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IL SIMBOLISTA

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 137-150)

CAPITOLO 3: L’IDIOTA E L’ÜBERMENSCH

3.2 IL GESÙ DI NIETZSCHE

3.2.3 IL SIMBOLISTA

La “buona novella” di Gesù è rifiuto di ogni antitesi. Il regno di Dio appartiene a tutti quelli che sanno vivere come fanciulli: «Allora gli furono presentati dei bambini perché egli imponesse loro le mani e li benedicesse. I discepoli gridavano contro, ma Gesù disse:

242 F. Lamendola, Don Chisciotte e il principe Myŝkin, i soli eroi buoni che tentano di imitare Cristo, URL=

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“Lasciate i bambini e non impeditegli di venire a me; perché di essi è il regno dei cieli”» (Matteo 19, 13-14).

La fede è una condizione spirituale che corrisponde all’innocenza dell’infanzia, intesa da Nietzsche, come abbiamo visto, come fenomeno fisiologico di degenerazione dovuto a una pubertà ritardata e non integrata nella formazione:

La «buona novella» è appunto quella che non esistono più contrasti; il regno dei cieli appartiene ai fanciulli; la fede che fa sentire ora la sua voce non è una fede conquistata con la lotta – essa esiste, è sin dal principio, è, per così dire, un’innocenza fanciullesca ricondotta nella sfera spirituale. Il caso della pubertà ritardata e non sviluppatasi nell’organismo, in quanto conseguente fenomeno della degenerazione è, se non altro, familiare ai fisiologi 243.

La fede di Cristo, per quanto sia contrassegnata dalla sua décadence, promuove la calma spirituale e la rinuncia a tutte quelle tensioni che turbano l’animo. Distogliendo l’attenzione da tutte le vicissitudini turbolente del mondo mondano che rendono l’uomo schiavo delle proprie passioni e illusioni, egli invita alla riappropriazione della singolarità. Essa è ricerca di equilibrio e volontà d’introspezione. Gesù invita alla conoscenza del sé ed esorta all’individuazione personale. Egli non condanna né giudica. Non promette nessuna redenzione in un regno futuro né ricorre ai miracoli per affermare la propria autorità. Non sguaina mai la spada per legittimare le sue parole. I suoi insegnamenti, per quanto dettati dalla patologia organica, mirano a rendere l’uomo pago di se stesso. In ogni istante è possibile vivere il regno di Dio quale ricercata condizione psicologica:

Una tale fede non si sdegna, non rimprovera, non contrasta: non porta «la spada» – non presagisce affatto sino a che punto potrebbe un giorno arrivare a dividere. Essa non si dimostra né con miracoli, né con ricompense e promesse, e nemmeno «mediante la Scrittura»: essa stessa è in ogni istante il suo miracolo, la sua ricompensa, la sua dimostrazione, il suo «regno d’Iddio». Questa fede non si formula neppure – essa vive, è restia alle formule

244.

243 F. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., (32), pp. 192-193. 244ibidem, (32), p. 193.

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Gesù è un antirealista. Egli prende in prestito le parole e le formule più comuni del suo contesto storico e religioso per tramutarle in metafore con cui esprimere le proprie realtà interiori, vale a dire la ricchezza del suo sé più intimo. La sua creatività metaforica corrisponde a un movimento di emancipazione da tutto ciò che è tradizionalmente rigido e consolidato. Ciò fa di lui uno spirito libero:

Indubbiamente la contingenza dell’ambiente, della lingua, della propedeutica determina una certa cerchia di idee: il primo cristianesimo maneggia soltanto idee ebraico-semitiche (vi rientrano il mangiare e il bere nell’eucarestia; un’idea così tristemente abusata dalla Chiesa, come tutto ciò che è ebraico). Ma ci si guardi dal vedere in tutto questo qualcosa di più che un discorso figurato, una semeiotica, un’occasione per allegorizzare. Proprio il fatto che nessuna parola viene presa alla lettera, è per questo antirealista la condizione prima per potere, in generale, parlare. In mezzo agli Indiani si sarebbe servito dei concetti del Sāṃkhya, tra i Cinesi di quelli di Lao-tzu, – senza avvertire alcuna differenza. – Si potrebbe, usando quest’espressione con una certa tolleranza, chiamare Gesù un «libero spirito» – egli non sa che farsene di tutto quanto è immutabile: la parola

