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IL CONTESTO DI RIFERIMENTO: LA RIFORMA UNIVERSITARIA

CAPITOLO 5: LA COMUNICAZIONE UNIVERSITARIA IN

1. IL CONTESTO DI RIFERIMENTO: LA RIFORMA UNIVERSITARIA

modello di università di elite, ad un modello di università di massa, caratterizzato da un numero crescente di giovani che accedono all’istruzione terziaria, fino ad arrivare allo scenario attuale in cui oltre il 40% dei ragazzi di una medesima generazione si iscrive all’università249.

Questa domanda di formazione universitaria non solo è andata mutando da un punto di vista quantitativo, coinvolgendo anche fasce sociali prima escluse dai livelli più alti di educazione, ma anche da un punto di vista qualitativo si è assistito negli ultimi anni ad una profonda modificazione della sua composizione. Non sono solo i giovani neodiplomati a decidere di intraprendere la carriera universitaria, ma anche individui, non più giovanissimi, che decidono, anche dopo diversi anni di lavoro o contestualmente alla propria carriera professionale, di iscriversi all’università, soprattutto a master e corsi di perfezionamento o di specializzazione. Del resto è lo stesso mercato del lavoro che richiede professionalità sempre più spiccate e definite da un lato, e un aggiornamento costante delle competenze dall’altro, in un contesto che è stato definito di lifelong

learning, cioè di formazione continua250. E sono soprattutto questi nuovi segmenti

di domanda a ricercare offerte formative di alta qualità, funzionali a raggiungere

249 In Italia il numero degli iscritti, dopo essere raddoppiato tra il 1970 e il 1990 (se nel 10%

dei diciannovenni si immatricola nell’anno accademico 1961-62, nell’anno accademico 1998-99 si immatricolano il 48,5% dei diciannovenni), tende a rimanere costante a partire dagli anni ‘90. Al 2004 il sistema universitario italiano conta quasi due milioni di studenti iscritti (S. Pattuglia, “Il servizio pubblico universitario. Comunicazione e organizzazione in un sistema che cambia”, in

Rivista italiana di comunicazione pubblica, n. 23, 2005, pp. 134-141) e secondo il censimento del

2001 gli italiani che possiedono una laurea sono 3.480.535, contro i 2.047.630 del 1991 (Bruno Mastragostino, “In dieci anni l’Italia raddoppia i suoi laureati”, in L’Avvenire, 22 Gennaio 2005).

250 Per formazione continua si intende “ogni forma di formazione, professionale o generale,

ripresa dopo un intervallo seguito al periodo di formazione curriculare” (European Universities

Continuing Education Network, citato in Bruno Tellia, “L’università di fronte alla nuova domanda di formazione”, in Marzio Strassoldo, L’azienda università. Le sfide del cambiamento, Torino, ISEDI, 2001, p. 291)

conoscenze specifiche che consentano di competere ad alto livello nel mondo del lavoro.

I mutamenti qualitativi e quantitativi della domanda di formazione universitaria hanno portato alla messa in discussione di quella visione idealizzata degli atenei come centri culturali per eccellenza, unici soggetti istituzionali deputati allo studio e alla ricerca, chiusi in se stessi e volti alla custodia e alla protezione della struttura cognitiva della società, indipendentemente da quello che accadeva al proprio esterno. In tutti i paesi occidentali, cioè, si è andata sedimentando la consapevolezza del ruolo centrale giocato dalle istituzioni universitarie nel rispondere alle esigenze sociali, politiche e di sviluppo economico dei singoli Paesi, che pertanto, non potevano più operare separate dalla realtà. È così che, al pari delle altre amministrazioni statali, le università sono state al centro di profondi processi di riforma, volti, da un lato, ad adeguare l’operato dei singoli atenei, in quanto istituzioni pubbliche, ai nuovi valori a cui l’agire pubblico si ispira, dall’altro, a far uscire le università da quel ruolo di eremi del sistema sociale, autoreferenziali e autocelebranti, per trasformarle in istituzioni aperte e sensibili al proprio contesto di riferimento, cruciali per il corretto sviluppo del Paese e la crescita, umana e professionale, dei suoi cittadini.

