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Lavorare radicalmente *

Nel documento Il significare delladifferenza DONNE,UOMINI (pagine 163-181)

«Da un po’ di tempo, [...] la Belleli attraversa una crisi fi nanzia-ria senza precedenti. Una crisi che per certi versi può essere para-gonata ad una folta coltre di nebbia nella quale operai, impiega-ti, sindacalisti e perfi no dirigenti sembrano sguazzare annaspan-do qua e là. In questa bolgia dantesca, la fi gura che meno degli al-tri riesce a vedere quale possa essere la strada giusta da intrapren-dere è l’operaio. L’operaio non riesce, nemmeno attraverso dele-gati nominati e votati appositamente, a far sentire la propria an-sia, le proprie preoccupazioni e considerazioni, e a far emergere i propri giudizi»1.

Questa è la testimonianza che un giovane lavoratore sull’orlo del licenziamento ha letto, tra le lacrime, in un’assemblea. Egli era tra i favorevoli allo sciopero fi no al blocco della produzione, contro la linea sindacale più morbida e colloquiale. Per sostenere la sua inclinazione, che vede farsi estrema, termina dicendo: «So-no del parere che tutto ha un prezzo e per far sì che quest’azien-da continui a vivere tutti noi dobbiamo essere pronti a pagare»2. In una lettera scritta a un quotidiano nazionale, una donna di Modena che lavora da quarant’anni, fa l’operaia alla catena e non può andare in pensione perché non le sono stati versati con-tributi per dodici anni, scrive che si sente «in balia del vento»3.

* Questo testo è stato pubblicato per la prima volta nel volume: AA.VV., La rivoluzione

inattesa. Donne al mercato del lavoro, Nuova Pratiche, Milano 1997, pp. 85-105.

1 Anonimo, La crisi è una nebbia e noi ci stiamo perdendo, «La Gazzetta di Mantova», 14 ottobre 1995. La Belleli è una grande fabbrica metalmeccanica alle porte di Man-tova.

2 Ibidem. Le sorti della Belleli e dei suoi operai sono state segnate da numerosi proces-si cui sono stati sottoposti alcuni componenti della famiglia proprietaria che hanno trascinato la fabbrica alla bancarotta. La Belleli del 1995 non esiste più [nota di A. Buttarelli aggiunta per questa riedizione del suo saggio].

3 Rubrica Lettere, «l’Unità», 4 novembre 1995.

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In queste testimonianze si riescono a leggere, abbastanza limpi-damente, alcuni segni che danno un tratto epocale e doloroso al presente. Nella bolgia dantesca descritta dall’operaio non si di-stinguono più i classici ruoli sociali e lavorativi cui lo aveva abi-tuato la cultura della fabbrica; nella bolgia Dante aveva condot-to i rei di frode e, nella testimonianza del giovane, c’è la dispera-zione di chi è frodato di signifi cati, di orientamento e di ordine. Sarebbe disposto a pagare duramente pur di rivivere la forza di lotta che viene dalla condizione operaia e che, paradossalmente, lui fa coincidere con le chances di sopravvivenza della sua fab-brica. Ma le trattative tra sindacati e azienda sono in linea con le procedure conciliative tipiche di questi tempi e preferiscono as-secondare le ristrutturazioni e le agonie delle complesse logiche di conduzione aziendale. Non comprendendo queste procedure lui si sente ricacciato nella nebbia. La nebbia e la polvere solle-vate dal vento evocato dall’operaia, che avvolgono un paesaggio quasi calmo e immobile, dopo che qualcosa è crollato fragorosa-mente: non ci sono più classi cui è affi dato il compito di liberare la società a nome del bene dell’umanità; rimane la condizione operaia nella durezza concreta del suo persistere oggi, ma senza ordine simbolico, senza parole, senza un orizzonte di senso che la lunga epoca delle ideologie aveva messo a disposizione di chi voleva cambiare 1a realtà.

Un’intera cultura, che si aggregava attorno al lavoro sala-riato come centro ordinatore dei legami sociali, non esiste più e il suo disfarsi lascia senza parole coloro che, stando immer-si nelle contraddizioni della fabbrica, sapevano costruire sape-ri e lotte utili per migliorare la condizione umana, non solo la loro propria.

