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Il gender come metafora principale del nostro tempo

Nel documento Il significare delladifferenza DONNE,UOMINI (pagine 183-192)

Irigaray: la passione della differenza

2. Il gender come metafora principale del nostro tempo

Alcune correnti del femminismo, in specie anglosassone, han-no teorizzato una società senza differenza sessuale, a partire da-gli stessi anni ’70. In generale, il femminismo che va sotto il nome di Gender Studies,7 mentre ha contribuito a sradicare – con il me-todo decostruttivo e poststrutturalista – anche i più sofi sticati in-ganni discriminatori portanti sull’identità e sulle pratiche sociali della sessualità, ha nondimeno spostato il dibattito dal sesso (dal-l’ancoraggio in un corpo sessuato) al genere come istituzione so-ciale8. La paternità di questo ragionamento è, come si sa,

foucaul-7 Rosi Braidotti avverte però che opporre il gender (per indicare il pensiero femmi-nista anglo-americano) alla differenza sessuale (come conquista della rifl essione fem-minile francese e italiana) risulta «ingiustamente globalizzante», anche a causa della «intrinseca opacità» e «intraducibilità» del termine gender (R. Braidotti, Il paradosso

del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender theories,

in Il fi lo di Arianna, La differenza non sia un fi ore di serra, pp. 15-34). Non mi impegno qui nella discussione critica delle proposte teoriche più accreditate in seno ai Gender

Studies (il soggetto eccentrico di Teresa De Laurentis, il nomadismo di Rosi Braidotti

o il post-gender di Donna Haraway), né dell’ultimo e speculativamente più raffi nato prodotto del femminismo americano, la queer theory di J. Butler, la cui densità e forza richiederebbero un intervento mirato e di ampio respiro che va oltre i limiti di questo breve saggio.

8 Il termine gender fu introdotto dal sessuologo di orientamento comportamentale John Money nel 1955 «in una condizione di diffi coltà prettamente semantica – vo-lendo rappresentare la formazione di un’identità sessuale (gender) univoca da parte di incroci sessuali, soprattutto ermafroditi, dai caratteri sessuali corporei (sex) poco chiari e contraddittori: un’identità che “contraddice” il sesso corporeo». «Dopo il 1968, da quando cioè Robert Stoller lo ha adattato alla psicoanalisi in Sex and Gender, esso ha conquistato abbastanza rapidamente la scena della psicoanalisi» (R. Reiche,

Genere senza sesso [2004], Meltemi, Roma 2007, p. 132). La distinzione sex/gender è

stata formalizzata nel pensiero delle donne dall’antropologa Gayle Rubin, la quale, nel 1975, prolungando il pensiero di Simone de Beauvoir, distingue fra il genere come categoria sociale, in qualità di codifi cazione sociale delle differenze sessuali, e il sesso biologico, collocato dalla parte della natura. Come ricorda Braidotti, nella sua ricostruzione del concetto di gender, «per Rubin sia la nozione di corpo che quel-la di differenza sessuale sono considerate pericolose in quanto intrise di preconcetti patriarcali. La differenza è segno dell’inferiorità gerarchica del femminile sulla scala ontologica dell’essere e deve venire eliminata in quanto tale. L’obiettivo è quindi di de-naturalizzare le differenze che sono fonte d’ineguaglianza, sottolineando il ruolo giocato dalla cultura nella creazione di questo stato di cose, affi nché le donne abbia-no accesso alla soggettività» (Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”,

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tiana9: se il soggetto è costruito dal discorso e se il discorso è pro-dotto dalle istituzioni che esercitano il potere (famiglia, scuola, ospedale, carcere...), ne segue che il soggetto è costruito, anche in rapporto al suo desiderio e alla sua sessualità, in funzione del-le strutture di potere (e deldel-le loro pratiche normative) che getta-no la loro ombra su ogni processo di identifi cazione, anche e for-se proprio a partire da quella for-sessuale. La differenza stessa diven-ta funzionale ai meccanismi coercitivi che imbavagliano la libera e giocosa sperimentazione in nome di una sicurezza depersonaliz-zante e circoscritta alla polarità maschile/femminile. La differen-za è perciò fatta tramontare in nome di una post-differendifferen-za, in cui essa scivola dallo statuto di evidenza a quello di questione, pre-cipitando, come detto, all’interno di una categoria culturalmen-te costruita (e perciò da decostruire). Ebbene, questi culturalmen-tentativi di decostruzione del sesso e della sua riconfi gurazione in un perfor-mativo10, cioè in un genere discorsivo che si autoproduce, hanno certamente il merito di allertare la coscienza critica mediante la condanna di stereotipi e generalizzazioni11 e l’affermazione della

p. 22). Cfr. anche G. Rubin, The Traffi c in Women: Notes on the ‘Political Economy’ of Sex, in R. Reiter (ed.), Towards an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975. La decostruzione della differenza come complice del sistema dualistico della metafi sica occidentale e l’abolizione della donna come «categoria globalizzante e discriminatoria» accomuna, pur nei differenti accenti, anche le costruzioni teoriche delle già citate De Laurentis, Haraway, Braidotti.

