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Ai margini della «Tomba di Antigone» di Maria Zambrano

Nel documento Il significare delladifferenza DONNE,UOMINI (pagine 119-151)

«L’ombra di mia madre è entrata dentro di me e io, vergine, ho provato il peso di essere madre1».

Premessa

Queste pagine seguono un’intuizione, che altro non è forse che una traccia di tenace gratitudine. L’intuizione non appartiene a me, se non in seconda battuta, ma piuttosto è di Zambrano e del suo desiderio di non far morire Antigone.

La gratitudine è invece del tutto personale e concerne una questione insieme fi losofi ca e politica. Potrei sintetizzarla così: in termini culturali e politici, io provo una gratitudine minuta nei confronti del pensiero della differenza sessuale, che consiste es-senzialmente nell’avermi tolto dall’alibi del patriarcato. Credo di raccogliere in questo senso la sfi da che il pensiero della differen-za lancia, e la raccolgo persino nell’assolutezdifferen-za dell’affermazione secondo cui il padre non c’è più, si è davvero volatilizzato, come scriveva Lacan. Alla mia postura maschile tocca riconoscere di es-sere dentro il dis-farsi della paternità, ma anche riconoscere che esso è l’inizio possibile di un far-si.

Io credo di dover partire da qui, secondo quell’insegnamento

1 M. Zambrano, La tomba di Antigone; Diotima di Mantinea, tr. it. di C. Ferrucci, La Tar-taruga Edizioni, Milano 1995, p. 93 (da ora siglato come TA). Sul tema cfr. soprattutto W. Tommasi, Maria Zambrano. La passione della fi glia, Liguori, Napoli 2007. Cfr. anche I. Giner Comín, Das Sein der Frau in Maria Zambrano Philosophie. Eine Begründung für das

ontologische Dasein der Frau, in B. Christiensen (ed.), Wissen, Macht, Geschlecht, Chronos,

Zürich 2002, pp. 738-749; L. Boella, Cuori pensanti, Edizioni Tre Lune, Mantova 1998, pp. 65-92; A. Buttarelli, Una fi losofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti, Bruno Mondadori Editore, Milano 2004.

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per cui non si può che partire da sé: se il padre non c’è più e non c’è ancora, io chi sono? So bene che compito essenziale del pensie-ro della differenza è anche quello di contestare la necessità del pa-dre. Ora, io non discuto la legittimità di questa contestazione2. Am-metto anche che non vi sia la necessità del padre, ma non vedo, per me, altra possibilità che questa. Nell’epoca (dell’inizio) della fi ne del patriarcato io non posso fare altro che ripensare questa possibi-lità, a partire però dal suo rapporto con la maternità. Il paradosso, la diffi coltà fi losofi ca quanto esistenziale consiste per me in questo: io non posso smettere di cercare almeno la possibilità della paterni-tà (per me stesso, per una pratica di prossimipaterni-tà che non voglio cede-re), ma non trovo i termini per immaginarla (molto più che pensar-la), se non attraversando la differenza della maternità (cioè quel che io non posso essere, perché ciò che cerco è un’altra genealogia del-la paternità daldel-la quale, comunque, del-la maternità differisce).

Questo spaesamento ed esilio riguarda me e il mio corpo ma-schile, la struttura stessa della mia soggettività incarnata nel tem-po. Perché io che non voglio essere il fi glio di mio padre – conte-standone l’ordine e destituendolo dalla sua paternità, padre sen-za più patriarcato, padre sensen-za più paternità – non posso essere nemmeno madre, a meno di non rovesciare i termini e comincia-re una colonizzazione per via d’appropriazione. Ecco, io sono gra-to per il fatgra-to di poter riconoscere in quesgra-to spaesamengra-to l’unica casa del mio desiderio, desiderio di sapere e desiderio di deside-rare. Per cominciare a sentire come il mio corpo può incarnarsi in relazioni di differenza, io non posso parlare del padre, se non partendo dalla madre. Perché il padre non c’è e non deve esserci, per adesso; il suo stesso esserci è una minaccia al mio desiderio di esserci come padre (è il mio corpo maschile che desidera la pater-nità). Non credo possano esistere più padri biologici (e se anche non lo credo fi no in fondo, mi appare salutare che la mia rifl essio-ne parta da qui). Il mio essere padre deve essere un’elaborazioessio-ne della fi ne del patriarcato e, contemporaneamente, la mia