Tuttavia, anche se le parole faticano ad arrivare in bocca agli operai, spesso si rinviene, sorprendentemente, in chi resta a lavo-rare in fabbrica una lucida capacità di intervenire sulle emergen-ze della realtà, sottraendosi a suggestioni catastrofi che, alla dispe-razione o all’indifferenza. Prendo un esempio tra alcuni che pas-sano sui quotidiani: «In cambio dell’assunzione di otto disoccupa-te, le 40 dipendenti delle “Confezioni tessili” rinunciano alla mag-giorazione per la fl essibilità, si rendono disponibili a coprire il fabbisogno di manodopera derivante da esigenze stagionali e rin-viano di sei mesi l’applicazione del nuovo contratto per la parte riguardante gli aumenti salariali. [...] Ogni operaia perderà circa

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250 mila lire»4. C’è un contrasto doloroso tra la velocità, l’imme-diatezza dell’agire di queste operaie e la paralisi dell’operaio che piange incastrato dalle mediazioni astratte operate per via istitu-zionale, sia pure dai sindacati. È preso da una specie di cupio dis-solvi che gli suggerisce: sta morendo la tua fabbrica, muori anche tu, in un abbraccio che dice tutta la sua identifi cazione con il la-voro. Nell’esempio delle operaie tessili spunta una forma di civil-tà che permette un rapporto più leggero con il lavoro, un po’ più distaccato e nello stesso tempo più diretto, non bisognoso di trop-pe mediazioni istituzionali. Questa forma di civiltà che ha il segno femminile fatica però a farsi strada nei media per arrivare in aiuto a quelli che continuano a vivere la durezza del lavoro nelle fabbri-che, una fatica amplifi cata dal dissolversi della cultura del lavoro operaio, che caratterizza il cosiddetto postfordismo.

Tra le caratteristiche del postfordismo viene indicato lo sposta-mento dei confl itti all’interno dei rapporti, a causa della caduta della centralità della fabbrica e del prevalere della tecnologia in-formatizzata che favorisce il decentramento e l’individualizzazio-ne del lavoro. Non bisogna dimenticare però che, se è vero che il tramonto della fabbrica fordista porta con sé il tramonto di una certa forma politica di gestione del confl itto, praticata dai sinda-cati, rimane tuttavia la condizione del lavoro operaio e di manova-lanza, di donne e uomini, e che magari questa condizione può di-ventare ancora più dura di quanto sia stata fi no a oggi. Quali con-fl itti sociali nasceranno, stanno nascendo? Quali parole si stanno trovando? Come fare per vedere insieme ciò che diviene più uma-no e ciò che invece si sta disumanizzando? La testimonianza del lavoratore che, per sfuggire alla confusione, è disposto ad anda-re alle radici della sua condizione, mettendo a rischio tutto pur di guadagnare il senso della sua dignità, invita a non dimentica-re che molti uomini persistono nell’identifi cazione profonda con il lavoro in fabbrica perché questa è vissuta come luogo di eman-cipazione, di solidarietà, di legami sociali5. Proprio per questo, la

4 P. Branca, Straordinari gratis ma assumete otto disoccupate, «l’Unità», 3 aprile 1996.

5 La fi losofa francese Dominique Méda ha scritto un consistente volume per docu-mentare la sua ipotesi che il bisogno di lavorare sia stata un’invenzione necessitata sto-ricamente dal fatto che la modernità ha dovuto trovare un valore assoluto (il lavoro, appunto) che desse forma ai legami sociali. Tutto questo a favore dell’economia e a spese della politica che, seconda Méda, è scomparsa dalla società. La politica do-vrebbe tornare a essere all’origine del legame sociale e soppiantare l’economia come

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società ‘esterna’ alla fabbrica sembra essere, per questi uomini un antagonista, un luogo non ancora civilizzato.

Anche un’altra istanza radicale induce a pensare che, da parte maschile, ci sia la rappresentazione della società come luogo non ancora civilizzato. Quest’idea viene dalla rifl essione appassiona-ta di Edgar Morin, fi losofo e sociologo francese, il quale da tem-po non fa che impegnarsi a parlare dell’assoluta necessità di una riforma del pensiero che, così com’è, occupa «il cuore della tra-gedia»6 contemporanea. Riformare il pensiero coincide, per lui, con il riformare la civiltà occidentale nata e cresciuta «sul parrici-dio»7, cioè sullo scatenarsi della potenza, della forza, della dismi-sura del potere che aggredisce anche i legami più prossimi. Qua-le strada seguire per disfarsi dei vari disordini mondiali, primo fra tutti quello economico, per disfarsi dell’idea di progresso, per ot-tenere l’autentica «ominizzazione», cioè l’uscita dal «sottosvilup-po mentale»8 che è anche dei cosiddetti sviluppati?

