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Le regole di bilancio per le Regioni e gli Enti Locali

Nel documento Quaderni del MIPA (pagine 38-45)

della Procedura per i disavanzi eccessivi e subisce larga parte degli effet-ti derivaneffet-ti da una perdita di credibilità del paese, in pareffet-ticolare sul pro-prio debito pubblico. In questo contesto, esiste il rischio che gli enti decentrati si comportino come free rider. Ciò può determinare distorsio-ni nell’allocazione delle risorse, ad esempio se il governo centrale deve sistematicamente compensare i deficit degli enti decentrati con incre-menti del prelievo o tagli delle proprie spese.

Un secondo aspetto problematico riguarda gli investimenti pubblici. In una situazione in cui si chiede alla Pubblica Amministrazione di realiz-zare un pareggio del bilancio in termini strutturali, le spese in conto capitale vanno finanziate con entrate correnti, ma ciò può determinare una riduzione del volume degli investimenti, soprattutto di quelli a red-ditività più differita. Questo problema è particolarmente importante per gli enti decentrati, che tipicamente presentano fluttuazioni rilevanti dei livelli di spesa per investimenti. Inoltre, a livello comunale e provin-ciale i contribuenti (imprese e cittadini) sono più mobili che a livello internazionale. Se un ente locale accrescesse fortemente l’imposizione per finanziare un’opera pubblica con ritorni molto differiti nel tempo, una parte dei contribuenti potrebbe spostarsi nelle aree vicine.

La terza area problematica riguarda il rapporto fra politica di bilancio e ciclo economico, ossia la possibilità che gli enti decentrati possano esse-re spinti ad attuaesse-re politiche di bilancio pro-cicliche. A livello europeo il tentativo di conciliare il rigore con la stabilizzazione economica passa attraverso il riferimento ai saldi di bilancio strutturali6. Una volta rag-giunta la situazione di regime, gli stabilizzatori automatici dovrebbero operare liberamente attorno a un saldo strutturale in sostanziale pareg-gio. La valutazione di quest’ultimo saldo, già problematica a livello nazionale in relazione alle diverse indicazioni fornite dalle varie meto-dologie di calcolo, è particolarmente complessa per gli enti di dimensio-ni limitate. Si consideri, per esempio, la difficoltà di stimare gli output gap a livello comunale o provinciale e di valutare ente per ente l’elasticità del bilancio al ciclo. Se, in considerazione di questi problemi, si richiedesse agli enti decentrati il conseguimento di un obiettivo di bilancio fissato

ex ante in termini nominali, nelle fasi cicliche sfavorevoli questi enti

potrebbero trovarsi costretti ad attuare politiche pro-cicliche. Alternativamente, si potrebbero riscontrare sconfinamenti dagli obiet-tivi di controversa interpretazione: sarebbe difficile valutare quanto è ciclico e quanto è strutturale. In questo contesto l’efficacia delle regole potrebbe risultare compromessa.

Il Patto di stabilità interno introdotto nell’ambito della manovra di bilancio per il 1999 rappresenta un primo tentativo di coinvolgere gli enti decentrati nel proseguimento degli obiettivi fissati per il comples-so delle amministrazioni pubbliche. Il Patto mira a migliorare il saldo di

L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE

bilancio degli enti e a ridurre il loro debito, ma presenta vari aspetti pro-blematici7. Innanzitutto, esso fa riferimento a un saldo che esclude rile-vanti poste di entrata e di spesa, quali i trasferimenti, gli investimenti, gli interessi, la spesa sanitaria, le poste di carattere eccezionale. Inoltre, il saldo è calcolato in termini di cassa, mentre l’indebitamento netto, rilevante in sede europea per il complesso delle amministrazioni pub-bliche, è valutato in termini di competenza.

Gli obiettivi per gli enti decentrati sono stati fissati con criteri di anno in anno diversi: inizialmente si è fatto riferimento a un saldo di bilancio tendenziale, mentre negli ultimi anni al livello registrato dal saldo di rife-rimento due anni prima. Inoltre, sono state apportate variazioni alla lista delle poste considerate per il calcolo di tale saldo. Le modifiche, anche retroattive, hanno verosimilmente influito sulla credibilità del Patto. Va anche considerato che il Patto richiede un miglioramento del saldo (o pone un limite al peggioramento del medesimo) per tutti gli enti, indifferentemente dal livello del saldo stesso. Ciò può creare disin-centivi e distorsioni. Inoltre, il Patto prevede una sorta di doppia golden

rule: si deducono dal saldo rilevante sia gli investimenti sia gli interessi,

senza considerare che questi ultimi riguardano verosimilmente debiti sostenuti per effettuare investimenti, infine, anche le sanzioni non par-ticolarmente rilevanti.

