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Lo strumento cardine del progetto è il teatro, il quale risulta essere una “palestra di identità”, che permette, attraverso l’attribuzione di diversi ruoli sperimentati all’interno di uno spazio protetto, di potenziare alcuni aspetti della persona. Infatti, sia da un punto di vista identitario, sia da un punto di vista relazionale, il teatro permette di “ampliare” i ruoli di un individuo: le persone portano con sé un bagaglio di molti ruoli, alcuni più amplificati, altri più ridotti, sclerotizzati o flessibili. Il teatro, quindi, permette di imparare e interpretare diverse sfaccettature dell’essere umano, senza conseguenze di vita reali (Ruggieri, 2001). E tuttavia, quando “si andrà a sollecitare quei ruoli che si sono allenati in teatro”, si riscoprirà una maggiore forza, sostenuta dal riconoscimento che ho avuto nell’interpretare quella data situazione con successo. Il teatro, in più, si distanzia da altre simulazioni, quale quella virtuale per esempio, in quanto passa

“attraverso il fisico e ci sono degli schemi viso-postural-spaziali, cioè corporei, che hanno uno sguardo, una postura e un atteggiamento che ti obbligano ad essere credibile, anche dal punto di vista fisico.” (Michele)

Il corpo è qui considerabile come un testo, “trasuda espressioni, informazioni e trasemtte comunicazione” (Goffmann, 2010). É inoltre vero che spesso il corpo fa emergere emozioni o parti dell'identità che sfuggono alle regole sociali. In altre parole, mentire tramite il proprio corpo è più difficile. Il teatro permette di allenarsi anche su questo: il corpo produce segni, significati che l'attore dà a sé, alle relazioni con gli altri e al contesto

115 sociale in cui vive, è un compito, manifestazione di ruoli sociali.

Michele, nella sua intervista, specifica quindi come il teatro possa essere anche strumentalizzato in negativo: “Se non sai come utilizzare il teatro, ti schiacci sul “Ah bene … a Patrizia viene bene questa cosa … “, in questo caso il teatro fa male perché rinforza uno stereotipo. Tante volte li metto a loro agio e in sfida in ruoli distanti da se stessi, allora lì il teatro diventa strumento di crescita e cambiamento. Altrimenti rinforza in maniera molto potente … perché quando c’è l’autorizzazione del pubblico che con l’applauso e con l’attenzione ti dice che in quel momento ci sta credendo, che tu sei realistico in quella parte, è potentissimo nel bene e nel male. Se io sono il bullo e l’intero teatro rinforza questa cosa, poi è difficilissimo smussarla. Invece se la ragazza timida riesce a sperimentarsi e a fare la brillante e la spavalda e il pubblico le crede, in quel momento il teatro diventa strumento di cambiamento (…) È uno strumento potente, può far benissimo ma anche malissimo. E quindi bisogna riuscire a gestirlo questo strumento.”

Il teatro, attraverso anche l’approvazione esterna al sé, mostra come le persone, viste dagli altri, non si figurano come le stesse pensano di essere.

All’interno del percorso di CIVES è stato utilizzato un metodo analitico di lavoro, ovvero sono stati predisposti dei veri e propri obiettivi, verificati lungo il percorso, per i ragazzi. In altre parole, si parte da un’analisi dei bisogni, si impostano degli obiettivi educativo-teatrali, che si verificano poi attraverso un processo qualitativo (ci sono anche griglie e sistemi di ruolo). Alcuni di loro, inoltre, avendo già partecipato alle precedenti edizioni, sono partiti con una mappatura già “studiata” dei loro bisogni, che comunque si sono modificati lungo il percorso, come cambiate sono le stesse persone: “questo è il vantaggio di lavorare con progetti longitudinali” (ovvero il lavoro su più edizioni), ha sostenuto Michele. Si specifica che, quando si parla di bisogni, si parla di un ampio ventaglio legato poi alla singola persona, dalle esigenze di sviluppo relazionale, a quelle corporee, piuttosto che cognitive. In base a ciò che emerge, si va a predisporre una cornice testuale e l’assegnazione delle parti.