9 Cfr. M. Foucault, Storia della sessualità, vol. I, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1984.

10 Scrive Judith Butler: «Il tal senso, il genere è sempre un fare, anche se non un fare da parte di un soggetto che può essere defi nito come preesistente all’azione. Per ripensare la categoria del genere fuori della metafi sica della sostanza sarà necessario ricordare la pertinente affermazione di Nietzsche in Genealogia della morale : “Non esi-ste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; ‘colui che fa’ non è che fi ttiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto”. In un’applicazione che forse Nietzsche non avrebbe previsto né tollerato, potremmo asserire come corollario: non vi è alcu-na identità di genere al di sotto delle espressioni di genere; quell’identità è perfor-mativamente costituita dalle stesse “espressioni” che, si dice, ne sono il risultato» (J. Bulter, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio [1990], Sansoni, Milano 2004, p. 33).

11 Come ricorda Jessica Benjamin, dalla critica femminista e dalla teoria psicoanalitica contemporanea, a partire dagli anni ’90, si ricavano «molte intuizioni interessanti sulla strutturazione della differenza sessuale al di fuori del modello edipico. Tali in-tuizioni ampliano la nostra potenziale comprensione delle molteplici identifi cazioni ed esperienze, consce e inconsce, che esulano da un concetto rigido di identità» (J. Benjamin, Uguaglianza e differenza: una visione “iperinclusiva” dello sviluppo del genere, in M. Dimen - V. Goldner [a cura di], La decostruzione del genere. Teoria femminista,

cultu-ra postmoderna e clinica psicoanalitica [2002], il Saggiatore, Milano 2006, p. 178).

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complessa azione di modellamento identitario da parte delle for-me sociali della cultura e del simbolico. E tuttavia, essi rischiano il viraggio verso la de-sessualizzazione e la disincarnazione dei sog-getti12. Mi spiego. Non esiste, per queste posizioni, un legame sta-bile fra le identità discorsive e la datità corporea, al punto che il corpo stesso è una produzione sociale e politica interamente istitui-ta dal discorso: superfi cie discorsiva la cui materialità «è costruiistitui-ta attraverso una ripetizione ritualizzata di norme»13. Si tratta allora per la queer theory di infrangere la stabilità dicotomica dei sessi (in-tesa come fonte di oppressione intrapsichica e intersoggettiva), insieme alla posizione eterosessuale (detta essenzialista), in favore di pratiche di emancipazione che modulano il genere in un gioco di combinazioni possibili, dai contorni porosi e disponibili a solu-zioni miste e a identità multiple o ibride14. Tuttavia, se «non vi è alcuna identità di genere al di sotto delle espressioni di genere», vale a dire se si fa del sesso e della sessualità una semplice pratica

Nancy Chodorow, in modo simile, afferma «la complessità, la rilevanza contestuale e variabile» dei signifi cati di genere nella psiche dell’individuo, i quali vengono rimo-dellati, per tutta la vita, a partire dall’esperienza del sé, della propria realtà interna emotiva e fantastica e della propria storia psicologica narrata in senso attivo e psico-dinamico (cfr. N. Chodorow, Il genere come costruzione personale e culturale, in Dimen - Goldner, La decostruzione del genere, pp. 225-244).

12 Butler arriva a defi nire il genere stesso come un «artifi cio privo di legami»: di conseguenza uomo e maschile si adatterebbero tanto a un corpo di uomo quanto a uno di donna; lo stesso vale per donna e femminile, che potrebbero designare tanto un corpo femminile quanto uno maschile. Ma già Rosi Braidotti così scriveva in rife-rimento alla tematica del postumano della Haraway: «Il maschile e il femminile non sono dunque più suffi cienti come poli di pensiero a racchiudere l’orizzonte della differenza: altri modelli più complessi sono entrati in campo ed essi ridisegnano, sotto i nostri occhi stupiti, sia la struttura dell’umano sia quella della sessuazione» (R. Braidotti, Conclusioni, in Il fi lo di Arianna, La differenza non sia un fi ore di serra, p. 68). La nuova frontiera non sarebbe più, in questo caso, quella tra uomini e donne, ma tra «l’umano e l’inorganico». «L’artefatto, il simulacro, lo spazio virtuale sono i parametri di una nuova soggettività, innalzati sulle rovine dell’edifi cio metafi sico» (Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”, p. 30).

