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“Federalismo” e concorrenza

Nel documento Quaderni del MIPA (pagine 157-164)

sa anticoncorrenziale (Corte Giust. CE, sentenza 9 settembre 2003, causa C-198/01, Consorzio Industrie Fiammiferi).

Sono, poi, da considerare le norme comunitarie non dotate di efficacia diretta e lo stesso principio comunitario di libera concorrenza. Quest’ultimo, in particolare, è venuto ad assumere rilievo sempre più consistente: infatti, l’art. 4 del Trattato gli conferisce portata di canone generale, cui devono conformarsi le politiche e le regolazioni economi-che degli Stati membri. Se una norma dell’ordinamento interno, statale o regionale, contrasta con il principio della concorrenza e non con una disposizione comunitaria a efficacia diretta, non può valere la disappli-cazione, ma vi è spazio possibile per il sindacato di costituzionalità. Potrebbe darsi il caso di una norma interna che preveda un’esclusiva d’impresa non giustificata da ragioni economiche, come l’esistenza di un monopolio naturale, e riguardante attività che non incidono sul commercio fra Stati membri della Comunità Europea.

È da ricordare, inoltre, che l’Autorità antitrust, oltre ad accertare even-tuali violazioni compiute dalle imprese in forma di intese restrittive o di abusi di posizione dominante o di concentrazioni che riducono sostan-zialmente la concorrenza, è anche chiamata dalla legge a svolgere un ruolo che nella terminologia anglosassone è denominato advocacy, cioè promozione della concorrenza. In questa missione di advocacy, l’Autorità antitrust ha varato segnalazioni, raccomandazioni, pareri rivolti ai legislatori e ai regolatori, affinché adottino norme e misure non distorsive della concorrenza e, possibilmente, pro-competitive. Destinatari dell’advocacy sono tutti i regolatori, dal Parlamento al Governo alle Regioni fino ai Comuni di minori dimensioni.

L’advocacy è un’attività di tipo consultivo. Non c’è nulla di vincolante: si tratta di raccomandazioni a seguire un orientamento pro-concorrenzia-le nell’adozione di pro-concorrenzia-leggi o di regolamenti nuovi, oppure per la modifica di regolazioni esistenti ritenute distorsive della concorrenza.

Pregi della “regolazione economica decentrata” e rischi per la concorrenza

Si può ora trattare dell’aspetto più innovativo dell’attuale Titolo V, parte II, della Costituzione, che riguarda l’ambito delle potestà normative attribuite alle Regioni e la “tutela della concorrenza” come materia affi-data al legislatore statale in via esclusiva.

Partiamo dalle competenze legislative delle Regioni. È ben nota la logi-ca delle autonomie contenuta nel nuovo testo costituzionale. Esso, riprendendo anche la legislazione ordinaria italiana più recente, ribalta il vecchio articolo 117 e cioè parte dall’indicazione tassativa delle mate-rie che spettano allo Stato legislatore in via esclusiva, fra le quali mate-rientra la “tutela della concorrenza”, e delle materie affidate alla legislazione

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concorrente di Stato e Regioni, per poi stabilire che tutto il resto è nelle mani esclusive delle Regioni.

Quest’ultima previsione dà luogo alla cosiddetta potestà normativa resi-duale delle Regioni, che diventa un involucro fondamentale perché tutte le materie che non sono elencate esplicitamente dalla Costituzione vanno a confluire in esso. In tale ambito non vi è posto per i principi fondamentali stabiliti con legge statale, che valgono solo per le materie di legislazione concorrente.

Quel che a noi interessa qui è individuare le materie di rilievo economi-co che, in via economi-coneconomi-corrente o residuale, spettano alla legislazione regionale. Il quadro è quello di un allargamento molto significativo delle funzioni di regolazione economica attribuite alle Regioni.

Vi è, da un lato, il rafforzamento della potestà regionale nell’ambito della legislazione concorrente, che marcia per due vie distinte. La prima è l’attribuzione alla legislazione concorrente di nuove materie che prima erano di esclusiva spettanza statale, come il commercio con l’estero, le professioni, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale del-l’energia. La seconda via di rafforzamento della legislazione concorren-te passa per l’ampliamento di maconcorren-terie che erano già ricomprese nel vec-chio sistema: ad esempio, la tutela della salute era limitata all’assistenza sanitaria e ospedaliera, mentre ora riguarda tutti gli aspetti della salute. Un altro esempio, i porti: nella competenza legislativa regionale - salvi i principi dettati dalla legge statale - erano prima ricompresi soltanto quelli lacuali, mentre ora tutti i porti rientrano nella legislazione concor-rente Stato-Regioni.

