zo, anche lo stock del debito sarebbe diminuito. Tutto ciò ha determi-nato la conseguenza che, mentre la disciplina del disavanzo è diventata più rigida, per il debito sono rimasti i traguardi indicati dal Trattato di Maastricht. Ciò appare peculiare dal momento che, nel Sistema Monetario Europeo, come il disavanzo dei singoli Stati diviene disavan-zo dell’Unione Europea, anche il debito degli Stati subisce la stessa tra-sformazione.
Naturalmente, si può obiettare che tra le informazioni da sottoporre, annualmente, alla valutazione della Commissione e del Consiglio vi sono anche quelle relative ai rapporti debito/PIL. Ma queste vengono configurate come mere notizie, non accompagnate dalla previsione di provvedimenti specifici volti a rettificare singoli debiti che apparissero eccessivamente alti.
Tuttavia, lo scarso interesse nei confronti del debito si spiega, conside-rando il momento in cui il Patto venne sottoscritto, momento in cui era impensabile una recessione e l’attenzione era concentrata sulla riduzio-ne dell’inflazioriduzio-ne e delle spese. Gli effetti prodotti sono due: da un lato si finisce con il trattare allo stesso modo, ma ingiustamente, enti che hanno debiti diversi, ma uguali disavanzi; dall’altro, si verifica che all’in-terno degli Stati l’interesse nei confronti dell’andamento del disavanzo sia maggiore di quello verso la riduzione del debito, anche se il disavan-zo di un ente fortemente indebitato produce sulla finanza europea un effetto negativo, maggiore di quello prodotto da analogo disavanzo di un ente con basso debito.
Tale anomalia è stata colta dagli Stati tenuti al rispetto del Patto di sta-bilità e crescita. Questi hanno fatto osservare che era necessaria una dif-ferenziazione tra disavanzi in paesi a basso debito e disavanzi in paesi ad alto debito, che l’analisi svolta sulle specifiche situazioni finanziarie doveva tenere conto anche del debito e che, comunque, non poteva fondarsi sul mero raggiungimento di risultati contabili. In particolare, nell’ambito della sorveglianza multilaterale, l’analisi affidata alla Commissione Europea doveva essere più articolata, in quanto obblighi diversi e più stringenti dovevano essere imposti agli Stati fortemente indebitati, pur se con disavanzi non eccessivi. Ciò perché era più facile ridurre un alto disavanzo in uno Stato a basso debito che compiere l’o-perazione inversa, cercando di ridurre un alto debito in uno Stato a disavanzo moderato2.
Recentemente proprio tenendo conto dell’ammontare del debito degli Stati, la Commissione ha proposto di consentire il superamento della soglia del disavanzo nei confronti di quei paesi, a basso debito, che intraprendessero riforme strutturali (ad esempio, la riduzione della spesa pensionistica): quindi l’Italia ne resterebbe esclusa3.
Nel corso di questa discussione, diversi Stati dell’area dell’euro hanno
L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE
proposto una “personalizzazione” degli obblighi del Patto, fondata sul-l’utilizzo di strumenti diversi da Stato a Stato. In particolare, il Ministro delle Finanze francese, per “affinare” il Patto di stabilità, ha individua-to quattro situazioni interne ai paesi da tenere presenti: debiindividua-to, inflazio-ne, occupazione e sostenibilità della spesa pensionistica4. A queste andrebbe aggiunta la propensione di uno Stato al risparmio. Infatti, nel valutare il disavanzo di un paese si deve tenere conto anche dell’entità del suo risparmio, che può funzionare da elemento riequilibratore. In altri termini, si è richiesto alla Commissione Europea, responsabile insieme al Consiglio dei risultati del Patto, di guardare con occhio più penetrante all’interno delle finanze degli Stati, imponendo, se del caso, obblighi differenziati. Tali richieste, però, dovrebbero essere seguite dall’attribuzione alla Commissione di poteri più penetranti. Attualmente, infatti, è unicamente l’Ecofin competente a formulare raccomandazioni ai paesi che mantengono un disavanzo eccessivo, mentre la Commissione può solo redigere relazioni da inviare al Consiglio dei Ministri e al Consiglio Europeo. Non vi è dubbio che sarebbe conveniente, semplificando la procedura, che fosse la stessa Commissione, organo più neutro rispetto al Consiglio, a inviare le sue raccomandazioni5.