Nonostante la denominazione, l’attuale Patto è in realtà un vincolo imposto dall’amministrazione centrale sulla finanza decentrata. Inoltre, nella formulazione del Patto per il 2002, il riferimento a limiti nella cre-scita della spesa appare incoerente con l’esigenza di dare responsabilità agli enti nella gestione delle risorse e nel reperimento dei mezzi per finanziarle.

Il Patto di stabilità interno è stato finora prevalentemente orientato al conseguimento di obiettivi di breve periodo, fissati nell’ambito delle manovre di bilancio annuali, e ha fatto riferimento a parametri contin-genti (ad esempio nel 2001 si è fatto riferimento al saldo realizzato da ciascun ente nel 1999).

Con riferimento ai tre aspetti problematici del rapporto fra regole di bilancio europee e decentramento fiscale, va rilevato che il Patto non risolve pienamente il problema dell’asimmetria degli incentivi tra gover-no centrale e governi decentrati (ciò dipende soprattutto dalla debolez-za della sanzioni), non tiene conto degli effetti del ciclo economico sul bilancio degli enti decentrati e prevede una golden rule molto atipica. Il Patto dovrebbe essere sostituito con regole di carattere meno contin-gente e maggiormente compatibili con la logica del decentramento indicata nella recente riforma costituzionale. Occorre pertanto indiriz-zarsi verso regole che responsabilizzino gli enti decentrati senza limitar-ne i poteri.

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In concreto, si dovrebbe introdurre un insieme di regole che facciano riferimento al saldo di bilancio di ciascun ente. Dato il testo della rifor-ma costituzionale, si dovrebbe fare riferimento al saldo di parte corren-te. Tutte le poste correnti, compresi i trasferimenti, dovrebbero essere incluse nel computo del saldo.

Per risolvere la questione dell’asimmetria degli incentivi è necessario, in primo luogo, assegnare agli enti decentrati un’effettiva autonomia di prelievo. I trasferimenti dal governo centrale dovrebbero essere prede-finiti. Senza un quadro certo delle risorse e senza la possibilità di varia-re i livelli di pvaria-relievo, non è possibile varia-rendevaria-re gli enti decentrati varia- respon-sabili per i propri risultati di bilancio ed eventualmente assoggettarli a sanzioni. In questo senso, l’esclusione della spesa sanitaria dal compu-to del saldo, rilevante ai fini del Patcompu-to di stabilità interno, è la logica con-seguenza dell’interferenza del governo centrale nella gestione della sani-tà. Si ricordi ad esempio la questione dell’abolizione dei ticket.

È necessario, inoltre, disporre di bilanci omogenei, tempestivi e traspa-renti e introdurre sanzioni di entità significativa. Anche l’inserimento di programmi finanziari pluriennali e un monitoraggio dell’andamento infrannuale dei saldi di bilancio possono risultare utili.

Un aspetto importante riguarda l’attribuzione della funzione di control-lo su Province e Comuni. Questa può essere esercitata dalcontrol-lo Stato oppure dalle Regioni. In ogni caso, l’ente che sovrintende dovrebbe essere in grado sia di sanzionare gli enti inadempienti sia di compensa-re i loro eventuali disavanzi inattesi. Naturalmente, questo insieme di regole, procedure e sanzioni dovrebbe basarsi su un accordo tra i diver-si livelli di governo e su organi di gestione cooperativi.

Per quanto riguarda la questione degli investimenti, il nuovo testo costi-tuzionale prevede l’introduzione della golden rule e il divieto di garanzia statale sui titoli emessi. Il primo aspetto di questa soluzione contrasta con quanto previsto dal Patto di stabilità e crescita. Se le amministra-zioni pubbliche devono, nel loro complesso, conseguire un saldo di bilancio prossimo al pareggio, l’indebitamento degli enti decentrati va compensato con un surplus del bilancio dello Stato. Inoltre, è necessa-rio definire se gli investimenti a cui fare riferimento siano quelli lordi o quelli netti. Infine, va instaurata una procedura di verifica dell’attuazio-ne della norma, al fidell’attuazio-ne di evitare interpretazioni estensive.

A fronte del surplus del bilancio del governo centrale, può essere neces-sario fissare un limite annuo agli investimenti complessivi degli enti decentrati. La ripartizione di questo ammontare può avere luogo attra-verso accordi preventivi o soluzioni di mercato8.

La questione degli effetti del ciclo diviene più rilevante via via che al crescere dell’autonomia tributaria degli enti decentrati aumenta la quota delle entrate degli enti che sono connesse con il livello dell’attività

eco-L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE

nomica. Una soluzione per conciliare il pareggio del bilancio con l’as-sorbimento degli effetti del ciclo è quella dei fondi di riserva, i rainy days

funds. Tuttavia, questa soluzione, adottata negli Stati Uniti, non è

com-patibile con il sistema europeo dei conti nazionali. Le entrate e le usci-te da questi fondi sarebbero considerausci-te partiusci-te finanziarie e quindi non influenzerebbero l’indebitamento netto.