Vi è poi l’altro aspetto dell’allargamento del ruolo delle autonomie regionali, che consiste nel conferimento di una potestà legislativa resi-duale alle Regioni, soluzione estranea al vecchio sistema. Anche qui si prospettano due vie. La prima è il passaggio di alcune materie dalla legislazione regionale concorrente, secondo il vecchio articolo 117 Cost., alla competenza legislativa residuale delle Regioni. Si tratta, per esempio, di materie come il turismo, i lavori pubblici di interesse regionale, l’agricoltura, l’artigianato. La seconda via consiste nel passag-gio dalla legislazione statale esclusiva alla legislazione repassag-gionale residua-le. Questo è il salto più ampio dal vecchio sistema al nuovo: l’industria e il commercio interno possono essere addotti come esempi di materie interessate da questo passaggio alle mani esclusive del legislatore regionale.

L’esito di tutto ciò è che materie economiche di primario rilievo sono ormai sempre più di spettanza regionale, in via concorrente o esclusiva. Il fatto che l’industria e il commercio interno rientrino nella potestà pressoché esclusiva delle Regioni costituisce una modificazione rilevan-te rispetto al sisrilevan-tema preesisrilevan-tenrilevan-te. Inoltre, va considerato che, in base al

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nuovo testo costituzionale, vi è l’attribuzione di una potestà ammini-strativa generale ai Comuni, contenuta nell’art. 118.

È importante che la “democrazia subnazionale” - secondo un’espres-sione cara alla letteratura anglosassone - si rafforzi anche nel campo del diritto dell’economia. Ma non mancano i rischi. Infatti, la “regolazione economica decentrata”, cioè l’attribuzione a Stati membri di ordina-menti federali, a Regioni o a Enti Locali, di funzioni regolatorie in set-tori economici così importanti come l’agricoltura, l’industria, il com-mercio, può creare problemi che storicamente sono stati sottolineati con grande chiarezza in tutti gli Stati di più matura tradizione federali-sta e negli Stati connotati da esteso regionalismo.

I rischi di fondo si trovano enunciati nei Federalist Papers, che costitui-scono la pietra miliare dell’ispirazione federalista nel mondo. Sono i rischi di particolarismo, di frammentazione, di neo-corporatismo, di iper-regolazione, che si collegano alla forte attribuzione di potere a enti decentrati, dagli Stati membri alle altre autonomie territoriali. In merito sono significativi due brani dei Federalist Papers, il primo di Hamilton, il secondo di Madison.

Secondo Hamilton (ventiduesimo Paper), non vi è nessuna materia che più fortemente del commercio richieda una competenza federale. Come è stato già sottolineato, nel nuovo testo della Costituzione italia-na il commercio estero è affidato alla legislazione concorrente, il com-mercio interno alla legislazione residuale delle Regioni. Hamilton sostiene che le regolazioni degli Stati membri in materia di commercio, tra loro contrastanti e contrarie al vero spirito dell’Unione, hanno cau-sato risentimento e protesta; vicende del genere, se non circoscritte da un controllo nazionale, si moltiplicheranno e si estenderanno.

Di Madison devono esser ricordati i continui riferimenti a quello che definiva il local spirit, il localismo. Questi suoi riferimenti sono una costante a proposito dello sviluppo dell’economia negli Stati Uniti, che è considerato florido soltanto se trova supporto in forti competenze dell’Unione federale e non si disperde nei rivoli della legislazione degli Stati membri. A questo proposito, nel quarantaseiesimo dei Federalist

Papers, Madison sottolinea che una grande quantità di errori commessi

dalle leggi dei singoli Stati della Federazione veniva dalla disponibilità a sacrificare gli interessi nazionali alle esigenze particolari e separate delle contee e dei distretti.

Dunque, al giusto ossequio per le virtù della democrazia subnazionale, va affiancata la consapevolezza dei rischi che possono derivare dall’am-pio affidamento di potestà regolatorie dell’economia a Stati membri di federazioni, a Regioni e a Enti Locali.

Se passiamo, in particolare, al tema della concorrenza, quali possono essere i rischi connessi alla “regolazione economica decentrata”? Si

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pensi a norme regionali o a regolazioni locali che favoriscano forme di coordinamento anticompetitivo tra imprese, derivanti da consorzi o associazioni di varia natura; o prevedano limiti alla liberalizzazione del commercio (il rischio paventato da Hamilton); oppure stabiliscano una “regolarizzazione” dei prezzi (ad esempio di prodotti del settore agri-colo). Sono tre ordini di esempi non astratti, ma prepotentemente con-creti, perché nelle leggi regionali e nelle regolazioni locali in vigore sono largamente presenti norme e misure come quelle qui evidenziate.

I rimedi di fronte ai rischi e la “tutela della concorrenza”

Quali sono, di fronte a tali rischi, i rimedi possibili a difesa della con-correnza?