pater-2 Non solo la ammetto ma, come vedremo brevemente in conclusione, credo davvero che non si possa parlare, se non al prezzo di un realismo antifenomenologico, di padre in senso biologico-genealogico. Noto però che questa tesi sconcerta ancora più le donne che gli uomini, come se per esse davvero fare a meno del padre volesse dire perdere un riparo all’ombra del quale difendersi. Davvero nella differente forma di dis-fare il patriarcato è attestato il modo neutro in cui esso ci ha costituiti, indistin-tamente.

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nità non potrà essere mai quella di una madre, se essa ha ancora un senso. Questi due dati si incrociano, per così dire, brutalmen-te: io posso solo costruire una pratica culturale convenzionalmen-te chiamata ancora paconvenzionalmen-ternità: perché essa non è più quella pratica impostasi come universale e riconosciuta infi ne come accidentale che defi niamo patriarcato ma non ha (e non deve appropriarse-ne) nemmeno la naturalezza della relazione materna.

Eppure io non posso che recuperare un unico evento, che è il fatto che anche io provengo da un corpo a corpo con la madre3. So che anche questo evento, dal punto di vista del pensiero della differenza, non è un’esperienza piena di maternità. Che anzi nel mio corpo a corpo con la madre c’è l’irriducibile differenza della materia signata e che dunque, se vige fi nalmente il divieto di neu-tralizzazione, esso deve rivolgersi innanzitutto a questa differenza del corpo a corpo. Ma in fondo l’irriducibilità mi fornisce anche un alibi, una metodologia demistifi cata. A partire dalla mia diffe-renza maschile, leggo in questo modo l’avvertenza di Muraro di non sovrapporre simbolo e metafora4, di non fare cioè della na-scita una gigantesca metafora – che la universalizza perdendone il potere simbolico. Ecco, io rispetto quest’avvertenza, e proprio per questo la trasgredisco. La rispetto perché mi rendo conto che credere nella trascendentalità della differenza5 voglia dire non ri-durre la relazione materna con la fi glia alla relazione col fi glio, dal momento che la differenza non è mai accidentale. Ma anche non posso che trasgredirla, perché, in quanto il mio corpo a cor-po con la madre è avvenuto da fi glio, io non cor-posso che fare riferi-mento a quel rapporto che è precisamente – suo malgrado, se si vuole – una metafora, e non soltanto un simbolo. Di più, il suo va-lore necessariamente metaforico, per me maschio, è precisamen-te dovuto al fatto che io non posso essere madre – e dunque il mio legame è sempre disincarnato. Potrei chiarire quanto provo a di-re in questo modo: io cdi-redo che sia legittimo universalizzadi-re la se-mantica della maternità e della nascita (tanto che io la uso qui in relazione alla paternità). Ma questa universalità semantica non è

3 L. Irigaray, Il corpo a corpo con la madre, in Id., Sessi e genealogie, tr. it. di L. Muraro, La Tartaruga, Milano 1987, pp. 19-33.

4 L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, II edizione rivista, Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 18 ss.

5 Sul tema cfr. P. Ricci Sindoni - C. Vigna (a cura di), Di un altro genere. Etica al

femmi-nile, Vita e Pensiero, Milano 2008.

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mai una neutralizzazione: il modo di universalizzare la maternità da parte dell’uomo è necessariamente metaforico, il modo di uni-versalizzare la maternità da parte della donna può permettersi di fare a meno della mediazione metaforica per concentrarsi esclusi-vamente sull’ordine simbolico.