uccide, tutto ciò che è immutabile uccide. Il concetto, l’esperienza «vita», la sola che egli conosca, si oppone,

per lui, a ogni specie di parola, di formula, di legge, di credenza, di dogma. Egli parla semplicemente di quel che è più interiore: «vita» o «verità» o «luce» è la sua parola per quanto è massimamente interiore – tutto il resto, l’intera realtà, l’intera natura, lo stesso linguaggio, ha per lui soltanto il valore di un segno, di un simbolo 245.

Il sapere consistente nelle sole realtà interiori, vale a dire nella pura follia dell’introspezione morale, fa di Gesù un simbolista. L’inclinazione a simbolizzare l’intera esteriorità costituisce la forza di Gesù, il coraggio di affermare il proprio sé particolare contro ogni pretesa dell’universale. La valorizzazione della sua esperienza interiore lo svincola da qualsiasi fissità sociale e istituzionale. Egli è immune all’influenza del conformismo delle masse. Non tiene conto del prestigio delle élites e delle autorità più consolidate. La sua consapevolezza lo emancipa da ogni legge. Il ritirarsi nel proprio orizzonte morale lo rende padrone del proprio agire. Quest’ultimo non nega il mondo esterno. Semplicemente, non lo riconosce. Egli è troppo concentrato su stesso. Gesù guarda oltre:

A questo punto non è assolutamente lecito sbagliare, per quanto grande sia la seduzione che è insita nel pregiudizio cristiano, voglio dire nel pregiudizio ecclesiastico: un siffatto simbolismo par excellence sta al di fuori di ogni religione, di ogni concetto di culto, di ogni storia, di ogni scienza naturale, di ogni esperienza

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mondana, di ogni conoscenza, di ogni politica, di ogni psicologia, di ogni libro, di ogni arte – il suo «sapere» è appunto la pura follia riguardo al fatto che esista qualcosa del genere. La cultura non gli è nota neppure per sentito dire, non avverte la necessità di lottare contro di essa – egli non la nega . . . Lo stesso vale per lo Stato, per l’intero ordinamento e l’intera società civile, per il lavoro, per la guerra – egli non ha mai avuto una ragione per negare «il mondo», non ha mai presentito il concetto ecclesiastico del «mondo» . . . Negare è appunto per lui del tutto impossibile. – Così pure gli manca la dialettica, gli manca la rappresentazione del fatto che una fede, una «verità» potrebbe essere dimostrata mediante ragioni (le sue dimostrazioni sono «luci» interiori, sentimenti di piacere e autoaffermazioni interiori, nient’altro che «dimostrazioni della forza» –). Una tale dottrina non può neppure contraddire: essa non concepisce affatto che esistano, che possano esistere altre dottrine; non sa assolutamente immaginarsi una maniera opposta di giudicare . . . Quando si imbatterà in un’altra dottrina, essa la compassionerà dal profondo del cuore per la sua «cecità» – giacché è essa a vedere la «luce» –, ma non solleverà obiezioni . . .246

Anche il Cristo di Girard si appropria del linguaggio del suo contesto storico per comunicare il proprio messaggio. Egli adopera il linguaggio sacrificale della cultura mitica per riplasmarlo in chiave antimimetica e antiviolenta.

Possiamo, ad ogni modo, constatare un’altra differenza tra la cristologia di Girard e quella di Nietzsche. Mentre il primo intravede nel simbolismo di Cristo il dissolvimento del meccanismo del capro espiatorio, quindi una finalità “politica” volta a stravolgere la vita istituzionale e sociale del mondo esterno, quello del Gesù di Nietzsche si concentra sulla dimensione introspettiva quale unica forma di sapere, ignorando le ingiustizie delle dinamiche mondane. Possiamo, dunque, definire estroverso il simbolismo del Cristo girardiano e introverso quello del Gesù nietzschiano.