Morin propone di andare verso un aldilà dello sviluppo, cioè di non rinnegare lo sviluppo, ma di coniugarlo a «un ritorno verso l’origine o il prima del mondo, immersione nella profondità del-l’essere, introiezione quasi fetale in un beatifi co bagno amniotico, immersione nella natura, rientro nei miti, ricerca senza fi ne»9 ecc. Per Morin si tratta di ominizzazione, non di umanizzazione, e di-fatti in Terra-Patria non si fa mai cenno alle donne. Si tratterebbe, dunque, per lui, di diventare maschi autocoscienti, che si servono dei risultati dello sviluppo cessando di essere sottosviluppati. Però i termini della proposta di Morin, derivati da un profondo ascolto del nostro tempo, conducono a immagini ed esperienze che sug-geriscono che nessun processo di rinnovamento sarà possibile se

luogo centrale del discorso pubblico. Questa tesi, molto interessante, ha il notevole limite di non confrontarsi con il differente rapporto al lavoro che uomini e donne intrattengono, anche semplicemente a partire dalla storica divisione del lavoro stesso. Cfr. D. Méda, Società senza lavoro, tr. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 1995, 19962.

6 E. Morin - A.-B. Kern, Terra-Patria, tr. it. di S. Lazzaro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 171. In questo volume il nome di Edgar Morin è stampato in carat-teri grossi il doppio rispetto a quello di Anne-Brigitte Kern, che sul dorso sparisce. Interpreto questi fatti come indicazione della maggiore responsabilità nella stesura del volume da parte di Morin.

7 Ibi, p. 8.

8 Ibi, p. 107.

9 Ibi, p. 108.

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non si ritrova il contatto con la madre, anche se questa viene indi-cata come «origine» mitica.

Il senso della necessità di riguardare verso la madre conferma l’attuarsi di quel fenomeno oggi di frequente riassunto nella for-mula «femminilizzazione della società», fatto che possiamo salu-tare con sollievo se si riferisce alla presenza più diffusa e autore-vole di pensieri e azioni di donne. Questa formula si accompagna a un’altra, coniata da una teorica femminista americana, Donna Haraway, che parla di «femminilizzazione di massa del lavoro»10. Il riferimento è allo scenario che si sta presentando nel mercato delle occupazioni in grado di assorbire quelle tradizionalmente svolte (pagate o meno) da donne: «Si riduce il lavoro di tipo in-dustriale, aumenta quello comunicativo-relazionale, intellettualiz-zato»11. In riferimento a questo scenario, Iaia Vantaggiato avanza la preoccupazione che si arrivi a un rinnovato sfruttamento del la-voro femminile12.

Di fronte al presentarsi di questo problema penso che occorra tenere presente che i due fenomeni della cosiddetta femminiliz-zazione non sono totalmente sovrapponibili tra loro, la prima ri-ferendosi alla formazione di simbolico (quella adombrata in Mo-rin), di nuovi linguaggi e nuova cultura, la seconda a mutamen-ti di carattere più propriamente economico-sociale (nuove mutamen- tipo-logie di lavoro). Certamente, le due femminilizzazioni sono lega-te tra loro e, in certo senso, possono aiutarsi a vicenda nell’affer-marsi perché se, da parte della società, c’è più ascolto delle paro-le di donne, anche il lavoro svolto tradizionalmente da loro può essere tolto dalla muta fattualità e diventare a sua volta produttivo di pensieri, di saperi, di ordine simbolico non sradicato dall’ori-gine femminile.

Ma, per potere scrivere così positivamente come faccio, occor-re aveoccor-re una buona opinione di quanto sono in grado di faoccor-re le parole sulla realtà. La preoccupazione con cui Iaia Vantaggiato saluta l’avvento della femminilizzazione del lavoro sotto la forma del prevalere delle competenze relazionali, del linguaggio come

10 Donna Haraway, docente di History of Consciousness all’Università di Santa Cruz (California), è nota in Italia per il suo Manifesto Cyborg, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995.

