Uno degli aspetti emersi, sia in Arte Migrante, sia in CIVES, è quello dell’assenza del saluto per strada, una delle grandi differenze, tra l’Italia e i paesi di origine, che tutti i ragazzi richiedenti asilo hanno percepito:
“È cambiato anzitutto come mi rapporto con le persone. Io mi avvicinavo alle persone, perché da noi è così. Ogni tanto prima, in Gambia, salutavo persone veramente senza conoscerle, come ci siamo conosciuti ci beccavamo e io salutavo. Ma dopo ho capito che qui non funziona così, se vedi una persona che hai già visto non la saluti, lasci andare. E questa cosa, ho fatto proprio fatica, ma l’ho imparata questa cosa. Non saluto, se
129 ci salutiamo bene, se no niente, non ti saluto. È una delle cose che ho imparato e mi ha proprio cambiato.” (Mamudu, Arte Migrante)
“Ho avuto molte difficoltà ad inserirmi, per via delle leggi e delle persone, per la comunicazione e per la cultura così diversa. Ho sofferto molto la mancanza di familiarità delle persone, l’assenza del saluto per strada.” (Banjougou, CIVES)
La questione del saluto, che in sé può sembrare solo un gesto di abitudine, porta con sé un tema centrale dell’accoglienza delle persone “straniere” che arrivano in Italia, quella del riconoscimento. Una delle primissime componenti del sé, quando si nasce, è la comprensione di “esistere”, quale riconoscersi come entità separata ed unica rispetto agli altri. Il filosofo e psicologo americano William James distingue due componenti del Sé, che si sviluppano con l’età:
- Il Sé soggettivo (o esistenziale), ovvero la percezione di distinzione e di unicità rispetto agli altri, persistente nel tempo e nello spazio e dotato di un elemento di auto-riflessività;
- Il Sé oggettivo (o categorico), cioè riconoscere la visione che gli altri hanno di noi e le qualità e gli aspetti che gli altri ci riconoscono.
Questi due aspetti sono quindi influenzati profondamente da fattori sociali, che vanno a creare l’autostima e la concezione del sé. Secondo gli studi tradizionali, l’identità si sviluppa, in questo senso, maggiormente nei primi anni di vita. Nonostante ciò, è anche vero però che questa è caratterizzata da un processo continuo nel tempo: la persona guarda, osserva, prende su di sé il proprio crescere e cambiare, o il proprio restare uguali a se stessi, ripensare al passato e immaginare il futuro (Albanese, 2004). Queste azioni ci rendono visibili e ci fanno sentire nel mondo.
Ora, si pensi ad una persona che cambia totalmente contesto culturale e si ritrova in un luogo sconosciuto, senza una rete sociale di riferimento, con abitudini di vita differenti e, ancora più importante, con persone che non ti riconoscono come individuo, ma come parte di un problema, come parte di un gruppo indefinito, che “non dovrebbe” esserci. Anche laddove vi è un riconoscimento, questo risulta spesso essere profondamente stereotipato e negativo, anche a causa della strumentalizzazione mediatica di alcuni temi:
“Mi fa stare male che le persone intorno pensano così. Ho visto in televisione, che la polizia ha preso africani che facevano droga. Ma questa è una vergogna anche per noi. Uno fa una brutta cosa e allora tutti siamo uguali?” (Mamadu)
Arte Migrante e CIVES rappresentano dunque degli spazi dove cade quest’invisibilità e si riconosce l’esistenza del singolo, si potenzia la fiducia e la motivazione, sentimenti che portano ad una maggiore voglia di conoscersi e includersi nella nuova società66. Silvia, coordinatrice A.T.A.S., riflette in questo modo su quanto
66 Una domanda che mi viene spontanea da porre al lettore, anche e soprattutto a colui che vuole tagliare sempre di
più le attività per i migranti, è di riflettere su quei casi dove questo riconoscimento non trova uno spazio: cosa la persona potrebbe arrivare a fare per tornare ad “esistere”? Quale sicurezza nell’isolare e rendere invisibile ciò che in realtà c’è?