13 «Non si può dire che i corpi abbiano un’esistenza signifi cabile prima della marca del genere» (Butler, Scambi di genere, p. 12).

14 Dire che il genere è un performativo signifi ca, secondo Butler, «che non c’è un genere che viene “espresso” per mezzo di azioni, gesti o parole, ma che è la performa-zione del genere a produrre retroattivamente l’illusione che ci sia un nucleo interno di genere. […] il genere è il prodotto di una ripetizione ritualizzata di convenzioni, e [...] questo rituale è socialmente imposto, in parte dalla forza di un’eterosessualità ob-bligatoria» (J. Butler, Melanconia di genere/identifi cazione rifi utata, in Dimen - Goldner,

La decostruzione del genere, p. 42).

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discorsiva, priva di corrispettivo ontico15, l’esito è, come anticipa-to, la riduzione della corporeità sessuata a «costruzione parodisti-ca» e «formazione immaginaria»16. Ma se il sesso, ridotto a gene-re, diventa niente altro che una «posizione all’interno del discor-so», un «punto di vista», «assoggettato ai molteplici e contraddit-tori discorsi della cultura e della famiglia»17, è evidente che si con-danna il soggetto a un continuo e interminabile processo di de-individualizzazione.

Avanzo, rinviando l’articolazione a un’altra sede, alcune riser-ve intorno a questo nucleo tematico del femminismo statuniten-se. Il pensiero post-femminista, avverte del resto anche A. Tourai-ne, incorre nel rischio di restare confi nato in un ambito accade-mico, imbrigliato in dibattiti teorici che non corrispondono al-l’esperienza storica delle donne18. L. Layton fa inoltre notare co-me le teorie postmoderne – negando l’esistenza di una qualun-que identità del soggetto (non distinguendo, cioè, fra l’identità

15 «Il genere – scrive per esempio Butler – è una sorta di recitazione persistente credu-ta reale» (Butler, Scambi di genere, p. XXXVI). Le cose, del resto, non vanno meglio per il sesso: «La costruzione chiamata “sesso” è culturalmente costruita quanto il genere; anzi, forse è sempre già genere, con la conseguenza che la distinzione tra sesso e genere si rivela non essere affatto una distinzione» (ibi, p. 10).

16 «Se consideriamo che il genere viene acquisito, che viene assunto in relazione a ideali che in fondo non appartengono a nessuno, allora la femminilità è un ideale che si può sempre e solo “imitare”. Dunque, il drag imita la struttura imitativa del genere, rivelando come il genere stesso sia un’imitazione» (Butler, Melanconia di

gene-re/identifi cazione rifi utata, p. 43). «L’uomo etero diventa (mima, cita, fa suo, ne assume

lo status) l’uomo che non ha “mai” amato e di cui non ha “mai” pianto la perdita; la donna etero diventa la donna che non ha “mai” amato e di cui non ha “mai” pianto la perdita. È in questo senso, allora, che ciò che viene performato più visibilmente come genere è il segno e il sintomo di un pervasivo disconoscimento» (ibi, p. 46).

17 L. Layton, Soggetti di genere e agenti di genere: per un’integrazione della teoria postmoderna e

della pratica analitica relazionale, in Dimen - Goldner, La decostruzione del genere, p. 281.

18 Le donne «a differenza di quanto sostengono molte studiose che parlano di loro o a loro nome, non credono affatto nella necessaria sparizione dell’identità femminile, non si considerano vittime (anche quando hanno subito ingiustizie e violenze), sono in grado […] di elaborare progetti positivi e desiderano vivere una vita trasformata da loro stesse». Il loro punto di partenza è espresso dall’affermazione: «Io sono una donna». «Contrariamente a un’opinione diffusa, la coscienza di essere donna non è diretta contro gli uomini e neppure contro l’una o l’altra forma di relazione tra uomini e donne». «“Io sono una donna” vuol dire: “donna, ho il diritto di essere una donna e di dare a questa fi gura il contenuto da me scelto. Questa scelta è una prova della mia libertà, della mia capacità di defi nire me stessa, di adottare certi comportamenti e di formulare, sempre a partire da me stessa, un giudizio su di essi”» (A. Touraine, Il mondo è delle donne [2006], il Saggiatore, Milano 2009; cit. rispettiva-mente pp. 26-27, 33 e 36).