Il simbolismo introverso, secondo Nietzsche, permette a Gesù di concepire una pratica alternativa di esistenza. Ciò che contraddistingue quest’ atipico simbolista è un diverso agire consistente nel non rispondere a nessun tipo di accusa e nel non scatenare nessun conflitto. Egli intravede nella conoscenza dell’interiorità l’unica possibilità di liberazione dalla violenza. L’uomo che si dedica al proprio sé può redimersi da solo. Gesù è estraneo a ogni sistema teologico incentrato sui concetti di colpa e punizione. La sua autentica “buona novella” rigetta l’esistenza del peccato. Il suo messaggio non vincola la beatitudine a

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promesse ultraterrene o condizioni ecclesiastiche. Tutto ciò, per lui, causerebbe l’alienazione dell’individuo. Egli identifica Dio nell’interiorità dell’uomo. L’individuo che scopre se stesso, trova il divino. Il simbolismo di Gesù rinnega la distanza incolmabile tra Dio e l’uomo, tra la trascendenza e l’immanenza. Per Nietzsche, dunque, il Vangelo è da intendersi non come testo sacro, ma come pratica di vita, come rivelazione di nuovi orizzonti esistenziali:

In tutta quanta la psicologia del «Vangelo» manca la nozione di colpa e di castigo; come pure quella di ricompensa. Il «peccato», qualsiasi rapporto di distanza tra Dio e l’uomo è eliminato – precisamente questa è la

«buona novella». La beatitudine non viene promessa, non è associata a condizioni: essa è la sola realtà – il resto

è segno per poter parlare di essa . . . La conseguenza di un tale stato si proietta in una nuova pratica; la pratica propriamente evangelica. Non è una «fede» a distinguere il cristiano: il cristiano agisce, si distingue mediante un agire diverso. Nel senso cioè che egli non oppone alcuna resistenza né a parole e neppure nel suo cuore a colui che è malvagio verso di lui.[…] La vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche la sua morte non fu null’altro . . . Egli non aveva più bisogno di nessuna formula e di nessun rito per il suo commercio con Dio – e neppure della preghiera. Egli ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione; egli sa che soltanto con la pratica della vita ci si può sentire «divini», «beati», «evangelici», «figli di Dio» in qualsiasi momento. Non la «penitenza», non la «preghiera per il perdono» sono le vie che conducono a Dio: soltanto la pratica evangelica porta a Dio, essa appunto è «Dio»! – Ciò che fu liquidato con l’Evangelo, fu l’ebraismo delle nozioni di «peccato», «remissione dei peccati», «fede», «redenzione mediante la fede» – l’intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata nella «buona novella». Il profondo istinto del modo come si deve vivere per sentirsi «in cielo», per sentirsi «eterni», mentre comportandosi in un qualsiasi altro modo non ci si sente per nulla «in cielo»: questa soltanto è la realtà psicologica della «redenzione». – Una nuova regola di vita, non una nuova fede . . . 247

In tal senso, il cristianesimo storico fraintende il significato originario dei simboli che Gesù affibbia a se stesso e a Dio. Esso, istituzionalizzandoli, li innalza a dogmi del nuovo credo. Quest’ultimo, come abbiamo constatato, stabilisce una differenza incolmabile tra uomo e Dio, fomentando il senso del peccato e provocando l’isteria delle masse cristiane.

Ma, per Nietzsche, essi rappresentano tutt’altro.

Quando Gesù adopera il concetto di “Figlio dell’uomo” non indica una realtà storica, ovvero un manifestarsi del divino in una determinata epoca per stravolgere il corso degli eventi, né, tantomeno, un privilegio ontologico che sarebbe solo lui a possedere. Il “Padre celeste”,

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inoltre, non si configura come un Dio – persona dal cui giudizio dipendono le sorti dell’umanità, né come una prospettiva di un regno futuro o di un aldilà ultraterreno. Nelle parole di Cristo è assente ogni riferimento alla Trinità. Ciò che manca in esse è l’aspetto temporale della rivelazione, il suo dispiegamento graduale e progressivo verso un fine proiettato nell’avvenire.