Innanzitutto, la legislazione regionale è soggetta, come si è visto, a limi-ti che sono comuni anche alla legislazione statale (art. 117, comma 1): quelli relativi ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali che, nella nostra materia, sono le regole e il prin-cipio di libera concorrenza. Il mancato rispetto di tali vincoli conduce, come si è detto, alla disapplicazione della norma interna, se il vincolo esterno ha efficacia diretta, o al giudizio di costituzionalità. Tra i limiti comuni rientrano anche i poteri di advocacy esercitati dall’Autorità di concorrenza.

Valgono per la legislazione regionale, inoltre, i limiti e i contrappesi ulteriori affidati alla normazione statale. In primo luogo, i principi fon-damentali posti dallo Stato in materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3). In secondo luogo, le norme a “tutela della concorren-za”, materia attribuita allo Stato in via esclusiva (art. 117, comma 2, lett. e). Su quest’ultimo punto è necessario soffermarsi. Cosa può e deve fare il legislatore statale a “tutela della concorrenza”?

Innanzitutto, è chiaro che la Costituzione ha voluto affidare in via esclusiva al legislatore statale la disciplina generale antitrust, a garanzia della concorrenza. Si tratta delle norme che vietano le condotte anti-competitive delle imprese, come le intese restrittive, gli abusi di posizio-ne dominante e le concentrazioni suscettibili di eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza e che prevedono rimedi e sanzioni, individuano le autorità, amministrative e giurisdizionali, com-petenti a decidere in materia di concorrenza. Sono le norme attualmen-te dettaattualmen-te dalla legge 287 del 1990. Nell’emanazione della disciplina generale antitrust non emergono spazi per le potestà regionali.

Vi sono, poi, possibili intersezioni fra la competenza statale esclusiva a “tutela della concorrenza” e le competenze regionali. Si pensi alle rego-lazioni e alle legisrego-lazioni concernenti particolari settori economici, come il commercio, l’industria, l’agricoltura, alcuni servizi pubblici e privati. In tali materie le Regioni hanno amplissima potestà legislativa;

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al tempo stesso, sulle medesime materie incidono problemi di tutela della concorrenza.

Ci si limita ad alcune esemplificazioni. Nella disciplina di ogni settore economico, la previsione di subordinare l’attività d’impresa al rilascio di autorizzazioni largamente discrezionali e conferibili a un numero limi-tato di operatori costituisce una forte barriera nei confronti dell’acces-so delle imprese ai relativi mercati e comporta, dunque, una rilevante restrizione della concorrenza. Autorizzazioni basate su criteri obiettiva-ti, idonei a ridurre la discrezionalità, e non connesse a una limitazione quantitativa delle imprese ammesse a operare, sono assai meno distor-sive dell’accesso al mercato e della concorrenza. Nella regolazione dei servizi professionali, la scelta di istituire un albo o un registro non sem-pre assicura la buona qualità delle sem-prestazioni e può incidere negativa-mente sul livello di concorrenza. Nella disciplina del commercio, il modo in cui si regola la gamma dei prodotti che possono essere offer-ti incide direttamente sulla concorrenza. Prevedere diverse “tabelle merceologiche”, limitando i tipi di prodotti che i differenti esercizi commerciali possono distribuire, significa ridurre gli ambiti in cui si esercita la concorrenza ed eliminare i possibili vantaggi per il consuma-tore derivanti dall’offerta congiunta. Eliminare o ridurre al minimo le “tabelle” consente di ampliare le possibilità di competizione e di mas-simizzare i benefici dei consumatori in termini di prezzi e di innovazio-ne.

Come si ordina l’intreccio fra regolazione di settore, di ampia spettan-za regionale, e tutela della concorrenspettan-za, per la quale lo Stato ha ricevu-to l’investitura esclusiva?

La Corte Costituzionale ha già fornito insegnamenti in un’altra materia affidata in via esclusiva al legislatore statale: l’ambiente. La Corte ha precisato che in realtà l’ambiente non è una materia in senso proprio, ma è piuttosto una sorta di “valore trasversale”, in ordine al quale si manifestano competenze diverse, sia statali che regionali, concorrenti o residuali. Spetta comunque allo Stato la determinazione di standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (si vedano le sentenze 26 luglio 2002, n. 407; 20 dicembre 2002, n. 536; 7 ottobre 2003, n. 307). Trasponendo il ragionamento nel campo della tutela della concorrenza, si può ritenere che la potestà legislativa esclusiva dello Stato non si esau-risca nella competenza a dettare la disciplina generale antitrust, che vin-cola le imprese, ma si estenda alla determinazione di soglie di garanzia e promozione della concorrenza, alle quali le regolazioni regionali di settore devono adeguarsi (una prima conferma in tal senso in Corte Cost., sentenza 13 gennaio 2004, n.14). Riprendendo alcune delle pre-cedenti esemplificazioni, è da ritenere che se la legge statale abbia sta-bilito un regime autorizzatorio che si basa su criteri obiettivati e

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scinde dalla predeterminazione di un numero massimo di imprese ammesse a operare in un certo ambito geografico, le leggi regionali non possano prevedere autorizzazioni discrezionali e quantitativamente limitate in relazione a una corrispondente area territoriale. Inoltre può reputarsi che, se la legge statale abbia circoscritto fortemente le tabel-le merceologiche, tabel-le Regioni non possano determinarne un numero maggiore.

