeitschrift» 260 (1995), pp. 107-117 nei confronti della ricostruzione dell’elevazione al trono di Enrico I proposta da J. FRIED, Der Weg in die
All’origine della discussione vi è la posizione assunta da Johannes Fried in base agli studi da lui condotti sulla memoria storica e in particolare sulla trasmissione della conoscenza del passato attraverso il ricordo nelle società orali. Considerando tale il regno di Germania nel secolo X egli ritiene impossibile utilizzare i racconti dei nostri autori, elaborati a circa cinquant’anni di distanza dagli avvenimenti e quindi dopo due generazioni, per la ricostruzione e la comprensione delle vicende di Enrico, semplicemente perché attraverso gli anni la memoria subirebbe continue trasformazioni che porterebbero la conoscenza del passato ad adeguarsi permanentemente alle nuove condizioni e problemi fino all’irriconoscibilità degli eventi ricordati rispetto agli avvenimenti accaduti52.
La risposta più articolata – e veementemente critica – a queste posizioni è venuta da Gerd Althoff che, ribadendo la necessità di una lettura “non ingenua” delle fonti, cioè profondamente calata nel contesto politico-ideologico in cui sono nate, è convinto che le opere di Liutprando, Adalberto e Widukindo contengano un nucleo di verità rispetto alla vicenda di Enrico conoscibile attraverso l’analisi comparata dei loro racconti. Secondo Althoff tale nucleo di verità sarebbe costituito dalla pratica del potere perseguita da Enrico, una pratica basata sulla rete di alleanze con i duchi e cementata dall’amicitia rituale. Da ciò si evincerebbe una visione della regalità riconducibile al modello del re primus inter pares piuttosto che a quello di re posto in posizione dominante e nettamente superiore rispetto ai duchi riconducibile alla tradizione carolingia.
Due sono i fondamentali problemi della ricostruzione di Althoff: in primo luogo che non mette sufficientemente in evidenza le differenze presenti nei tre autori, soprattutto rispetto al ruolo svolto da Corrado nelle tre scene della designazione, finendo con farle convergere l’una sull’altra quando invece ci sembra di aver ampiamente dimostrato che
Geschichte. Die Ursprünge Deutschlands bis 1024, Berlin 1994, pp. 475 e segg. che riprendeva in maniera sintetica le idee espresse in FRIED, Die Kunst der Aktualisierung in der oralen Gesellschaft. Die
Königserhebung Heinrichs I. als Exempel, «Geschichte in Wissenschaft und Unterricht» 44 (1993), pp. 405- 503, idee riproposte, ampliate e fornite di nuove pezze d’appoggio in FRIED, Die Königserhebung Heinrichs
I. Erinnerung, Mündlichkeit und Traditionsbildung im 10. Jahrhundert, in Mittelalterforschung nach der Wende 1989, a cura di M. Borgolte, München 1995, pp. 267-318. Dopo la replica ad Althoff di FRIED, Über
das Schreiben von Geschichtswerken und Rezensionen. Eine Erwiderung, in «Historische Zeitschrift» 260 (1995), pp. 119-130 la discussione è proseguita con gli interventi di H. VOLLRATH, Geschichtswissenschaft
und Geschichtsschreibung. Zur Diskussion um das Buch "Der Weg in die Geschichte" von Johannes Fried, «Zeitschrift für Geschichtswissenschaft» 43 (1995), pp. 451-459; M. BORGOLTE, Mittelalterforschung und
Postmoderne. Aspekte einer Herausforderung, «Zeitschrift für Geschichtswissenschaft» 43 (1995), pp. 615- 627. Ampio spazio alla questione anche in KELLER, Widukinds Bericht cit., in particolare pp. 395-397 e p. 405-410.
percorrono strategie diverse anche se il punto di arrivo, cioè la raffigurazione di Enrico come rex pacificus, è comune. La seconda difficoltà è data dal fatto che nonostante il richiamo iniziale all’importanza di leggere le fonti in rapporto alla realtà che le ha prodotte Althoff finisce con l’usare questi racconti come se fossero coevi alle vicende di Enrico e quindi direttamente collegati al passaggio di potere del 91953.
A nostro avviso i racconti dell’elevazione al trono di Enrico vanno davvero analizzati nel contesto in cui i nostri autori scrivevano: ci parlano quindi delle concezioni del potere coeve a Ottone I e vanno semplicemente messi in relazione con la costruzione della regalità di quest’ultimo piuttosto che con quella di suo padre. Secondo il nostro punto di vista Widukindo attribuisce a Enrico la raffigurazione di re primus inter pares, basata sull’alleanza esplicita con i principes laici, perché lo vuole proporre come modello di governo a Ottone I54. Nel racconto dell’incoronazione del 936 Widukindo puntella la regalità di Ottone a molti elementi: l’immixtio manuum da parte dei grandi, l’electio divina, la designazione di Enrico in punto di morte – e mette in secondo piano l’unzione e l’imposizione delle corona da parte dei vescovi – ma, come vedremo più avanti, indicando i
principes come vera e principale fonte della legittimità di Ottone. Difatti, data la sua
appartenenza all’alta aristocrazia, Widukindo da un lato assume la posizione del princeps che appoggia Ottone, ma allo stesso tempo gli ricorda, additandogli l’esempio del governo “partecipato” di Enrico – vero o costruito che sia poco importa –, che la sua base di potere sono, o meglio devono essere i principes.