Io tocco la madre da fi glio, da compagno. Io tocco la madre e in questo corpo a corpo ne percepisco qualcosa cui appartengo anche io – da fi glio e poi da compagno, nella differenza di un altro che pure sta lì, abita il suo spaesamento. Che è come dire: se il padre non simbolizza ma sa, la madre non fa che incessantemente per-mettere la simbolizzazione (in questo potere riannodando in for-ma davvero creaturale natura e cultura). E quella simbolizzazione si dà (si è irreversibilmente data nel mio corpo a corpo con la madre e con la donna) nella forma indiretta della metafora anche per me, che sto qui e vivo accanto a questa fecondità simbolica che tocco e che mi tocca, senza alcuna appartenenza. Certo, il rischio di questa doppia tesi – del padre non c’è più alcuna simbolica, della madre si dà ordine simbolico – è che vi sia un’attenuazione culturale della differenza sessuale, che essa diventi davvero soltanto una differen-za di genere. È un rischio, e io davvero non so dire se valga la pena correrlo o no, se il luogo dove esso ci porta è umano o disumano.

Io posso partire da me, dal mio non poter essere madre, ma dall’interrogare ancora una maternità che mi fa nascere – come fi glio prima, come compagno ora – permettendomi di parlare di qualcosa che è anche il mio desiderio, ma che ogni discorso del padre ha logorato e reso impossibile. Ecco, se qualcosa posso di-re ancora di questo mio desiderio di paddi-re, lo posso didi-re soltanto (ma non solo) grazie a una simbolica della maternità.

Ma si capisce da subito che questa simbolica della maternità è scritta da un altro, nel signifi cato della differenza. Si capisce per il fatto che vado a cercare un senso di una simbolica della madre che mi interpelli in Antigone, che è tutto, ma non è una madre6.

6 È nota l’interpretazione di Lacan, che sarà sempre tenuta presente in queste pagine, per cui Antigone è «custode del desiderio della madre» la cui dominazione si manife-sta attraverso «un carattere radicalmente distruttivo» (J. Lacan, L’essenza della tragedia.

Un commento all’Antigone di Sofocle, in Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi,

tr. it. di G. Contri, Einaudi, Torino 1994, pp. 309-361). La messa in scena di Zambrano mi pare invece sostenibile sulla base di una relazione con la madre senza la mediazio-ne terza (di Edipo prima, del fratello poi). Quando sostengo che si tratta di pensare l’impensato rapporto tra Antigone e la maternità intendo di ripensare Antigone co-me fi gura del ‘desiderio di madre’ e non del «desiderio della madre». Ma non è un

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Dopo quanto scritto, non ho da giustifi care teoreticamente questa intuizione: perché cercare nell’Antigone la madre?7 Perché que-sta ricerca appartiene a me, che sono un altro che, non potendo essere madre, cerca la madre nei luoghi dove la madre non c’è (con ciò cercandone la funzione metaforica). La mia esperien-za della madre non può che essere così: sapere che essa vi sia, ma non poter sapere chi essa sia (mentre lo scrivo mi rendo conto di quanto queste parole valgano anche per la mia esperienza di pa-ternità). Non è lo stesso per Antigone, con una differenza che è la differenza: il fatto che lei non è madre pur essendolo (potendo in ogni istante esserlo, di fatto essendolo come vedremo), io non so-no madre so-non potendolo essere?

Ecco, è da questa irriducibile pragmatica del mio corpo che posso concedermi una simbolica della madre, io che non sono e non voglio più essere il Padre (e solo così posso desiderare di es-sere padre).

Prima scena. Dell’Antigone come passione della fi glia (la madre vergine) Perché Zambrano riscrive la fi ne di Antigone8? Antigone infatti

caso che questo desiderio di madre si espliciterà, come vedremo nelle pagine sulla madre morta, dinanzi alla madre. Vi è una continuità necessaria tra i due desideri, tra l’interpretazione lacaniana e il tentativo di ripensare la maternità di Antigone (e non di sua madre). Antigone compie un percorso di messa a distanza del transfert (il riferimento al terzo) contenuto nel suo esser custode del desiderio della madre e solo al termine di questo percorso ella acquista davvero il desiderio di madre. Sul tema cfr. anche L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, tr. it. di L. Muraro, Feltrinelli, Milano 20102, pp. 199-209; A. Buttarelli, Partire da sé confonde Creonte, in Diotima, La

sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996, pp. 105-106.