Così, dal punto di vista teatrale, come già si è accennato, il progetto ha avuto tre fasi. Prima fase: il laboratorio

La prima fase ha puntato principalmente sullo sviluppo della dinamica interculturale di gruppo e sull’espressione corporea:

“Diciamo, si lavora dal punto di vista dell’espressione corporea e verbale, su dinamiche di gruppo … il punto focale diciamo hanno avuto degli approfondimenti: facevamo un’ora in più all’inizio di documentazione sui temi e poi si rielaborava teatralmente quello che era emerso.” (Michele)

Oltre a questi due aspetti, è stata anche migliorata la parte vocale, cercando di aiutare i richiedenti asilo nella lingua italiana. Anche Banjougou, nella sua intervista, ha sottolineato l’importanza del progetto per

116 migliorare la lingua. Di più, questo progetto è stato per lui una porta verso la cultura e la conoscenza dell’Italia, perché prima non sapeva come muoversi e come vivere con gli italiani.

Anche gli altri partecipanti hanno insistito su questo punto:

“Prima di progetto non parlavo tanto, adesso moltissimo. Quest’anno di più ancora, perché c’erano italiani. Quando iniziavo il progetto, non capivo, ora di più, sì!” (Moussa, partecipante richiedente asilo)

“Sì, quando parlavo male loro mi danno coraggio per parlare bene, per imparare ancora. Mi è stato molto utile, ho imparato cose nuove. Prima era difficile, ora non così tanto.” (Mamadu, partecipante richiedente asilo)

Il miglioramento è stato significativo, anche se, con l’interruzione ufficiale dei corsi d’italiano64, la sicurezza nell’utilizzare la lingua, per molti di loro, è ancora da raggiungere65.

Da ottobre a novembre, si sono condivisi quindi dei momenti per la costruzione del gruppo, portando degli esercizi che sono stati utili sia agli italiani, che ai richiedenti asilo. Si è cercato di far uscire i propri pensieri ed esprimersi, usando particolarmente esercizi legati alla corporalità. Questi non solo hanno permesso di conoscersi, ma anche di essere riconosciuti e conosciuti dagli altri. Qui, la forza del teatro come contesto di identità individuale e sociale:

“Mi ha aiutato. Se hai una cosa dentro il tuo cuore, ti aiuta a buttarla fuori e mostrarla agli altri. Ho imparato questo.” (Mamadu)

“Mi è piaciuto molto lavorare con il corpo (…) Qui, durante le prove, c’è sempre la cosa della musica, del ballo, della gestualità e dei movimenti. Loro ti coinvolgono, con movimenti molto diversi, quasi più forti e aggressivi, energetici diciamo. Ma, anche per me … ho parlato di me attraverso il movimento: ho dato una musica a Michele e ho iniziato a muovermi, dovevo coinvolgere le persone che mi stavano attorno e lì mi sono sentita al cento per cento me stessa e … ho sentito che gli altri hanno proprio recepito quello che volevo dire.” (Gaia, volontaria universitaria)

“Io non sono uno che esterna molto le emozioni di mio. Ma a livello teatrale, ho dato voce e movimento ai miei pensieri. Mi riesce più facile sul palco, sei portato dal contesto, in un certo senso devi. Quindi ti aiuta in questo, ad essere più estroverso e ad aprirti, ma anche per la ricezione degli altri.” (Francesco)

Il contatto, “l’invasione” in spazi che di solito sono personali, anche ai più restii, con il tempo, sono piaciuti: “Appena arrivata abbiamo iniziato a fare degli esercizi di spazialità e contatto … al momento, sono rimasta un po’ così. Cose che si doveva urlare, (…) Il primo impatto è stato troppo per me, non me l’aspettavo. Poi un po’

64L’interruzione si è definita qui “ufficiale”, in quanto grazie all’aiuto di volontari e ad una raccolta fondi, nonché la

vittoria ad un bando, alcuni corsi sono stati portati avanti. Resta comunque la precarietà di un intervento basato solo sulla buona volontà di alcuni, non-istituzionalizzato, che negli anni potrebbe portare a numerosi problemi.

65 Questo è stato anche uno dei problemi nelle interviste, più di una volta è stato chiesto di fare domande meno

117 perché mi ha convinto e non avevo da fare il venerdì, ho continuato ad andare. E dopo un po’ mi è piaciuto. Ma gradualmente, piano.” (Marta)

In particolare, uno degli esercizi che è stato ricordato maggiormente, come di maggior impatto per i volontari italiani, è stato un esercizio legato alla sfera sensoriale. Michele ha chiesto di ricordare una sensazione provata in viaggio, a livello di cinque sensi.