Un’altra soluzione può essere quella di estendere l’applicazione del Patto di stabilità e crescita agli enti decentrati. Questa soluzione può, tuttavia, trovare attuazione concreta solo per gli enti di maggiori dimen-sioni, quali le Regioni, per i quali è possibile valutare il saldo di bilancio corretto per il ciclo. Per enti minori si può considerare il riferimento al pareggio del bilancio corrente e l’attribuzione di basi imponibili poco dipendenti dal ciclo, di entrate in compartecipazione erariale con un ritardo temporale e di trasferimenti erariali.

L’analisi delle soluzioni adottate in Austria, Belgio, Germania, Italia e Spagna mostra che negli ultimi anni vi è una tendenza diffusa verso l’in-troduzione di nuove regole e procedure volte ad adattare le normative nazionali al Patto di stabilità e crescita. Nessun paese ha cercato di repli-care in ambito nazionale il Patto europeo, in particolare attraverso la valutazione dei saldi di bilancio corretti per il ciclo. Comune a tutti i paesi è il graduale sviluppo di forme di cooperazione tra i diversi livel-li di governo.

Si nota una tendenziale prevalenza di soluzioni concordate ed esplicita-te in regole predefiniesplicita-te. In Austria, Belgio, Germania e Spagna, infatti, le soluzioni adottate derivano da accordi tra i diversi livelli di governo; solo in Italia esse derivano ancora da decisioni del governo centrale in buona misura imposte agli enti decentrati. In Austria, Belgio, Italia e Spagna le regole sono esplicitate in patti formali, mentre in Germania la definizioni di un patto esplicito non ha trovato realizzazione, nono-stante un lungo dibattito.

La flessibilità per gli investimenti, ossia una qualche forma di golden rule, è prevista in Germania, Italia e Spagna, ma non è prevista in Austria e Belgio. Gli effetti del ciclo non sono tenuti esplicitamente in considera-zione in alcuno dei paesi considerati.

Una indicazione che viene dall’analisi delle soluzioni adottate negli altri paesi europei a struttura decentrata è che è fondamentale il ruolo degli organi che raccordano i diversi livelli di governo. Le soluzioni sono essenzialmente due: l’introduzione di una camera delle regioni a livello politico o di un consiglio tecnico cui partecipino i diversi livelli di governo. Quest’ultimo può coordinare la programmazione finanziaria dei diversi enti, può essere responsabile del monitoraggio dell’anda-mento dei conti pubblici, dell’individuazione delle soluzioni correttive e dell’eventuale applicazione di sanzioni. Su queste linee opera, ad

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esempio, in Belgio il Consiglio superiore delle finanze, che di fatto costituisce il cuore dei rapporti tra Regioni, comunità autonome e governo nazionale.

Anche in questo ambito vi è un trade-off tra regole e discrezionalità. Le regole possono dare maggiore trasparenza, certezza e rapidità delle cor-rezioni, tuttavia possono limitare la flessibilità delle soluzioni introdot-te per affrontare casi specifici.

Le regole volte ad assicurare l’equilibrio del bilancio e a gestire le que-stioni del ciclo e degli investimenti sono, in linea di principio, compati-bili con trasferimenti perequativi di entità molto diversa. Ciò che rileva è che i flussi redistributivi siano definiti ex ante e che gli enti decentrati abbiano autonomia di prelievo, così che le decisioni di aumento della spesa possano associarsi ad aumenti di prelievo.

In Italia, il rapporto tra regole e perequazione è reso problematico dal fatto che le regole sono introdotte in una fase di transizione verso un nuovo assetto perequativo, presumibilmente caratterizzato da maggiori differenze nelle risorse disponibili per i diversi enti. Questa transizione può creare problemi di sostenibilità politica per le regole di bilancio. Essa può consentire un aumento della spesa pubblica o una riduzione dell’imposizione fiscale nelle aree avvantaggiate, ma può comportare il rischio che nelle aree svantaggiate si manifestino squilibri di bilancio. Se il governo centrale dovesse intervenire per rimediare ex post ai disavan-zi, si potrebbero determinare situazioni di azzardo morale, che mine-rebbero le regole. D’altra parte, se esso non intervenisse, la crisi finan-ziaria di uno o più enti potrebbe determinare diseconomie esterne. In sostanza, non si può introdurre un insieme di regole di bilancio che funzioni efficacemente quando molti enti possono trovarsi nella condi-zione di non rispettarle. La definicondi-zione delle regole di bilancio va effet-tuata contestualmente a una riflessione su quali differenze nei servizi pubblici siano accettabili dall’opinione pubblica a livello nazionale e sui modi in cui queste differenze possano essere eventualmente limitate. Per concludere, occorre operare contemporaneamente su vari fronti. Vanno definiti contestualmente canali di concertazione, regole di bilan-cio, ambiti di autonomia tributaria, meccanismi perequativi, strumenti informativi concernenti i dati di bilancio. La difficoltà sta nell’introdur-re in tempi nell’introdur-relativamente bnell’introdur-revi soluzioni che in altri paesi sono state sviluppate gradualmente nell’arco di decenni.