Anche Liutprando e Adalberto condividono la rappresentazione di Enrico come re
primus inter pares: da un lato essa è collegata al modo in cui delineano la sua immagine di rex pacificus, dall’altro è espressa nelle parole che Enrico pronuncia nell’Antapodosis prima
della sua vittoria sugli Ungari, presso Riade nel 933. Enrico, per accendere gli animi dei suoi soldati, ricorda loro che Dio non ha difficoltà ad abbattere molti nemici attraverso pochi fedeli, ma solo se la fede di questi ultimi lo merita. Quindi, a conferma della loro fede Enrico chiede all’esercito di fare insieme a lui un voto a Dio: «voveamus itaque ac secundum psalmistam vota reddamus: ego, inquam, ego prius, qui dignitate videor et ordine primus». Egli promette per primo, in quanto per dignità e grado è il primo del suo
53 ALTHOFF, Die Ottonen cit., pp. 35-45.
popolo/esercito, in altre parole perché è un re primus inter pares, che mai più ci saranno pratiche simoniache nel suo regno, come invece accadeva con i suoi predecessori55.
Però, a differenza dell’uso che ne fa Widukindo, in Liutprando e Adalberto l’immagine di Enrico come re primus inter pares si intreccia con quella di rex pacificus per legittimare la presa del potere da parte di una dinastia nuova, quella sassone, nella figura del suo primo esponente. Quest’immagine di Enrico non viene proposta come modello di governo per Ottone: Liutprando stabilisce, infatti, una progressione ideologica fra il padre e il figlio che ha come punto di arrivo la rappresentazione Ottone I in qualità di rex sanctus, immagine basata sul potere legittimante del contatto diretto con Dio, cioè sull’electio divina di Ottone. Liutprando non apparteneva all’alta aristocrazia del regno di Germania, non aveva interesse ad appoggiare il punto di vista dei principes. Al contrario, quando Liutprando scrisse l’Antapodosis era un transfugo alla corte ottoniana, la sua carriera dipendeva principalmente dal favore di Ottone, quindi aveva tutto l’interesse a presentare la regalità di Ottone subordinata unicamente alla scelta di Dio, cioè svincolata da ogni potere reale e di fatto autosufficiente. Anche Adalberto non faceva parte dei principes per diritto di nascita, anche se poi lo divenne per via ecclesiastica quando fu nominato arcivescovo di Magdeburgo. Ma ciò accadeva nel 968 e proprio in base a una decisione di Ottone I. Quando attese alla redazione della Continuatio, fra il 966 e il 967, Adalberto era abate del monastero regio di Weißenburg, carica ottenuta dopo una lunga frequentazione della corte ottoniana. La sua vicinanza a Ottone, oltre che a Guglielmo di Magonza, che lo avrebbe portato alla cattedra arcivescovile, e probabile la conoscenza delle opere di Liutprando, tra le quali usa con certezza l’Historia Ottonis56, potrebbero spiegare la condivisione dell’idea di regalità offerta da Liutprando.
55 LIUTPRANDIAntapodosis, lib. II, cap. 27: «Talibus itaque rex (scil. Enrico) exhortationibus ad pugnam suorum accendi animos videns, indicto cunctis silentio haec iterum divini muneris flamine tactus adiecit: "Priscorum facta regum, sanctorum scripta patrum, nobis quid agere debeamus insinuant. Non enim est Deo difficile paucis plures sternere, si tamen horum, qui id agere cupiunt, fides meretur; fides, inquam, non professionis tantum, sed operis, non solummodo oris, sed etiam cordis. Voveamus itaque ac secundum psalmistam vota reddamus: ego, inquam, ego prius, qui dignitate videor et ordine primus. Simoniaca heresis, Deo invisa et a beatissimo apostolorum principe Petro damnata, quae a decessoribus nostris hactenus est temere custodita, modis omnibus a nostro sit regno expulsa”». Anche per Arnolfo di Carinzia Liutprando dà una definizione per certi versi simile: ibidem, lib. I, cap. 13. Si racconta che Arnolfo chiama in aiuto gli Ungari per sconfiggere Centebaldo, duca dei Moravi. Lamentandosi di questa scelta che porta rovina a tutta Europa Liutprando si rivolge direttamente ad Arnolfo con queste parole: «eras enim inter homines homo, si dignitate sublimis, non tamen natura dissimilis».