In Italia è con la legge numero 168 del 1989 che ha inizio il rinnovamento di queste peculiari istituzioni, attribuendo agli atenei l’autonomia statuaria. Con questo provvedimento, cioè, le università cessano di essere organismi periferici dello Stato, strettamente dipendenti dal Ministero, per affermarsi come enti dotati di personalità giuridica, caratterizzati, al pari delle altre istituzioni pubbliche, di ampia autonomia statuaria, organizzativa e amministrativa.

Con la legge numero 537 del 1993 viene introdotta l’autonomia finanziaria, secondo un sistema budgetario dei trasferimenti finanziari, per cui le decisioni di ordine economico passano da prerogativa ministeriale a responsabilità degli organi di governo delle università. Con questo provvedimento si concede, cioè, ai singoli atenei la libera facoltà di decidere come meglio spendere la somma complessiva stanziata dalla Stato in base a parametri storici di rendimento, mentre nel sistema precedente, era il Ministero a decidere le modalità di allocazione delle risorse per ogni voce di spesa. Il trasferimento di somme tra le differenti voci del budget era possibile solo previa autorizzazione speciale da parte degli organi centrali. Si tratta pertanto di un cambiamento che ha conferito elevati livelli di flessibilità alla gestione finanziaria delle istituzioni universitarie, affidando inoltre a queste ultime la libertà di decidere autonomamente l’importo delle tasse.

Il medesimo provvedimento legislativo, introduce inoltre i nuclei di valutazione interni a ciascun ateneo, stabilendo contemporaneamente gli standard minimi che le performance universitarie devono raggiungere rispetto ai fondi

erogati. Il Decreto del MURST del 22 febbraio 1996 istituisce l’Osservatorio permanente per la valutazione del sistema universitario italiano. Quest’ultimo è incaricato di stilare un rapporto annuale in merito ai risultati ottenuti dalle università per quanto riguarda le attività didattiche e di ricerca. I nuclei interni invece hanno il compito di assicurare, attraverso analisi comparative dei livelli di efficienza, il corretto uso dei fondi pubblici, la produttività delle attività didattiche e di ricerca e l’equo andamento del processo amministrativo. Ogni ateneo è pertanto responsabile dell’efficienza raggiunta nell’uso delle risorse e dell’efficacia dei risultati ottenuti.

Viene inoltre introdotto l’obbligo di sviluppare attività di monitoraggio della

customer satisfaction, attraverso rilevazioni dirette del livello qualitativo della

didattica. Agli studenti viene infatti chiesto di esprimersi, attraverso la somministrazione periodica di questionari, sulla qualità dell’insegnamento, in merito ai singoli corsi seguiti, oppure in merito ad altri servizi, quali quello bibliotecario o le segreterie di facoltà. È anche in base ai parametri risultanti da queste rilevazioni che viene stabilito l’ammontare dei trasferimenti di risorse da parte dello Stato, perché una certa percentuale dei finanziamenti statali è proporzionale ad alcuni indicatori di efficacia e efficienza. Il sistema di finanziamento quindi tende ad ispirarsi a principi meritocratici, per cui le università ricevono le risorse che meritano piuttosto che quelle di cui hanno bisogno251.

Saranno invece la legge numero 127 del 1997 e la legge numero 509 del 1999 a concedere alle università autonomia gestionale e la possibilità di autoregolamentarsi, formulando autonomamente gli ordinamenti didattici dei singoli corsi di laurea e di diploma. Precedentemente gli ordinamenti didattici erano fortemente rigidi e centralizzati: ciascun corso di laurea doveva adeguarsi alle tabelle ministeriali che indicavano le materie che potevano essere insegnate e la loro denominazione. Per poter introdurre dei cambiamenti, sottoforma di nuovi corsi di laurea e nuovi insegnamenti, le università dovevano ricorrere ad una lunga e faticosa procedura. Oggi invece la situazione è diametralmente opposta: le università possono istituire nuovi corsi di studio, stabilendone autonomamente la denominazione e i curricula, con il solo obbligo di mantenersi all’interno di un quadro standard nazionale. Più nello specifico, i contenuti indicati a livello centrale non possono superare i due terzi per ciascun curriculum, mentre il resto è

a disposizione delle scelte didattiche e culturali dei singoli atenei, chiamati ad emanare altresì i propri regolamenti didattici252.