Sua unica preoccupazione è l’eternità. I simboli costituiscono l’occasione di scorgere nella materialità cronologica del mondo mondano le tracce dell’eterno. Il “Figlio” esprime l’atto stesso della contemplazione, la volontà di rintracciare il senso compiuto dell’esistenza, di scovarne la sua giustificazione ultima. Il “Figlio” è il passaggio dalla moltitudine all’unità. La trasfigurazione della pluralità degli infiniti elementi del divenire nel fondamento del tutto. Il “Padre”, in tale prospettiva, esprime il senso di beatitudine derivante dalla contemplazione. Il “Padre” è il sentimento della compiutezza all’interno dell’immanenza, l’unificazione con il divino nel qui e ora, nell’attimo destituito dal corso ordinario del tempo. Sia il “Figlio” che il “Padre”, pertanto, equivalgono a stati psicologici che ogni uomo, non solo Gesù, può esperire:

Se mai ho compreso qualche cosa di questo grande simbolista, ciò consiste nel fatto che egli prese per realtà, per «verità» soltanto realtà interiori – e intese il resto, tutto ciò che riguarda la natura, il tempo, lo spazio, la storia, solo come segno, come occasione per allegorie. L’idea di «figlio dell’uomo» non riguarda una persona concreta, che appartiene alla storia, qualcosa di singolare e di irripetibile, sibbene un fatto «eterno», un simbolo psicologico liberato dalla nozione di tempo. Lo stesso vale, ancora una volta e nel senso più alto, per il Dio di questo tipico simbolista, per il «regno di Dio», per il «regno dei cieli», per la «figliolanza d’Iddio». Niente è più anticristiano delle grossolanità ecclesiastiche di un Dio persona, di un «regno di Dio», che sopraggiunge, di un «regno dei cieli», trascendente, di un «figlio di Dio», la seconda persona della Trinità. Tutto questo è – mi si perdoni l’espressione – un pugno nell’occhio – oh, in che specie mai d’occhio! – dell’Evangelo; un cinismo della

storia mondiale nella derisione del simbolo . . . Eppure è senz’altro manifesto a che cosa ci si riferisce con la

designazione di «padre» e «figlio» – anche se – lo ammetto – non è manifesto per chiunque: con la parola «figlio» è espresso l’immergersi nel sentimento di una trasfigurazione totale di ogni cosa (la beatitudine), con la parola «padre» questo sentimento stesso, il sentimento dell’eternità e della perfezione 248.

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Un sentimento, in definitiva, che abolisce ogni rapporto con la trascendenza e promuove l’unione dell’uomo con se stesso, con la sua intima possibilità di scorgere il significato più autentico dell’esistenza:

È importante sottolineare come per Nietzsche, l’unificazione dell’umano e del divino che Gesù aveva annunciato con la sua “lieta novella”, non sia da intendersi come una identificazione astratta, operata sul piano razionale speculativo […]. L’identificazione dell’umano e del divino, in Nietzsche, riguarda la dimensione esistenziale dell’uomo […] è la condizione di colui che ha preso consapevolezza della propria divinità e non la cerca più fuori di sé, in un’altra realtà 249.

Per Gesù le idee e le esperienze della temporalità ordinaria perdono importanza. Lo scorrere ineluttabile del tempo, la morte e l’invecchiamento del corpo distolgono dall’unità del tutto e dalla contemplazione dell’eternità. Esse, invero, devono essere considerate delle opportunità metaforiche, delle occasioni di simbolizzazione per svincolarsi dalla percezione immediata e approcciarsi al fondamento divino insito nell’intimo di ogni uomo. Il regno di Dio è una condizione del cuore, uno stato psicologico sempre attuabile, perennemente presente:

Il «regno dei cieli» è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge «oltre la terra» o «dopo la morte».

Manca nel Vangelo l’intera nozione della morte naturale: la morte non è un ponte, un trapasso, essa viene a

mancare perché appartiene a un mondo del tutto diverso, meramente apparente, utile soltanto per cogliere segni. L’«ora della morte» non è un concetto cristiano – l’«ora», il tempo, la vita fisica e le sue crisi non esistono affatto per il maestro della «lieta novella» . . . Il «regno di Dio» non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra «mille anni» – è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luogo . . .250

La stessa morte di Gesù rispecchia la sua pratica di vita, vale a dire il non difendersi dalla violenza. Egli, anzi, riesce a fare di essa l’occasione migliore per amare l’uomo e la vita nella sua interezza, godendo per l’ultima volta di quel sentimento di beatitudine per la contemplazione dell’eterno:

Questo «lieto messaggero» morì come visse, come aveva insegnato – non per «redimere gli uomini», ma per indicare come si deve vivere. La pratica è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi

249 E. Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo, Mimesis, Milano – Udine, 2009, p. 170 (nota 203). 250 F. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., (34), p. 197.