In definitiva, dalla norma costituzionale sulla “tutela della concorrenza” la legge statale è chiamata a dettare in via esclusiva la disciplina genera-le antitrust e, in più, a fissare genera-le soglie di garanzia della concorrenza nei diversi settori economici, ove la potestà legislativa regionale può ampia-mente esplicarsi ma è tenuta al rispetto degli standard stabiliti dallo Stato. Quest’ultimo, del resto, ha la responsabilità, derivante dal diritto comunitario, di garantire che la politica economica nazionale - e dun-que la legislazione nazionale, statale e regionale - sia “condotta confor-memente” al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”, come è previsto dall’art. 4 del Trattato.

Resta da stabilire se gli standard statali siano immodificabili da parte delle Regioni o costituiscano livelli minimi di garanzia che possono essere modificati da normazioni regionali in senso più favorevole alla concorrenza. Si può, anche qui, riprendere l’insegnamento della Corte Costituzionale in materia di ambiente: sono ammissibili leggi regionali di maggior favore rispetto ai livelli di protezione stabiliti dalla legislazio-ne dello Stato (così Corte Cost., sentenza 26 luglio 2002, n. 407). Nella concorrenza, la tutela delle libertà economiche di tutti coloro che intervengono nel mercato, e in particolare la protezione dei consuma-tori, che per diritto comunitario gode di una “elevata” garanzia, potreb-bero giustificare l’ammissibilità di leggi regionali migliorative rispetto alle soglie statali. Le Regioni, dunque, avrebbero facoltà di accentuare, ma non potrebbero far retrocedere, i livelli di apertura e di concorren-za dei mercati che lo Stato ha stabilito.

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Regolazione, concorrenza e federalismo

I principi e le norme fondamentali a tutela della concorrenza sono stati affermati prima a livello europeo e poi recepiti pienamente nel nostro ordinamento giuridico italiano.

Considerando la vicenda dei servizi di pubblica utilità, la fase tra il 1985 e il 1992 è la più interessante, in quanto è in quel periodo che, nel qua-dro del completamento del mercato interno, la concorrenza è stata este-sa ai settori fino allora esclusi, tra i quali i servizi finanziari e i servizi di pubblica utilità. In quegli anni si cominciò con lo studiare il modo di rendere possibile l’applicazione del principio di concorrenza ai settori nei quali l’esigenza del servizio pubblico implicasse necessariamente l’e-sercizio, in condizioni monopolistiche, da parte di un ente pubblico o in concessione.

È in quel clima - mentre si preparavano le direttive europee per la libe-ralizzazione dei settori delle telecomunicazioni e dell’energia – che, a livello nazionale, ci si pose il problema, anche con un certo anticipo rispetto all’uscita delle direttive europee. Le ragioni d’urgenza che indussero l’Italia ad anticipare le direttive (il Regno Unito fu, per la veri-tà, il precursore) erano dettate da esigenze di finanza pubblica e dal pro-gramma di privatizzazioni del 1992.

La privatizzazione di un’impresa statale che operava in regime di mono-polio poneva l’ulteriore problema di un potere monopolistico trasferi-to dalle mani dello Statrasferi-to a quelle dei privati e della scelta tra due alter-native: o si regolava il monopolio privatizzato attraverso strette maglie di imposizioni tariffarie oppure si riduceva il potere monopolistico, eli-minandolo addirittura, laddove era possibile, mediante l’apertura alla concorrenza.

Questa coincidenza cronologica è molto interessante: mentre a livello di unione si portava avanti il programma di completamento del merca-to interno con l’apertura dei servizi di pubblica utilità alla concorrenza, a livello nazionale si aveva un disperato bisogno di privatizzare le azien-de pubbliche, comprese quelle operanti in quei settori.

In tale contesto la legge istitutiva dell’Autorità dell’energia, la legge 481 del 1995, cui seguirà quella che istituisce l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, risolse il problema definendo la regolazione nei settori considerati, in particolare nel settore dell’energia, non più solo come attività di imposizione di prezzi o regole atte a limitare il potere mono-polista, come tradizionalmente si era abituati, ma come attività che con-sente e facilita l’apertura alla concorrenza.

L’applicazione del principio di concorrenza al settore

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