Il Patto interno di stabilità
Occorre ora ricordare che, ai sensi della normativa europea, gli Stati sono tenuti a elaborare un Programma di stabilità6, nel quale siano messi in evidenza gli strumenti utilizzati per la progressiva riduzione del disavanzo richiesta in sede comunitaria. Il Programma è presentato dagli Stati alla Commissione e al Consiglio, a fini conoscitivi e valutati-vi, ed è aggiornato annualmente. L’obbligo di informazione si inquadra nell’ambito della sorveglianza multilaterale sancita dal Trattato CE, art. 99 (ex art. 103). Si deve considerare, infatti, che il Patto di stabilità e cre-scita rappresenta un rafforzamento della disciplina del Trattato, non un suo superamento7, tanto che, laddove le sue disposizioni non sono sostitutive o integrative di quelle del Trattato, queste ultime continuano ad applicarsi con una funzione strumentale rispetto alla disciplina del Patto. Ciò emerge chiaramente dalle disposizioni del 1997 sul ruolo del Consiglio, che controlla sia il rispetto delle norme sul divieto di disavan-zi pubblici eccessivi, sia l’acceleradisavan-zione della procedura sugli stessi, attraverso una pronta correzione dei comportamenti degli Stati che possono portare a questi disavanzi.8
Il Programma9deve tenere conto anche degli andamenti della finanza locale. Infatti, in base al protocollo sui disavanzi pubblici eccessivi, richiamato dall’art. 104 del Trattato (ex art. 104C), i bilanci degli enti ter-ritoriali sono pubblici e sono sottoposti alla sorveglianza della
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Commissione10. Per “pubblico”, secondo il protocollo, si intende la Pubblica Amministrazione, cioè l’amministrazione statale, regionale e locale e i fondi di previdenza sociale. Si aggiunga che gli Enti Locali, per l’entità delle somme che erogano, notevolmente superiori a quelle ero-gate dallo Stato11, sono particolarmente coinvolti nel raggiungimento degli obiettivi finanziari imposti in sede europea.
Tuttavia, gli Enti Locali sono autonomi. Inoltre, la normazione degli anni novanta e, soprattutto, la legge 13 maggio 1999, n.133 e il D.Lgs. 18 febbraio 2000, n.56, in materia di perequazione e federalismo fisca-le12, hanno riconosciuto loro una consistente autonomia finanziaria, successivamente accresciuta, con la riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, con l’attribuzione, a tutti gli Enti Locali dell’autonomia impositiva, della quale, in passato, godevano solo le Regioni (art.119 Cost., co.113).
L’autonomia impositiva può comportare, tuttavia, che gli organi degli Enti Locali, per ottenere il consenso dell’elettorato, utilizzino il potere fiscale, sia pure soltanto per finanziare spese di investimento, come consentito dall’art.119 Cost., spendendo sul territorio somme su que-sto percepite. In tal modo, si vanificano gli sforzi dell’ordinamento cen-trale, volti a raggiungere, attraverso annuali riduzioni dei disavanzi, il pareggio o il quasi pareggio del bilancio.
Nel Patto interno di stabilità, dunque, si possono individuare due forze di segno opposto. La prima, che ha origine nel Patto europeo di stabi-lità e crescita, spinge la finanza locale al rispetto degli obiettivi europei. La seconda, che si richiama al federalismo fiscale, la dirige lontano dall’Europa, sul territorio dei singoli enti, creando un conflitto poten-ziale tra Enti Locali e Stato.
Considerata l’autonomia riconosciuta agli Enti Locali, ai fini della messa a punto dei singoli comportamenti volti alla riduzione della spesa, si è stabilito che solo gli Enti Locali con popolazione superiore ai 5000 abitanti sono tenuti al rispetto degli obblighi del Patto di stabi-lità e crescita. Inoltre, è stata attivata una procedura particolare, secon-do la quale gli obblighi, finalizzati alla riduzione annuale del disavanzo, gravanti sugli enti, siano individuati in diversi incontri nelle sedi della Conferenza unificata Stato-Regioni e Stato-Città-Province autonome. Le misure concordate in quelle sedi sono, poi, formalmente imposte attraverso le leggi finanziarie annuali.