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relazionale e quella autoriferita che espunge l’alterità o quella del falso sé che si presta al gioco manipolatorio delle aspettative socia-li) – non tengono conto dell’esperienza clinica, la quale rivela co-me la framco-mentarietà e l’instabilità abbiano un costo psichico ed esistenziale non trascurabile. Il concetto clinico di integrazione in un sé unifi cato, per contro, un sé che evolve e si modifi ca, pur ri-manendo in qualche modo individuabile e riconoscibile, rimane un obiettivo terapeutico19.

Mi pare poi che, nella concezione del genere come artifi cio e del corpo o della differenza sessuale come atti recitati, il soggetto dell’esperienza risulti come risucchiato tout court nelle dinamiche di potere, venendo socialmente determinato e fatto ruotare intor-no alla convenzionalità dell’ordine sociale; rischiaintor-no così di esse-re annullati, per un siffatto soggetto, tanto il suo posizionamento a partire da un corpo con tutto il suo equipaggiamento emotivo-cognitivo, quanto la possibilità di de-situarsi rispetto a ogni con-tenuto possibile. Si disegna, da un lato, una forma di determini-smo sociale che solo la ribellione politica, nelle forme del travesti-mento e della devianza, potrebbe provare a incrinare, senza mai riuscirci del tutto; dall’altro una totale de-individualizzazione del soggetto, scisso in posizioni molteplici e contraddittorie e conse-gnato all’oscillazione fra impotenza ed enfasi, soggezione e resi-stenza caricaturale. Ne segue dunque uno svuotamento del sog-getto che resta, esso pure, un’apparenza e un effetto del discor-so, fosse anche di quello rivoluzionario (corpo e differenza sono performativi, ricordiamolo). Vi sarebbe allora una completa do-minanza della struttura sociale (convenzionale o rivoluzionaria) sul processo di individuazione, intendendo per esso tanto l’accet-tazione della datità corporea, quanto la capacità di sporgere su-gli stessi vissuti, assegnando loro un senso personale e contrattan-do continuamente fra datità e discorso. Se nulla può sfuggire alle tecnologie del sapere e del potere – né genere, né differenza

ses-19 «Infatti, i clinici ritengono che coloro che non hanno la convinzione netta di essere maschi o femmine, solitamente non godono di quell’identità fl uida che i postmo-dernisti propongono come ideale, ma, al contrario, spesso odiano se stessi e sono tormentati dalla vergogna. La fl uidità dell’identità è un risultato desiderabile, ma il lavoro clinico suggerisce che la fl uidità si acquisisce, non è data, e che il suo consegui-mento presuppone l’esperienza di un’identità di genere nucleare» (Layton, Soggetti

di genere e agenti di genere, p. 280). Cfr. anche M. Rivera, Collegare lo psicologico e il sociale: femminismo, post-strutturalismo e personalità multipla, in Dimen - Goldner, La decostruzio-ne del gedecostruzio-nere, pp. 298-312.

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suale, né corpo, né carne –, allora il soggetto non potrà che esse-re condannato a un peesse-renne lavoro di disfacimento del tessuto so-ciale e dell’identifi cazione personale, per rivendicare quei ‘resti’ di libertà che sfuggono alle «recite ripetute e obbligate dei codi-ci dominanti»20.

Ma torniamo ora alle spinte verso l’indifferenza sessuale che oggi si incontrano in letteratura e non solo. Robert Connell, sociologo ad Harvard, guarda con sospetto alla differenza sessuale, cui attri-buisce il difetto di naturalizzare le differenze fra uomini e donne. Riporta così la differenza a un riduzionismo biologico che esclu-de le più diverse confi gurazioni esclu-dell’organizzazione sociale odier-na. Staccare il genere dalla «base biologica» per plasmarlo e ripla-smarlo nell’arena sociale – «tutto ciò che riguarda il genere, insi-ste Connell, è storicamente determinato»21 – apre la strada al suo stesso autotoglimento, potendo il genere venire «disfatto, altera-to, o reso meno importante». «Questa prospettiva, egli aggiunge, consente di pensare che il genere possa un giorno avere una fi -ne»22.. Si toglierebbe così la causa dell’oppressione delle donne – per lo più penalizzate dal simbolismo dicotomico dei generi – la-vorando alla decostruzione della differenza naturale 23. Il rapporto fra corpo e società è allora rovesciato, perché in una data realtà so-ciale – sostiene Connell, cedendo così all’opposto riduzionismo rispetto alla prospettiva meramente biologicista – l’organizzazio-ne di gel’organizzazio-nere «precede i corpi stessi, strutturando le condizioni in

20 L. Mambrini, Il femminismo contemporaneo, in P. Francesconi (a cura di), Una per una.

Il femminile e la psicoanalisi, Borla, Roma 2007, p. 116.