130 detto:
“Non so nella quotidianità, ma dai racconti che portano, anche questa cosa sul saluto … in tanti …uno ci ha raccontato che quando gira per strada percepisce la paura degli italiani nei suoi confronti. Tu hai 18 anni, giri per strada e vedi che la gente ti viene incontro e cambia strada perché ha paura di te. Questo tipo di progetti, per quel poco, almeno li fanno sentire riconosciuto. Anche il saluto … alcuni operatori, fuori dalle strutture, non li salutano. Questo è agghiacciante … “
Il saluto rappresenta qui un aspetto più simbolico. Molto spesso la motivazione stessa di avvicinamento al progetto è questa volontà da parte dei ragazzi di entrare in contatto con qualcuno di “italiano” e integrarsi:
“Ho deciso perché mi piace conoscere persone e ragazzi, perché ora quando mi vedono mi dicono “Moussa, Moussa … ciao ciao!!” e così va bene. Perché quando resti sempre a casa non ti fai fuori e non conosci nessuno e … è … lì è difficile poi. Ma quando conosci le persone e loro conoscono te, va bene, è a posto!” (Moussa)
Il riconoscimento si estende poi anche nell’esposizione all’esterno, che sia attraverso uno spettacolo, un flash mob o la partecipazione ad un evento, lo spostare l’attenzione dal gruppo interno a quello esterno, permette ai ragazzi di portare la loro voce, di avere una rivalsa, di comunicare:
“Lo spazio che ci siamo presi è stata un’occasione per poter comunicare. Salire sul palco con le persone che ti applaudono e riconoscono, ti fa provare una grande felicità … senti di riuscire a comunicare finalmente con loro.” (Banjougou)
“Si sono accorti che la gente li guardava come qualcosa di bello. L’effetto dei trampoli è che appena inizi a camminare le persone tendono a guardarti come qualcosa di bello, incuriosite (…) Penso ad un ragazzo africano molto spontaneo che a carnevale si è messo una tuta tutta chiusa blu elettrico che copriva anche tutto il volto quindi non vedevi nulla se non un omino blu sui trampoli e lui in quel modo ha fatto il carnevale in maniera spontanea da coinvolgere le persone andare a fare gli scherzi prendere i bambini in braccio, fare mille cose simpatiche che senza maschera non faceva. Lui è nero e nell’andare verso i gruppi di sconosciuti ti guardano come il nero. Invece così vestito di blu con una maschera di sorriso dentro il carnevale era pienamente accettato. Questo poi lui me lo ha riportato anche come cosa molto bella. E io ho visto scene di lui al bar molto simpatiche che faceva scherzi che se fosse andato senza maschera non avrebbe fatto e che anche la reazione degli altri sarebbe stata molto più di difesa.” (Marco Baino)
Così, tra i maggiori cambiamenti individuali, si può senz’altro notare l’acquisizione di fiducia e l’iniziale riservatezza diventa forza. Se questo è vero per i ragazzi richiedenti asilo, è altrettanto reale per i partecipanti italiani. L’iniziale timidezza che, con la composizione del gruppo, è andata a smussarsi, caratterizza le interviste di tutti i partecipanti, stranieri e non. Ne parla anche Marco Baino nell’intervista riguardante Teatrampoli:
“Per esempio, in Teatrampoli, mi han colpito anche persone timide o in cui non avevo visto particolari cambiamenti e che poi, nel fare la valutazione o forzare un po’ sul raccontarsi, vai a scoprire dei piccoli episodi
131 in cui c’è stato un grosso cambiamento, una nuova fiducia e sicurezza. Mi viene in mente un ragazzo italiano che nelle scene teatrali si è sentito “protetto” da uno dei ragazzi africani, che mentre qualcuno lo minacciava, si è messo in mezzo per proteggerlo. Era tutta finzione teatrale, però la sensazione grossa che ti restituisce, di sicurezza e fiducia, è importantissima e significativa, anche per smussare poi la tua visione: ti cambia gli occhiali, il modo in cui guardi l’altro e, spontaneamente, inizi a guardarlo non con paura ma con tranquillità.