Va detto, in proposito, che, mentre i comportamenti finanziari che le Regioni debbono tenere ai fini delle richieste europee, rappresentano, effettivamente, il frutto di un accordo, le misure previste dalla legge finanziaria nei confronti degli altri Enti Locali spesso non sono previa-mente concordate con gli interessati e molte sono conosciute dai Comuni attraverso le informazioni diramate dalla Presidenza del
L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE
Consiglio dopo il Consiglio dei Ministri o attraverso i comunicati stam-pa. Inoltre, i Comuni, attraverso l’Associazione nazionale comuni d’Italia (Anci), hanno messo in evidenza che le loro esigenze divergono da quelle delle Province e che, conseguentemente, andrebbero conside-rate separatamente. Infatti le Province sono più penalizzate sotto il pro-filo finanziario rispetto ai Comuni, per effetto del maggior numero di funzioni trasferite a seguito delle leggi 15 marzo 1997, n. 59 e 15 mag-gio 1997, n. 127 che comportano, ovviamente, magmag-giori costi.
Le leggi finanziarie e gli Enti Locali
La legge finanziaria per il 1999 (L. 23 dicembre 1998, n. 488) ha detta-to regole particolari, la cui osservanza è propedeutica al funzionamen-to del Patfunzionamen-to. La prima di queste è stata l’indicazione del saldo su cui commisurare il disavanzo, in particolare, se di questo dovessero far parte, oppure no, le spese in conto capitale.
Inoltre la finanziaria ha previsto (all’art. 28, co. 1) che il disavanzo, sul quale commisurare le riduzioni richieste, derivasse dalla differenza tra le entrate finali effettivamente riscosse (privilegiando così il criterio della cassa su quello della competenza) e le uscite di parte corrente al netto degli interessi. Questa regola ha comportato che solo le spese correnti entrassero a far parte del saldo sul quale commisurare le riduzioni annuali. Per le spese in conto capitale, vale, viceversa, la regola della
gol-den rule: quindi, per il loro finanziamento è consentito l’indebitamento.
Tale regola è stata di recente riaffermata in sede europea, pur se l’art. 104 del Trattato sull’Unione Europea (ex art. 104C), paragrafo 3, richie-de alla Commissione, nel caso in cui uno Stato non rispetti i rapporti tra disavanzo/PIL e debito/PIL, di tenere conto anche “dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per investimen-ti” distinguendo tra spese correnti e spese in conto capitale14.
Altre regole sono state introdotte dalla legge finanziaria per il 2000, in particolare riguardo l’esclusione dal saldo dei proventi delle dismissioni immobiliari e dei trasferimenti di parte corrente, nonché di quelli in conto capitale da parte dell’Unione Europea e degli altri enti che parte-cipano al Patto interno di stabilità. Tra le spese sono state escluse quel-le sostenute sulla base di trasferimenti con vincolo di destinazione15. In merito alla determinazione del saldo prospettata, peraltro, va, osser-vato che è discutibile la correttezza della ripartizione tra spese correnti e spese in conto capitale ai fini della determinazione del disavanzo. Essa, infatti, non offre un quadro completo delle spese obbligatorie che non coincidono sempre con quelle correnti e che, però, alla pari delle prime non possono essere ridotte. Sotto questo profilo, sarebbe più opportuno fondarsi sulla distinzione tra spese discrezionali e spese che non lo sono. Ad esempio, gran parte della spesa sanitaria è obbligatoria
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o, meglio, automatica e, pur non essendo, interamente qualificabile come corrente, gli Stati non possono operarvi riduzioni. Si tratta, infat-ti, di una spesa prevista da leggi che riconoscono alla collettività il dirit-to di godere di determinate prestazioni (entitlement). Pertandirit-to, la sua diminuzione dovrebbe essere ottenuta attraverso riforme che consenta-no un recupero di efficienza, senza incidere sulla qualità o entità delle prestazioni16.
La spesa sanitaria
L’intervento dello Stato in materia sanitaria si è imposto poiché lo Stato ha legislazione esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garan-titi su tutto il territorio nazionale. L’esclusività della legislazione statale in materia sanitaria è fondata sul principio della redistribuzione dei red-diti 17, che a sua volta, si basa sull’universalismo, per effetto del quale le prestazioni sanitarie vanno erogate tenendo conto dei bisogni dei citta-dini, senza distinguere tra regione e regione, dell’uguaglianza, che garantisce ai cittadini pari opportunità di accesso al servizio, della soli-darietà, che impone ai contribuenti più ricchi di pagare il costo delle prestazioni anche per i cittadini più poveri, tassando in misura progres-siva i redditi dei primi18.