“Noi abbiamo detto qualcosa di banale o normale, tipo l’aria del condizionatore o i rumori della ferrovia. Un ragazzo si è tolto le scarpe e ha detto: “Io questo sento, che ho fatto non so quanti chilometri nel deserto, a piedi nudi, e questa è una delle cose che mi resteranno per sempre”. Vedere il paragone tra la mia e la loro vita, è un bagaglio che mi porterò sempre dentro.” (Gaia)

“Mi ha colpita un ragazzo che ha detto “sento l’acqua e da lontano le grida della mia mamma e dei miei fratelli che muoiono attorno a me”. Noi siamo rimasti … mi ha colpito tanto!” (Marta)

Questo esercizio, come molti di quelli proposti da Michele, ha fatto breccia grazie al focus su aspetti comuni, le sensazioni e il viaggio inteso come movimento generico da un posto all’altro, portando gli italiani a raccontare una propria sensazione per poi metterla effettivamente in paragone a ciò che i ragazzi richiedenti asilo hanno percepito. Andare a vedere uno spettacolo, un film o leggere un racconto può sensibilizzare, ma lascia tuttavia una distanza, facendo nascere sempre un sentimento di “altrui” e “altrove”. È solo attraverso la relazione che si può veramente costruire conoscenza (Albanese, 2004). Di più, questo esercizio è stato recepito solo dai volontari, mentre i richiedenti asilo hanno notato altri momenti, sono stati socializzati ad altre situazioni. Questo, probabilmente perché si viene “colmati” nei punti dove si è carenti, attraverso uno scambio e interscambio di informazioni che sta alla base della socializzazione stessa. Non è un caso che Marta prosegue dicendo che i ragazzi, nel raccontare quest’esperienza erano sereni, avendola rielaborata con il tempo e forse, anche per l’inflazione del racconto a cui sono portati costantemente:

“Un vissuto detto in maniera così naturale, senza una lacrima, l’ha detto come se fosse una cosa normale, mi ha colpito tantissimo. Mi ricordo ancora quel momento. Ci siamo tutti un po’ gelati. E poi siamo andati avanti.”

Seconda fase: creazione dello spettacolo

Da gennaio, si è iniziato a lavorare sul montaggio dello spettacolo (“che in realtà è proprio il montaggio di scene laboratoriali, poi cercando di dare una coerenza e una presentabilità, con una sua dignità anche per il pubblico” asserisce Michele) che è andato sviluppandosi attraverso le improvvisazioni su tematiche legate all’essere cittadini di Trento. Tra queste:

- Il desiderio e le necessità che hanno portato alla partenza (anche degli universitari fuori sede o dei ragazzi delle superiori che hanno scelto una scuola lontano da casa, per la passione di ciò che studiano). Qui, nuovamente, giocare sulla comunanza e differenza, ha colpito. Francesco afferma:

118 “Ho visto anche le differenze, come una scena dove a fine spettacolo ci siamo messi in riga e dovevamo dire quanto tempo, da casa nostra, ci impiegavamo per raggiungere il nostro obiettivo. Il mio era andare semplicemente a scuola e, in un quarto d’ora a piedi ci arrivi. Poi proseguivi e vedevi come alcuni ci hanno impiegato mesi e alcuni anche anni per raggiungere l’Italia. Quello mi ha fatto rifletter su altre realtà nel mondo, magari anche vicine. Magari un ragazzo vicino a noi nell’autobus ha fatto un viaggio lunghissimo.”

- Il vivere Trento, nelle difficoltà e nei risvolti positivi; - Le passioni e gli interessi dei partecipanti;

- Il volontariato e il bene comune, come condividere con gli altri le cose; - Infine, i diversi scenari futuri se ci si spostasse da Trento.

Queste tematiche hanno quindi scardinato il divario tra i componenti del gruppo e, tuttavia, hanno sensibilizzato mostrando e mettendo in risalto, senza esasperare, le differenze.

Terza fase: si va in scena!