11 P. Tavella, Quanto è vivo il lavoro domestico, «Noi donne», 5, maggio 1995, p. 20.

12 I. Vantaggiato, La “femminilizzazione” del lavoro, in AA.VV., Stato e diritti nel

postfordi-smo, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 47-62.

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strumento di lavoro, è condivisa, per altre ragioni, da chi prati-ca un’area di pensiero di ispirazione marxista nella quale si vede come un ulteriore grave problema il prevalere delle richieste di competenze comunicative nel mercato della forza-lavoro. Il cen-tro di questo problema consiste nel fatto che il linguaggio sareb-be ormai ridotto esclusivamente a merce. La lingua diventerebsareb-be un puro utensile che sostituisce, oggi, la pressa o la gru: «Nel mo-do di produzione postfordista le qualità intellettuali, i pensieri, i linguaggi, le capacità comunicative, tutte quelle facoltà comuni ac-quisite da ciascuno in virtù del proprio vivere in società, concor-rono a defi nire la forza-lavoro prima di entrare direttamente nel processo di produzione e di valorizzazione del capitale»13. Chri-stian Marazzi considera situato nella società l’apprendimento del linguaggio e delle espressioni comunicative, astraendolo dalla re-lazione originaria madre-fi glia-fi glio dove, in realtà, avviene. In quella relazione originaria la madre insegna a parlare e a comu-nicare non per preparare un lavoratore o una lavoratrice ma, in-nanzitutto, per rendere capace di mondo l’essere umano che ha fatto nascere.

Insomma, la madre parla alle fi glie e ai fi gli per dare una liber-tà che non prevede la riduzione del linguaggio a merce. Mante-nere questa radice aiuta a uscire dal circolo vizioso innescato dal-l’idea della parola in vendita nel mercato del lavoro, che trascina il progetto di formare «comunità extra-linguistiche»14 per riotte-nere libertà. Permette anche di guardare con più favore e positivi-tà all’ingresso nel mondo del lavoro di ciò che caratterizza abilipositivi-tà o preferenze femminili (la comunicazione) e aiuta a mantenerle nella necessaria radicalità.

Credo comunque che le due femminilizzazioni abbiano a che fare con l’esempio dell’operaio e dell’operaia confusi e immer-si in una criimmer-si che va oltre la loro azienda e le loro vite e confl ui-sce nella crisi più generale di quella che è (stata?) la società del-le merci. Il loro lavoro in fabbrica è ancora interno a questo tipo di società che, tuttavia, sta perdendo monolitismo e primato, se è vero che il mercato del lavoro sta indirizzando le aspettative ver-so occupazioni che non producono merci: tra le altre, quelle

ap-13 C. Marazzi, Produzione di merci a mezzo di linguaggio, in AA.VV., Stato e diritti nel

po-stfordismo, p. 12.

14 Ibi, p. 27.

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punto la cui frequentazione è storicamente femminile. Ma c’è an-che un altro legame più profondo, an-che desidero indicare serven-domi della lettura di Robert Kurz, teorico della politica che pre-vede la fi ne imminente del capitalismo correlandola alla fi ne del comunismo. Ambedue i regimi, l’uno basato sul mercato, l’altro sullo Stato, hanno un’identica forma di «socializzazione della mo-dernità»15: si basano sul sistema del lavoro astratto, cioè sul lavo-ro che si incarna nella merce e nel valore, posto che il valore di una merce (e il suo prezzo) è, nell’economia classica, la quanti-tà di lavoro necessario a produrla. Addirittura, secondo Kurz, se il socialismo fosse riuscito a imporsi, qualifi candosi come «società dei produttori»16, sarebbe stato il vero fondamento di una socie-tà delle merci, candidandosi a generalizzare universalmente l’esi-stenza operaia. Se anche mai abbia avuto qualche senso, è palese che oggi l’equazione tra lavoro e valore non regge, anche a cau-sa di quello che Marx chiamerebbe automovimento del denaro o anche a causa di quantità enormi di lavoro morto, rappresentato in cose inutili, inutilizzabili, demolite prima ancora di essere ac-quistate o immesse sul mercato. Kurz si dice sicuro che «i confl itti interni alla modernità e i loro portatori polarizzati e dualisti si so-no esauriti. Lavoro e capitale, liberalismo e socialismo, realismo e fondamentalismo non stimolano più prese di posizione, visto che la barbarie è diventata la loro identità comune»17. Ma Kurz segna-la inoltre una specie di patto che cementa sia i sistemi dominati dal mercato sia quelli dominati dallo Stato e che ne accomuna i maschi: l’aspettativa che le donne si dedichino a svolgere mansio-ni tradizionali non sottoposte alla produzione di merce, che tute-lino gli spazi affettivi e delle relazioni non mercifi cabili. Kurz chia-ma questo il «presupposto segreto»18 di ogni società della merce. Dunque, se la società della merce (di Stato o di mercato) mostra segni di declino è anche perché questo presupposto è stato disat-teso dalle stesse donne. Il presupposto segreto, il lavoro di cura non monetizzato, né monetizzabile, sta fornendo argomenti, mo-vimenti e pensieri antagonisti alla società del mercato e viene