Lo scenario delineato dal legislatore vede, quindi, il progressivo venir meno dei tradizionali ruoli amministrativi e gestionali del Ministero, che va invece assumendo la funzione, decisamente meno intrusiva, di governor253, cioè di organo di regolazione, di monitoraggio e di controllo del sistema universitario, affidando a quest’ultimo crescenti livelli di autonomia e responsabilizzazione, in un contesto di competizione virtuosa tra atenei. Invece di emanare dettagliati e coercitivi regolamenti, lo Stato cioè, si limita a delineare quel frame all’interno del quale i singoli atenei devono creare le condizioni per raggiungere gli obiettivi stabiliti a livello centrale. In altre parole, viene enfatizzata la capacità da parte dei singoli atenei di autoregolarsi, mentre agli organi centrali è affidato il compito di accertarsi dei risultati raggiunti, attraverso attività “meta-valutative”, cioè di valutazione delle attività di valutazione sviluppate dalle singole università254.

Pertanto, le università si trovano oggi ad operare in un contesto in cui

“è quindi lo Stato che crea una struttura che incentiva le università alla competizione, responsabilizzandole dal punto di vista finanziario e didattico, dando loro autonomia di scelta sia nei modi di investire i trasferimenti pubblici, sia nell’individuazione del contenuto dei corsi da offrire. Il centro del sistema deve essere capace di regolare la competizione, attraverso l’attento monitoraggio delle prestazioni dell’università, l’articolata valutazione del loro operato (con una coerente distribuzione degli incentivi e delle sanzioni), la periodica pubblicizzazione delle caratteristiche dell’offerta formativa e della qualità delle università”255

È questa una delle espressioni più evidenti di quel processo di trasformazione dell’agire pubblico che ha interessato la maggioranza dei paesi europei e che ha dato vita al concetto di Evaluative State256

, cioè

252 Emanuela Stefani, “Riforma della didattica universitaria in Italia. Gli atenei comunicano

il cambiamento”, in Rivista italiana di comunicazione pubblica, n. 11, 2002, pp. 122-129

253 Stefano Boffo, “Comunicare: come e perché”, in Universitas, n. 84, giugno 2002, pp. 9-

12

254 Stefano Boffo e Roberto Moscati, “Evaluation in the Italian Higher Education System:

many tribes, many territories…many godfathers”, in European Journal of Education, vol. 33, n 3, 1998, pp. 349-360

255 Gilberto Capano, L’università in Italia, Il Mulino, Bologna, 2000

256 Si è parlato in tal senso anche di passaggio da un interventionary state a un facilitatory

state. Lo stato sarebbe cioè passato da una funzione di regolamentazione ad una in cui gli apparati

amministrativi centrali definiscono una cornice all’interno della quale le istituzioni agiscono in relativa autonomia (Neave e Van Vught, 1991, citato in Peter Maassen, “Quality in European higher education: recent trends and their historical roots”, in European Journal of Education, vol. 32, n. 2, 1997, pp. 111-127)

“From a traditional ex ante regulation in the shape of established rules, practices and budget decisions, the State has moved to emphasise ex post

facto control. The focus lies on performance in relation to deliberately

formulated policy goals. The central idea is that if state agencies are provided with clearly formulated goals and a set of incentives and sanctions invoked in response to actual behaviour, efficiency will thereby increase. When emphasis shifts from rule production and rule adherence to goal formulation and performance control, evaluation becomes a core activity and thus changes the way the State goes about its business of governance”257