7 Confesso però il mio debito in relazione alle pagine che Cavarero ha dedicato a questo testo teatrale di Antigone, mettendo in luce proprio la maternità di Antigone. Sul tema cfr. A. Cavarero, Corpi in fi gure. Filosofi e e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 221-228. Cfr. anche Maria Zambrano e Antigone. 2. Una conversazione

con Annarosa Buttarelli e Adriana Cavarero, «Il segnale. Percorsi di ricerca letteraria», 41

(1995). È altresì importante il riconoscimento che questa sua intuizione è stata per me davvero folgorante – mai avrei pensato al nesso di Antigone e la maternità – ma il motivo per cui ne sono stato colpito e dunque il modo in cui proseguo l’intuizione è del tutto differente. Per completezza culturale, la lettura delle pagine di Cavarero è av-venuta in coincidenza con la visione di una straordinaria variazione cinematografi ca del mito di Antigone, il fi lm La teta asustada (regia di Claudia Llosa, Perù 2008). La contemporaneità delle due fonti ha prodotto le rifl essioni di questo mio saggio.

8 Per un’agile e ancora attuale presentazione delle principali interpretazioni fi losofi -che di Antigone da Hegel fi no a Nussbaum, cfr. P. Montani (a cura di), Antigone e la

fi losofi a. Un seminario, Donzelli, Roma 2001 e F. Brezzi, Antigone e la phìlia. Le passioni

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viene accompagnata da Sofocle fi no alla sua tomba. Con una di quelle misteriose aporetiche della tragedia greca, colei che vuo-le seppellire i morti fi nisce per essere seppellita da viva. Antigone sembra condividere questo rovesciamento col padre. Ma proprio là dove Sofocle abbandona Antigone, Zambrano la rimette in sce-na. È proprio quel rovesciamento che Zambrano non può accetta-re: che Antigone «l’innocente» possa essere punita come il padre – con il rovesciamento del suo potere, il potere di seppellire, in una colpa, la colpa di cui morire. Con, in più, un’attività distrutti-va che nella storia di quella famiglia appare come un potere della donna, quello di darsi la morte. La condanna di Antigone, nel te-sto classico, non è la morte ma il darsi la morte. Come sua madre, Antigone si suicida. Come se l’uomo avesse il potere di seppelli-re, ma non la forza di uccidere. Sta alla donna darsi la morte. Dal punto di vista della Legge, il gesto della sepoltura imposta ad An-tigone è una punizione, non è un omicidio. L’uomo rimane nella legge costringendo Antigone a trasgredire doppiamente la legge: trasgredire la non sepoltura del fratello, trasgredire la sua propria sepoltura, trasformando un atto di legge in omicidio. Ma un omi-cidio di cui il maschio non ha colpa: il suo potere consiste nella violenza di costringere alla violenza. In questa distanziazione tra il seppellimento e la morte (e viceversa, come nel caso di Polini-ce) si consuma una forma di feticismo tipico del patriarcato. È at-traverso questo feticismo che l’uomo non soltanto ammazza, ma diventa anche «Signore della morte»9. Perché se non ci fosse que-sto transfert, l’uomo potrebbe ammazzare, ma non potrebbe eser-citare la sua signoria. È per mantenere la violenza di questo tran-sfert che, come sua madre, Antigone si dà la morte grazie a un po-tere che le è dato dall’uomo. Torneremo su questo accostamento assai prezioso. Per ora accontentiamoci di ritrovare, in questa vio-lenza del maschile che consiste nell’assoggettamento (la donna è costretta a diventare soggetto della propria violenza), il nucleo di tra etica e politica, Franco Angeli Editore, Milano 2004. Cfr. anche il classico di G.

Stei-ner, Antigoni, tr. it. di N. Marini, Garzanti, Milano 1990.