ri-15 R. Kurz, L’onore perduto del lavoro, tr. it. di A. Jappe - M.T. Ricci, Manifestolibri, Roma 1994, p. 20. 16 Ibi, p. 37. 17 Ibi, p. 95. 18 Ibi, p. 108. 08_Buttarelli.indd 151 08_Buttarelli.indd 151 1-07-2010 9:12:541-07-2010 9:12:54

lanciato, ad esempio dal movimento antiutilitarista, come territo-rio da cui attingere risorse positive19.

Anch’io penso che davvero sia fortemente in dubbio il prevale-re defi nitivo del modo di produzione capitalista come sistema di sfruttamento che ha per idolo la merce, non so se morirà, come prevede Kurz, ma comunque per la sua messa in questione radi-cale, oggi, gran merito va alle donne20. In effetti, noi ora possia-mo vedere il doppio lato, l’ambivalenza, di quello che non è più un segreto. Da un lato i ruoli tradizionali, legati alla casa, alla fa-miglia, come cucinare, accudire, vestire ... non hanno più il po-tere di prefabbricare il destino di una donna, a causa del cammi-no compiuto dalla libertà femminile; i lavori di cura cammi-non socammi-no più barriere che impediscono l’accesso al mondo del lavoro pagato direttamente, se una donna desidera entrarvi. D’altro lato, il con-durre le famiglie, l’imporsi nella casa, l’insegnare a scuola, l’inse-gnare a stare in relazione ecc. sono forme di impegno accettate in passato e tuttora mantenute e/o trasformate in mestieri paga-ti con accresciuta convinzione da molte, per un superiore senso della civiltà, o perché, in certi luoghi, non vi sia una discesa velo-ce verso condizioni di vita inacvelo-cettabili. Rimane tuttavia inestirpa-bile una radice che segna la differenza tra i lavori di cura alle per-sone e i lavori che producono merci21.

Lina Scalzo, operatrice socio-assistenziale della Fondazione Be-tania, sostiene che gli uomini che arrivano al lavoro di cura non

19 Cfr. J. Godbout, Lo spirito del dono, tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1993. Cfr. anche AA.VV., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994.

20 Cfr. «Sottosopra», È accaduto non per caso, Libreria delle donne di Milano, gennaio 1996. Ho contribuito a scrivere il foglio monografi co e una parte di questa ricerca vi è confl uita.

21 Un importante contributo per continuare questa rifl essione viene, in Italia, dalla ri-cerca di Adele Pesce e il suo recente Mediazioni femminili nelle trasformazioni tecnologiche

del lavoro, in D. Barazzetti - C. Leccardi, Fare e pensare. Donne, lavoro, tecnologie,

Rosen-berg & Sellier, Torino 1995, pp. 37-51. In questo saggio, Adele Pesce, in accordo con Elisabetta Donini, riprende la contestazione del binomio produzione/riproduzione e sostiene che le donne hanno un modo di produzione specifi co: produzione di rap-porti sociali. Questa idea disegna un pensiero che rifi uta, ab origine, la subordinazione femminile all’economia dominante. Non ci sarebbe, insomma, un’economia uffi cia-le che ha cooptato cia-le prestazioni e cia-le competenze femminili al proprio servizio. Ci sarebbe un modo di produzione di origine femminile (chiamato invece riproduzio-ne) che permette l’esistere del modo di produzione dominante. Adele Pesce sembra propensa a considerare una fantasia maschile (che si trascina la fantasia vittimista di

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