Emerge quindi da questo quadro uno scenario profondamente mutato rispetto alla realtà di pochi anni fa, ma caratterizzato allo stesso tempo, da una marcata tensione, per certi versi contraddittoria, tra spinte federaliste da un lato e centriste dall’altro. Se infatti da un lato la riforma è stata segnata dalla volontà di garantire livelli crescenti di autonomia alle università, dall’altro il ruolo giocato dallo Stato in questo nuovo assetto istituzionale è sicuramente diverso, ma lontano dal poter essere definito secondario: gli organi centrali, infatti, continuano ad esercitare un forte controllo da un punto di vista politico-amministrativo e finanziario, che si traduce in un sistema sì incentivante, ma in cui il potere di punire o premiare è più centralizzato che mai258. Rispetto alla situazione italiana, si è parlato in proposito di autonomia incompiuta259, e Capano ha evidenziato che,

“lo Stato riduce il controllo burocratico sulle procedure e sul contenuto delle decisioni universitarie, ma si assicura una consistente capacità di influenzare la dinamica e gli esiti del funzionamento del sistema, individuando l’insieme degli obiettivi sistemici da raggiungere e valutando le prestazioni delle singole istituzioni universitarie”260

La riforma però non ha cambiato il ruolo, tutt’altro che secondario, svolto dalle università nella nostra società, anzi, ha enfatizzato ancora di più la rilevanza sociale e pubblica dell’educazione secondaria:

“A major aim is then to raise the number of students and to produce candidates more efficiently, especially at the graduate level. The expectations of greater efficiency in producing research and candidates mean that the tasks of formulating production goals, the mobilising of resources and supporting incentive systems became crucial issues.”261

Ciò che distingue le università da altri enti con finalità educative è il rapporto inscindibile tra creazione di conoscenza e il suo trasferimento attraverso

257 Ivar Bleiklie, “Justifying the evacuative state: new public management ideals in higher

education”, in European Journal of Education, vol. 33, n. 3, 1998, pp. 299-316, (sottolineatura mia)

258 Ibidem

259 Roberto Cafferata, “L’università: potenzialità e limiti di una struttura dai legami deboli,

in Sinergie, n. 17, 1999, pp. 75-82

260 Gilberto Capano, op. cit. 261 Ivar Bleiklie, op. cit.

la didattica. Da un lato quindi si tratta di custodire e accrescere conoscenze e saperi attraverso la ricerca, e dall’altro diffonderli attraverso l’insegnamento. Da questo punto di vista quindi, la comunicazione è già l’essenza stessa di questa istituzione, perché è solo attraverso la generazione di flussi comunicativi che questa conoscenza può essere trasferita agli studenti, attraverso molteplici canali, dalla parola parlata, a quella scritta, dalle immagini, alle nuove frontiere dell’e- learning. Potremmo quindi affermare che la mission primaria dell’università è pura comunicazione, intesa come trasferimento e condivisione del sapere, confronto tra intelletti e discussione.

Questa mission distintiva delle università si declina in cinque funzioni essenziali svolte dalle istituzioni universitarie nella nostra società262, che la identificano come istituzione perfettamente coerente al dovere della pubblica amministrazione di rispondere all’interesse collettivo:

• La formazione culturale delle classi dirigenti.

• La formazione di elevate professionalità, attraverso la gestione di corsi di studio che rilasciano titoli formalmente riconosciuti dalla legge.

• L’ampliamento delle frontiere del sapere, attraverso l’attività di ricerca.

• L’impulso alla crescita del sistema produttivo attraverso il trasferimento di conoscenze.

• La riproduzione delle competenze didattiche e scientifiche necessarie alla propria perpetuazione, attraverso la formazione di nuovi dicenti e nuovi ricercatori.