Questo aspetto potrebbe essere un ulteriore spunto di riflessione, perché mette in evidenza l’isolamento e le insicurezze non solo di un ragazzo “nuovo”, che si vede riconosciuta una condizione data e difficile da “levarsi”, ma anche un bisogno dei ragazzi italiani stessi: la condizione di isolamento e solitudine è ormai una delle questioni dilaganti nella società moderna e le diversità, sentite e percepite, spesso riguardano anche coloro che sono nati sul territorio.
Passando attraverso l’identità personale e l’identità sociale: la decostruzione e la ricostruzione del sé La socializzazione passa attraverso la relazione con gli altri e porta alla costituzione dell’identità personale e dell’identità sociale (l’insieme di ruoli che la persona svolge nella sua quotidianità). Per i ragazzi richiedenti asilo, nella loro rappresentazione mediatica, uno degli aspetti che si appiattisce è proprio questo elemento di identità sociale: l’immigrato è visto solo come tale, non gli viene riconosciuta la sua progettualità futura e il suo passato, nonché la sua vita presente. L’identità personale, come si può notare, è difficile da delineare, in quanto è impossibile astrarsi completamente dai rapporti esterni e fare una riflessione indipendente dal contesto: bisogna quindi impegnarsi nella ricerca di esperienze profonde, nelle quali i limiti sfumano e vi è un'elaborazione personale. L’identità sociale, invece, va riconosciuta nell’identità che il soggetto “si attribuisce in quanto membro di un gruppo (o di più gruppi), oltre al rilievo emozionale collegato a queste condizioni di membro” (Taifel, 1976). La persona è dunque imprescindibile dal suo contesto di socializzazione e, quindi, non si può prescindere dai suoi gruppi di appartenenza e dal sistema che la circonda67. La socializzazione riguarda anche l’entrare in contatto, sempre attraverso la relazione, con il patrimonio culturale del territorio, con l’insieme di quei valori, norme, conoscenze e linguaggi, non omogenei e non trasmissibili in blocco, ma solo attraverso un processo continuato e costante (Bernardi, 2002). Le persone italiane, nate e cresciute sul territorio (si tenga presente che a volte, alcune abitudini cambiano da città distanti pochi chilometri) hanno ottenuto una socializzazione primaria già dalla nascita (comunicazione, linguaggio e capacità di relazionarsi con gli altri), mentre i nuovi arrivati no.
67Su questo concetto si basa anche tutta la teoria sistemica: l'identità, in quanto costrutto sociale, è influenzata dalle relazioni e dal sistema del quale fa parte. Si deve porre l'attenzione sul tutto, tramite un approccio olistico, globale ed unitario: l'approccio sistemico – relazionale. Se dunque l'identità della persona è costituita anche dalle relazioni con le persone, così l'intervento dovrà essere globale e coinvolgere il singolo, la famiglia, la società, i servizi e le istituzioni.
132 Sarebbe una mistificazione pensare che una persona possa arrivare in un nuovo territorio e poter continuare a vivere con tutte le proprie norme sociali e istituzionali, in toto. L’interazione è possibile solo con un processo di decostruzione ricostruzione, seppur minimo:
“Tutte le attività che abbiamo fatto in questi anni avevano anche l’obiettivo di dare la possibilità a persone arrivate in un contesto totalmente nuovo, dove volenti o nolenti ci devono stare, di entrare in contatto con il contesto, acquisendo dei sistemi di interazione, vivere il contatto con l’altro, della loro età.” (Silvia)
I principali linguaggi che i ragazzi sottolineano essere differenti sono, in primis, la lingua e poi, molto forte è anche la relazione maschio – femmina.
Come dice Heidegger, “Riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”. È dunque una delle prime preoccupazioni, l’apprendimento della lingua e, questo, vale per tutti i partecipanti ai diversi progetti, come descritto nei capitoli d’analisi (che sia CIVES, che sia Arte Migrante o anche i Trampolieri). Inoltre, hanno tutti sottolineato il miglioramento della lingua dovuto proprio alla continua interazione con italiani: lo studio all’interno dei corsi, per quanto importante, non motiva i ragazzi ad apprendere la lingua come invece accade quando nasce il bisogno di comunicare con i pari. In altre parole, laddove la lingua diventa funzionale al rapporto, questa viene acquisita più velocemente.