La particolare natura della spesa sanitaria e la sua continua crescita hanno portato alla divisione in due spezzoni del Patto interno di stabi-lità (art. 53 legge finanziaria 2001).
Dei due spezzoni, il primo ha previsto disposizioni finanziarie nei con-fronti dei bilanci dei Comuni, degli altri Enti Locali e delle Regioni rece-pite, poi, nella legge finanziaria. Il secondo ha definito, sulla base di accordi tra Stato e Regioni, esclusivamente la spesa sanitaria regionale e non l’intera spesa regionale, che resta nel Patto interno e continua a essere presa in considerazione dalla legge finanziaria. La sede separata si è resa necessaria per la diversità che gli interventi in materia sanitaria manifestavano, al fine di realizzare meglio gli obiettivi europei.
Per effetto di tale separazione, sono state introdotte in materia sanita-ria, prima con il DM 1° agosto 2000 e, poi, con gli accordi 3 agosto 2000 e 8 agosto 2001, diverse modificazioni rispetto alla disciplina degli altri Enti Locali19.
In merito alle novità introdotte in materia sanitaria, rispetto alla disci-plina generale del Patto, si può osservare, in primo luogo, che le regole relative al Patto interno di stabilità per le regioni sono state inserite in un provvedimento legislativo ad hoc, diverso dalla legge finanziaria. In secondo luogo, la normativa ha posto un limite alle spese correnti regionali in materia sanitaria disponendo, per il 2002, che il complesso di queste spese, al netto di quelle per interessi passivi, delle spese
finan-L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE
ziate con programmi comunitari e delle spese relative all’assistenza sani-taria delle regioni a statuto ordinario, non potesse superare il tetto degli impegni e dei pagamenti relativi al 2000, aumentati del 4,5 %. Per gli anni successivi (2003 e 2004) si è applicato un incremento pari al tasso di inflazione programmato, indicato dal Documento di programmazio-ne economica e finanziaria. Analogo incremento è stato previsto per il 2005 dalla legge finanziaria per il 2003.
Va osservato che la disciplina disposta dalla legge n. 405/01 costituisce un Patto interno di stabilità che si rivolge alle sole Regioni a statuto ordinario. Per le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, per gli esercizi finanziari 2003, 2004 e 2005, il livello delle spese correnti e dei relativi pagamenti sono concordati in via amministrativa direttamente con il Ministero dell’Economia e delle Finanze20.
Peraltro, la spesa sanitaria è stata esclusa dal saldo (pur se contemplata nel Patto interno e regolata attraverso l’adozione di reciproci impegni, quali il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza (LEA)21, da parte delle Regioni, e gli impegni presi dal governo in ordine al fabbi-sogno). Questa esclusione si presta a una duplice, contraddittoria valu-tazione. Da un lato, è criticabile perché, in tal modo, le Regioni non vengono spinte a controllare l’efficienza della gestione di una spesa che incide in misura notevole sulla finanza statale e regionale. Dall’altro lato, si deve notare che la spesa sanitaria è una spesa obbligatoria e, quindi, va esclusa dal Patto, perché su di essa non si possono apportare ridu-zioni. Inoltre, pur se produce i suoi effetti sul territorio regionale, è, in gran parte, determinata dallo Stato. Si pensi alle conseguenze derivanti dalla soppressione dei ticket sanitari (poi reintrodotti da singole Regioni), decisa con la legge finanziaria per il 2001, alla determinazio-ne del prezzo dei farmaci, agli emolumenti dei medici e del personale paramedico (la sanità oggi ha 600 mila addetti in tutta Italia e 800 mila medici)22. È evidente che le Regioni non possono farsi carico di spese decise dallo Stato, per affrontare le quali è necessario ottenere trasferi-menti di bilancio, nel momento in cui tali trasferitrasferi-menti sono ridotti (in misura dell’1, 2, e 3 % per gli anni 2001, 2002 e 2003) e solo in parte compensati da un aumento della compartecipazione Irpef.