21 R.W. Connell, Questioni di genere (2002), Il Mulino, Bologna 2006, p. 127.

22 Ibi, p. 41. Del resto, questa posizione è stata già sostenuta dalle teoriche del

femmi-nismo anglosassone. Paradigmatica, nella sua impressionante radicalità, la seguente affermazione di Shulamith Firestone «Lo scopo defi nitivo della rivoluzione femmini-sta non deve essere semplicemente quello di porre fi ne al privilegio maschile, bensì quello di porre fi ne alla distinzione stessa dei sessi» (La dialettica dei sessi: autoritarismo

maschile e società tardo-capitalistica [1970], Guaraldi, Firenze 1971, p. 7).

23 «Le relazioni di genere potrebbero essere estinte con un deliberato processo di annullamento del genere, in cui il campo d’azione della struttura di genere fosse espressamente ridotto a zero. È possibile ritrovare una logica di questo tipo in alcu-ne strategie femministe dei nostri giorni, come le politiche sulle pari opportunità e contro la discriminazione. […] Per quanto irrealistica, tuttavia, una società senza genere rimane un punto di riferimento concettuale importante per poter pensare al cambiamento» (Connell, Questioni di genere, p. 131).

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cui essi vivranno e si svilupperanno»24, secondo quattro dimensio-ni che orientano l’agire sociale: le relaziodimensio-ni di potere e quelle di produzione (la divisione del lavoro), le relazioni emotive (la ses-sualità) e quelle simboliche. Il sociologo ravvisa una contraddizio-ne interna all’assetto sociale dominante, consistente contraddizio-nella scissio-ne fra la subordinazioscissio-ne delle donscissio-ne, ancora presente in ambito privato come nel mondo del lavoro, e i proclami di uguaglianza astratta operanti nella sfera della cittadinanza e del mercato. Que-sta «tendenza di crisi» metterebbe sotto pressione la struttura so-ciale di genere, obbligandola a un rapido cambiamento. Occor-rerebbe a questo punto far leva sull’uguaglianza, togliendo la di-sparità delle condizioni di accesso al discorso. Come detto, il to-glimento della disparità viene a coincidere con il toto-glimento del-la differenza, in un mondo senza generi e dove ciascuno è gene-re a se stesso, per l’avvenuta consumazione del legame fra corpo e identità relazionale.

Anche Umberto Galimberti, nel suo ultimo libro, mette in di-scussione la differenza sessuale; lo fa non tanto a causa del ridu-zionismo naturalistico, a cui sarebbe riconducibile (è l’ambivalen-za sessuale, infatti, egli dice, e non già l’appartenenl’ambivalen-za a un sesso, a essere iscritta nel corpo di ogni soggetto), ma in quanto «effetto della produzione sociale»25, essendo la distinzione maschile/fem-minile il principio d’organizzazione a partire dalle società primiti-ve e la condizione di possibilità del contratto sessuale e sociale tut-tora vigente. Eppure, egli continua, da più parti il regime di gene-re viene oggi attaccato, divenendo operante «l’esigenza di gene- reperi-re, per la lettura della nostra società che si ritiene complessa ed evoluta, qualcosa di meno elementare e primitivo della differenza sessuale»26. Perché, nella differenza fra il corpo dell’uomo e quel-lo della donna, sta la radice del dominio del maschio sulla

fem-24 Ibi, p. 74. «Il genere è qualcosa che si fa concretamente, e che si fa nella vita

socia-le; non è qualcosa che esiste prima della vita sociale stessa, o al di fuori di essa» (ibi, p. 108). Cfr. anche C. West - D. Zimmerman, Doing gender, «Gender and Society», 1 (1987), pp. 125-151.

25 U. Galimberti, Il mito dell’identità sessuale, in Id., I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 23-43.

26 Ibi, p. 27. «Oggi che l’emancipazione femminile ha confuso gli scenari viene a galla

un’altra verità: che i sessi sono meno diversi di quanto si pensi, anzi tendono a

Nel documento Il significare delladifferenza DONNE,UOMINI (pagine 183-192)