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ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno – il suo contegno sulla croce. Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da sé il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca . . . E prega, soffre, ama con loro, in coloro che gli fanno del male . . . Le parole rivolte al

ladrone sulla croce racchiudono in sé l’intero Vangelo. «Questi in verità è stato un uomo divino, un “figlio

d’Iddio”!» – dice il ladrone. «Se tu lo senti» – risponde il redentore – «tu sei in paradiso, anche tu sei un figlio d’Iddio . . .». Non difendersi, non adirarsi, non attribuire responsabilità . . . Ma neppure resistere al malvagio –

amarlo . . .251

Abbiamo visto in precedenza che l’idiotismo di Cristo non permette ai discepoli di comprendere il suo autentico messaggio. Secondo Nietzsche, la storia del cristianesimo non è che il fraintendimento grossolano delle parole e delle azioni di Gesù, il rimaneggiamento più ingannevole della storia dell’uomo. La Chiesa è fondata proprio sulla negazione della verità di Cristo:

Chi cercasse testimonianza del fatto che dietro il grande giuoco del mondo un’ironica divinità muove le dita, troverebbe un non piccolo appoggio in quell’enorme punto interrogativo che prende il nome di cristianesimo. Che l’umanità sia prostrata in ginocchio dinanzi all’opposto di ciò che era l’origine, il senso, il diritto del Vangelo, che essa abbia nel concetto di «Chiesa» consacrato esattamente ciò che «il lieto messaggero» sente

sotto di sé, dietro di sé – sarebbe inutile cercare una forma più grande di ironia della storia mondiale 252.

Il cristianesimo tradizionale rappresenta il rovesciamento del simbolismo di Gesù. Esso si consolida storicamente come Dysangelium, vale a dire come negazione del Vangelo originario. In tal senso, per il pensatore, Gesù incarna l’unico autentico cristiano mai esistito. Solo nella sua pratica di vita il Vangelo trova il giusto compimento. Per quanto sia sempre possibile per ogni uomo eguagliare il suo esempio, una volta morto Cristo, nessuno accoglie la radicalità esistenziale del suo messaggio:

Mi rifaccio indietro, racconto la storia autentica del cristianesimo. – Già la parola «cristianesimo» è un equivoco. –, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il «Vangelo» morì sulla croce. Ciò che a cominciare da quel momento è chiamato «Vangelo», era già l’antitesi di quel che lui aveva vissuto: una «cattiva novella», un Dysangelium. È falso sino all’assurdo vedere in una «fede», per esempio nella fede della redenzione per mezzo di Cristo, il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano . . . Ancor oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino

251 ivi, (35), p. 197. 252 ibidem, (36), p. 198.

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necessaria: l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi . . . Non una credenza, sibbene un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere . . . Gli stati di coscienza, a esempio una qualsiasi fede, un tener-per-vero – è noto a ogni psicologo – sono per l’appunto perfettamente indifferenti e di quint’ordine in confronto al valore degli istinti: con espressione più rigorosa, l’intera nozione di causalità intellettuale è falsa. Ridurre l’essere-cristiani, la cristianità a un tener-per-vero, a un mero fenomenismo della coscienza, significa negare la cristianità. In realtà non sono esistiti affatto dei cristiani. Il «cristiano», quel che da due millenni è chiamato cristiano, non è null’altro che un autofraintendimento psicologico 253.

L’autofraintendimento cristiano porta all’istituzione di una religione che occulta l’essenza stessa del Vangelo di Cristo, vale a dire la contemplazione dell’eternità tramite la conoscenza e la simbolizzazione delle realtà interiori. Il cristianesimo mira, piuttosto, al conformismo e all’indifferenziazione delle masse. Come si è visto, esso vieta ogni cura per l’individualità. La preoccupazione principale della Chiesa è la vittoria sui propri nemici e la conquista del potere. Essa ingloba nel suo credo le pratiche rituali più selvagge e i culti più barbari pur di

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