La progressiva crescita del disavanzo sanitario, dovuto all’aumento del costo dei servizi sanitari e all’invecchiamento demografico (che provo-ca una maggiore richiesta di prestazioni), cui si è aggiunto il crescente costo delle tecnologie, ha spinto la legge finanziaria per il 2003 a inter-venire nuovamente nel settore sanitario23.
In materia, il governo ha chiesto alle Regioni una maggiore efficienza e l’abbandono di comportamenti scorretti che le ASL hanno tenuto al fine di ottenere maggiori rimborsi. Spesso, infatti, nelle cartelle cliniche
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sono state indicate patologie più complesse per far scattare rimborsi più alti. Inoltre, malgrado la messa a punto di una tariffa dei ricoveri ospe-dalieri volta al contenimento della spesa sanitaria, si è avuta, negli ulti-mi due anni, la triplicazione dei costi del servizio sanitario nazionale, essendo aumentati, sia il costo medio dei ricoveri, sia il numero delle giornate di degenza24. Di fronte a questa situazione è anche illusorio pensare che il risparmio derivante da un recupero di efficienza possa avere un peso consistente sul disavanzo sanitario. Dunque, per mante-nere l’attuale livello di prestazione, che spesso ha di fronte un diritto soggettivo, occorre pagare di più per gli stessi servizi che ieri venivano offerti a un costo più basso.
Il tema si sposta, dunque, sulla provenienza dei fondi con i quali effet-tuare questi pagamenti, sulla questione se la Regione possa farvi fronte o si debba ricorrere alle casse dello Stato, e, qualora si percorresse la prima strada, se ricorrendo alle addizionali Irpef (meno visibili) o con l’aumento dei ticket (che, essendo più visibile, è più facilmente attacca-bile sotto il profilo politico e sotto quello sociale), oppure se si deve prevedere una franchigia. Con quest’ultimo sistema, una parte dei costi verrebbe trasferita sui cittadini, tenuti a pagare le spese sino a un deter-minato tetto annuo.
Se, però, è lo Stato a intervenire, come è stato recentemente richiesto dalle Regioni, ci si allontana dalla strada del federalismo fiscale. Tale allontanamento è particolarmente evidente nella legge finanziaria per il 2003, che ha disciplinato la materia sanitaria con norme improntate a un particolarismo eccessivo, dettando una disciplina minuta che mal si adatta all’autonomia e all’indipendenza riconosciuta a questi enti. Con l’ultima legge finanziaria, infatti, è stato imposto alle Regioni di utiliz-zare la Consip per gli acquisti, pena la nullità degli acquisti stessi. Ai sensi dell’art. 52, la legge finanziaria per il 2003 ha disposto che i citta-dini che usufruiscono delle cure termali partecipino alla spesa, che le Regioni riducano drasticamente le liste di attesa e prevedano la deca-denza automatica dei direttori generali, nell’ipotesi di mancato raggiun-gimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie e ospedaliere. Sempre in base allo stesso articolo, le Regioni sono tenute a ridurre il prezzo dei farmaci e a potenziare il monitoraggio sulle prescrizioni mediche, farmaceutiche, specialistiche e ospedaliere.
Accanto alla crescita della spesa sanitaria, occorre menzionare la cresci-ta della spesa che possono subire le Regioni, ma anche gli altri Enti Locali, per effetto della mera introduzione del federalismo, con conse-guente incremento della pressione fiscale locale. Questa crescita può essere causata:
1) da una non precisa distribuzione delle competenze tra centro e periferia;
L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE
2) da indisponibilità del personale al trasferimento;
3) dalla mancanza, nel personale proveniente dal centro, delle qualifi-cazioni e specializzazioni alle quali le Regioni sono più interessate. Con la conseguenza che le Regioni potrebbero preferire la selezione di nuovo personale, senza servirsi di quello già operante, creando costose sovrapposizioni. Si deve, infine, aggiungere che la retribuzione regionale ha una progressione più dinamica rispetto a quella statale e comporta, quindi, spese maggiori 25.
Le considerazioni svolte mettono in evidenza la difficoltà di apportare riduzioni alla finanza regionale al fine di utilizzarle per le finalità del Patto di stabilità e crescita. Ciò in quanto la spesa regionale coincide in larga parte con la spesa sanitaria e questa ha natura obbligatoria, con l’aggravante di essere in gran parte decisa dal centro. Inoltre, essa ha mostrato un’irreversibile tendenza alla crescita, e non solo in Italia.