Una cosa che si è notata, tuttavia, è la differenza nell’apprendimento linguistico che c’è tra i partecipanti ad Arte Migrante e i partecipanti a CIVES: a parità di tempo in Italia (nonché la partecipazione agli stessi corsi di italiano), si è notata una generale, maggiore conoscenza della lingua in Arte Migrante, dimostrata dal fatto che, l’unico ragazzo di CIVES che parlava in maniera fluente la lingua italiana era Mamadu, che ha preso parte anche ad Arte Migrante. Questa differenza è riconducibile, dopo aver assistito ai diversi incontri, a due elementi (esclusa comunque la personale attitudine): da un lato la relazione che si è creata, come si vedrà nel prossimo sotto-capitolo, dall’altra l’esposizione prolungata al contesto stesso. Per quanto riguarda quest’ultima cosa, infatti, si può notare come Arte Migrante, non essendo un “progetto a scadenza” prosegua ininterrottamente da quando è nato, anche d’estate, con la partecipazione ad eventi, nonché incontri informali settimanali frequenti (dovuti anche questi alla relazione differente che si è creata).
Un’altra tematica che è tornata, invece, è quella del rapporto uomo-donna, anche a livello fisico:
“Torna spesso anche tra loro il tema delle relazioni tra maschi e femmine … ci hanno raccontato di quest’abitudine che, se incontri una ragazza e dopo cinque minuti ti piace, le dici già ti amo … e questa cosa qua ti fa un po’ scappare. Alla fine di un progetto, un ragazzo ha proprio detto “per me è stato molto importante, perché grazie a questo progetto con quindici ragazze, ho capito che il mio modo di relazionarmi con le ragazze potrebbe spaventarle e creare dei muri, invece che avvicinarle (…) o l’abitudine di prendersi per
133 mano, anche tra maschi. Una volta mi è capitato che uno mi prendesse per mano e ho detto “No, qui lo fanno i fidanzati di prendersi per mano …”.” (Silvia, CIVES)
“L’abbraccio, l’abbraccio. Mi piace moltissimo perché sono persone tutte affettuose e a me questa cosa ha preso molto. Perché io ho capito proprio che gli animali si amano tra loro stessi e noi dobbiamo essere meglio di loro e non siamo arrivati neanche a metà di loro. E l’abbraccio per me non è più solo d’amore tra amanti, ma anche tra amici e amiche. Non so se riesci a capirmi?” (Mamudu, Arte Migrante)
“Un esempio concreto: uno dei ragazzi che è venuto all’inizio, timidissimo, contatto zero, per vari motivi, forse anche culturali – religiosi … ecco, lui fa veramente fatica con il contatto, soprattutto con le donne. Mentre ora no.” (Alessandra, CIVES)
Questo sforzo è maggiore per un ragazzo “straniero”, ma deve essere fatto anche dagli italiani stessi, i quali solo attraverso la relazione la decostruzione dei preconcetti che hanno, possono conoscere veramente l’altro:
“Allo stesso modo, anche i ragazzi e le ragazze italiani, a loro resterà l’esperienza più forte (…) Poi ci sta che anche loro … un conto è essere già sensibili, un conto è avere delle idee che con il tempo possono decostruirsi. Quindi, condivido che già per quelle diciotto persone è stato un percorso di sensibilizzazione forte.” (Silvia)
“All’inizio non mi aspettavo di unirmi così tanto a loro. All’inizio ero intimorita, come. Perché comunque loro hanno più o meno la nostra età, se non più grandi e quindi non pensavo … volevo diventare loro amica ma non pensavo di entrare così in intimità con loro, anche a livello di affettività. Se li vedo per strada non vedo l’ora di andarli ad abbracciare. Il modo di relazionarci proprio.” (Gaia, CIVES)
Non è un caso che molti siano stati i pregiudizi iniziali che sono andati disgregandosi lungo l’andare del percorso.