La terza e ultima fase, invece, ha riguardato la restituzione alla cittadinanza del prodotto finale, lo spettacolo. Questo, come si è visto, è consistito in un insieme di scene laboratoriali, non ha dunque seguito una traccia narrativa lineare, una “storia” nel senso comune del termine. Francesco ha notato questa particolarità e, avendo fatto altri corsi di teatro in passato, commenta così questo elemento di novità rispetto alla sua esperienza passata:

“Rispetto agli altri spettacoli che ho fatto in passato magari era meno strutturato, non c’era una storia, intesa nel vero senso della parola. Era più uno spettacolo figurativo. Ma in realtà non è stato negativo, anzi … un modo diverso e nuovo di presentare uno spettacolo.”

La parte finale rappresenta il risultato conclusivo del laboratorio ed è dunque stato un momento di grande forza per i partecipanti. Le pressioni create dall’esporsi davanti a numerose persone, non più in un contesto protetto dove con il tempo si è andata instaurando fiducia, nella scorsa edizione aveva portato Mamadu, uno dei partecipanti, a non prender parte alla fase di creazione e restituzione dello spettacolo. Quest’anno, Mamadu ha compiuto un grande passo avanti, partecipando fino alla fine.

La fase di esposizione si vive, ad ogni modo, in maniera molto personale: c’ è chi prima di salire sul palco era agitato e chi invece si è trovato molto tranquillo e sereno. Questo fattore non dipende tanto dal progetto in sé e neppure dalla differenza italiano – straniero, bensì dalle paure dei singoli:

“Però, questa per me è la potenza del teatro, tu varchi la porta della sala prove e tu non sei più tizio caio, tu sei quello che proviamo a fare qua. E lì è splendido, non c’è più italiano – straniero. E lì, la paura che poteva avere del palco un richiedente asilo era la stessa di un italiano.” (Alessandra, operatrice A.T.A.S.)

119 Criticità del percorso teatrale

Il problema che è stato maggiormente riportato riguarda la dimensione temporale, sia a livello orizzontale, di durata del progetto, sia a livello verticale, ovvero i ritardi che sembrano esserci spesso stati da parte dei ragazzi richiedenti asilo.

“Forse, il percorso in sé è stato lungo, di continuità insomma. C’era chi aveva voglia e chi invece … vedevi i ragazzi stessi che a volte venivano, a volte no. Si perde un po’ l’interesse che si ha all’inizio. Diventa un po’ monotono, anche con le prove. Si vede che i ragazzi fanno proprio fatica. Anche un’altra cosa … gli orari! Era venerdì e magari per un fuori sede era scomodo, ma quello vabbè, si era deciso venerdì ed era venerdì. Più che altro gli orari. Se dicevamo dalle quattro alle sette, forse per le cinque iniziavamo. E quindi anche lì sì … avevamo bisogno di provare, si vedeva. Un po’ di tempo in più ci sarebbe voluto.” (Gaia)

La dimensione del tempo è un discorso ricorrente all’interno delle interviste e, spesso, da un’ottica “occidentale”, si tende a collegare il ritardo con una mancanza di interesse o di impegno. Invece, i ragazzi hanno continuato ad esserci ed esserci portando energia ed entusiasmo. Secondo la visione di Michele, il rispetto degli orari è proprio ricollegabile ad un’abitudine culturale:

“La difficoltà c’è invece nella parte logistica e temporale. Inizialmente perché i ragazzi africani fanno un po’ fatica ad entrare nell’ottica del rispetto degli orari, perché hanno una concezione totalmente diversa dell’arrivare ad un orario, percepire i tempi stretti. Anche perché, per fortuna, non hanno quella frenesia che abbiamo noi, per cui tutto è molto incasellato e se sgarri di un quarto d’ora perdi un appuntamento, insomma … da una parte ci fa bene vedere la loro rilassatezza, dall’altra magari poteva creare dei problemi perché per creare le scene dello spettacolo, che dura mezz’ora, all’inizio non bastavano due ore a provarlo. Perché costruendolo era lungo, anche dire quelle poche parole bene in italiano, a capire cosa volessero dire. Quindi il fatto di non arrivare puntuali poteva diventare un limite, non si arrivava a provare.”

Nonostante la dimensione temporale sia forse un aspetto, in futuro, da valutare e ridisegnare, questa non ha provocato l’allontanamento di persone e si è arrivati alla conclusione del percorso con uno spettacolo dall’importante messaggio contenutistico.

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