L’IMPATTO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE

Giuseppe Vitaletti

Il federalismo presenta alcune potenzialità positive, ad esempio sul fronte degli investimenti, a patto però che venga innescato il processo inverso a quello che ci si aspetterebbe, cioè aumenti l’importanza del livello nazionale di governo. D’altronde il federalismo, correttamente inteso, comporta la continua ricerca del livello di governo ottimale per l’assegnazione delle funzioni e non l’aprioristica petizione di maggiori funzioni a livello decentrato. Infatti, come è noto, nel passato il termi-ne si contermi-netteva all’attribuziotermi-ne di funzioni maggiori agli enti centrali. Sempre riguardo l’efficienza, si può notare una grande differenza terri-toriale delle spese pro capite correnti a parità di funzione esercitata localmente. Probabilmente un mix di finanziamento sbagliato e non responsabilizzante ha generato gravi inefficienze. La questione degli assetti di finanziamento, dunque, diventa sempre più centrale. Basti pensare a quanto accadrà tra pochi mesi, quando la riduzione dell’Irpef erariale, se confermata, potrebbe aprire lo spazio a un movimento in senso opposto delle addizionali locali, che vanificherebbe gran parte degli effetti della riforma nazionale e “confermerebbe” i comporta-menti inefficienti degli Enti Locali.

Altra fonte di distorsione e di inefficienza è l’evasione fiscale, probabil-mente distribuita assai diversaprobabil-mente nel territorio.

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È noto che fino all’introduzione del federalismo fiscale, la sanità in Italia era a finanziamento centralizzato, nel senso che al Centro si stu-diava il fabbisogno sanitario e si formava il fondo sanitario nazionale, che veniva poi ripartito tra Regioni in base a una formula sintetizzabile nella voce “quota capitaria ponderata” (in realtà, c’erano anche altre variabili esplicative nella formula ma di peso molto minore rispetto, appunto, alla popolazione residente, ponderata per classi d’età). Da questo punto di vista, il fatto che con l’introduzione dell’Irap si chia-masse in causa il prelievo locale, sostenendo che il fondo sanitario nazionale era soltanto integrativo, non cambiava in sostanza le cose. Si trattava, infatti, di una mera operazione aritmetica: inizialmente una regione riceveva 100, importo interamente calcolato ed erogato dallo Stato; successivamente continuava a ricevere 100, e tale cifra era anco-ra determinata dallo Stato in base all’anzidetta formula, ma di questa il 90% derivava dall’Irap, il restante 10% derivava dal Fondo sanitario nazionale

La vera novità è portata dal federalismo fiscale, che in prospettiva mostra lo Stato che si ritira e la Regione che diventa invece protagoni-sta del finanziamento della sanità, sia pure con alcuni importanti vinco-li, ottenendo in cambio dallo Stato maggiori entrate attraverso le varie voci: maggiore addizionale Irpef, leggero aumento dell’imposta sulla benzina e soprattutto compartecipazione all’Iva. Un effetto collaterale, ma non irrilevante, delle nuove regole è poi la liberazione dell’Irap dal vincolo formale di destinazione al finanziamento della sanità. È una novità positiva, anche se appare inevitabile che la sanità continui a impiegare parte considerevole del gettito di tale imposta. Il vincolo, infatti, richiedeva che la Regione non potesse ridurre l’aliquota ma solo incrementarla e creava, inoltre, un indesiderato effetto psicologico inducendo a pensare che il finanziamento della sanità fosse a carico quasi esclusivamente dell’impresa anziché, come è più corretto, dell’in-tera collettività. L’Irap diventa solo una delle fonti di finanziamento e risulta manovrabile sia in aumento sia in diminuzione, consentendo alle Regioni di avviare una politica industriale basata anche sullo strumento fiscale autonomo.

A maggior ragione appare corretta la dilatazione del ruolo dell’addizio-nale all’Irpef nella finanza regiodell’addizio-nale, se si considera che la massima spesa della Regione, costituita appunto dalla sanità, è al servizio degli individui e non delle imprese e costituisce forse la più significativa espressione della solidarietà sociale: in base al criterio di

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