Nonostante quindi la riforma abbia introdotto consistenti elementi di autonomia, che hanno portato molti studiosi a paragonare l’università ad un’azienda, questa continua a mantenere i connotati tipici delle istituzioni pubbliche, perché, in primo luogo, rispondente a profonde esigenze sociali e all’interesse collettivo, attraverso la produzione di beni immateriali, come la formazione, la ricerca, le professionalità:

“The universities role as a civil service agency is changing, rather than being weakened. The university is moving towards integration within a comprehensive public higher education system where civil service responsibilities will increasingly permeate the whole range of commitments to education and research at university level.”263

262 Marzio Strassoldo, “La struttura di governo e la gestione dell’università”, in Marzio

Strassoldo (a cura di), op. cit.

Ciò non toglie comunque che questo nuovo quadro legislativo abbia portato profonde conseguenze nelle modalità stesse di operare da parte degli atenei, a causa appunto dell’introduzione di elementi di gestione tipici dell’ambito aziendale privato.

In primo luogo, l’autonomia finanziaria ha imposto il miglioramento delle performance di efficienza e di efficacia degli atenei, spingendoli alla razionalizzazione dell’uso delle risorse e alla ricerca di nuove fonti di finanziamento, al di fuori dei tradizionali e pur sempre centrali, ma limitati, canali ministeriali264.

È risultato subito chiaro che la principale fonte di denaro per le università proveniva dagli studenti stessi. Ciò ha portato le università ad agire all’interno di un contesto sconosciuto fino a pochi anni prima, caratterizzato da una forte competizione tra le università stesse, sia dentro che fuori i confini nazionali, e tra le università e altri soggetti operanti nel campo della formazione, con l’obiettivo di attirare crescenti numeri di studenti nelle proprie aule, in quanto portatori diretti di risorse finanziarie, sottoforma di tasse e contributi, e indiretti, sottoforma di finanziamenti statali, direttamente proporzionali al numero degli iscritti. Da questo punto di vista,

“è la presenza stessa degli studenti a non essere più un fatto scontato – quasi che essi fossero dati in dotazione all’università – ma è piuttosto un obiettivo da raggiungere in competizione con altre sedi. Senza studenti non c’è università, perché sono i giovani,gli studenti i veri destinatari di tutto quello che viene fatto in qualsiasi unità organizzativa dell’Ateneo e, in definitiva, la stessa ragione di esistere della struttura accademica, che si assume la responsabilità dell’alta formazione attraverso la didattica e soprattutto attraverso al ricerca”265

Si è assistito inoltre ad un proliferare di nuovi atenei, fino a far registrare una qualche forma di offerta universitaria in poco meno del 90% delle province italiane266, e, all’interno degli stessi, di una crescita costante dell’offerta

264 Tra i Paesi dell’OCSE, l’Italia è il Paese che spende meno in istruzione superiore, sia

guardando la percentuale della spesa complessiva del PIL (0,9% contro una media del 1,5& degli altri Paesi), sia guardando la quota della spesa pubblica investita in istruzione universitaria (1,2% contro una media del 2,5% degli altri Paesi) (G. Capano, op. cit.)

265 Mario Merigo, “La qualità come orizzonte strategico per l’università”, in Sinergie, n. 48,

1999, pp. 211-215

266 Nel 1995 le istituzioni universitarie erano 55 in 42 città, nel 2000 erano 70 in 50 città,

nel 2003 erano 77, compresi gli atenei privati, distribuiti in 126 sedi (Simonetta Pattuglia, “Etica e qualità nella comunicazione delle università”, in Rivista Italiana di Comunicazione pubblica, n. 15, 2003, pp. 53-57; Alessandra Mazzei, “Finalità e strumenti di gestione della comunicazione delle università italiane”, in Sinergie, n. 59, settembre-dicembre 2002, pp. 161-183)

formativa, costituita da oltre 3200 corsi di diploma e di laurea267, la maggior parte dei quali di recentissima costituzione268. L’autonomia gestionale e finanziaria e la crescita esponenziale dei livelli di competizione tra gli atenei, ha portato quindi allo sviluppo di un’offerta diversificata e più specializzata, con l’obiettivo di connotarla, per quanto possibile, in maniera originale rispetto alla concorrenza.

2. Per un approccio di marketing relazionale alle