9 «I mortali devono ammazzare, pensano che se non ammazzano non sono uomini. Li iniziano così, prima con gli animali, con il tempo, e con quel granello di purezza che si portano dentro, poi con gli altri uomini. Nemici, patrie, pretesti non mancano mai. Credono che ammazzando diventeranno i Signori della morte […] per questo c’è tem-po, tutto il tempo che serve. Per vivere no, non c’è tempo» (TA 100). Queste parole di Zambrano saranno evocate anche alla conclusione delle mie pagine.

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quest’altra storia che Zambrano racconta e che comincia, appun-to, dove secondo la tradizione la donna si dà la fi ne. Con un gesto fi losofi camente evocativo, Zambrano sostituisce il sepolcro come luogo che custodisce i corpi dei morti con il sepolcro come luogo che custodisce le parole dei viventi:

Antigone, in verità, non si suicidò nella sua tomba, come Sofocle, in-correndo in un inevitabile errore, ci racconta. E come poteva, Antigo-ne, darsi la morte, lei che non aveva mai disposto della sua vita? Non eb-be nemmeno il tempo di accorgersi di se stessa. Destata dal suo sonno di bambina dalla colpa di suo padre e dal suicidio di sua madre, dall’ano-malia della sua origine, dall’esilio; costretta a servire da guida al padre cieco, re-mendicante, innocente colpevole, le toccò entrare nella pie-nezza della coscienza. Il confl itto tragico infatti, la trovò vergine e la pre-se interamente con sé, ella crebbe dentro di esso come una larva nel suo bozzolo. Il confl itto tragico, infatti, non arriverebbe a essere tale, a iscri-versi nella categoria della tragedia, se non consistesse in una distruzione; se dalla distruzione non discendesse qualcosa che la oltrepassa, che la ri-scatta […] Di tutti i protagonisti della tragedia greca, la ragazza Antigo-ne è quella in cui la trascendenza propria del geAntigo-nere si mostra con mag-gior purezza ed evidenza (TA 43-44).

Antigone non può darsi la morte perché è innocente. Ma qui l’in-nocenza, categoria assai ambigua e che dovremo presto chiarire, corrisponde a un non potersi dare la vita10. Antigone non può darsi la morte perché non può rivolgersi verso di sé, perché non ha potere su di sé. Il suo sé sembra essere prima di ogni separazio-ne, prima di ogni ordine della soggettività11.

Certo, questa indisponibilità di sé a sé appare pregna di una traccia sacrifi cale, che in queste pagine di Zambrano è molto vivi-da12. Non è diffi cile leggere in questa indisponibilità una forma di

10 Cavarero legge piuttosto questa impossibilità nel senso della ‘vita inestinguibile’: «Qui Antigone, non solo non si uccide, ma addirittura non muore nel senso defi -nitivo del fenomeno, vivendo piuttosto l’unione, le nozze, tra morte e vita, come esperienza di una vita inestinguibile che trascende la loro separatezza e opposizione» (Cavarero, Corpo in fi gure, p. 223).

11 In questo senso il cammino di Antigone verso l’intimità col proprio sé è un sape-re dell’anima, un cammino dentro il profondo. Per questo felice accostamento tra sapere dell’anima e antropologia del profondo cfr. F. Falappa, La verità dell’anima.

Interiorità e relazione in Martin Buber e Maria Zambrano, Cittadella editrice, Assisi 2008,

pp. 269-290.

12 Zambrano mette in parola fi losofi ca – con una profondità meno ‘strutturalista’,

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sottomissione, un’ennesima fenomenologia del patriarcato. Anti-gone non ha il tempo di accorgersi di se stessa, non ha il tempo di desiderare (l’innocente è tale perché resta «vergine»). Antigo-ne è distrutta dalla sua essenza ‘servile’. Ella non è più «bambina» dal momento che ha sulle spalle il peso «della colpa di suo padre e del suicidio di sua madre». Eppure questo doppio peso è di fat-to uno soltanfat-to; perché la madre con il suo suicidio ha fat-tolfat-to il pe-so che ella era (le cose pe-sono più complesse, come vedremo). Anti-gone porta il peso del padre e della madre, ma di fatto lo sopporta solo in riferimento al Padre. Essere in debito con il padre e con la madre signifi ca servire la legge del Padre. La sottomissione al

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