• Non ci sono risultati.

LA DISSOCIAZIONE MIMETICA DELL’OLTREUOMO

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 92-96)

CAPITOLO 2: LA FOLLIA DI DIONISO

2.3 L’EREDITÀ DI DIONISO

2.3.1 LA DISSOCIAZIONE MIMETICA DELL’OLTREUOMO

Riprendendo l’interpretazione girardiana, l’imitatio Christi cagiona la follia di Nietzsche. Sia con Wagner sia con Cristo, a parere di Girard, il filosofo instaura una relazione di double

bind che condanna la sua psiche all’alternanza patologica di odio e amore, esaltazione e

depressione. Si dissolve ogni distinzione fra il sé e i mediatori.

La sua identità, spiega il pensatore francese, si riduce alla sola imitazione dei modelli, ossia alla capacità di interpretare personalità diverse e di indossare più maschere contemporaneamente. Nietzsche stesso, rileva il critico, si definisce un commediante:

Sei sincero? o solo un commediante? Uno che rappresenta qualcosa ? o la cosa stessa rappresentata? In definitiva non sei altro che l’imitazione di un commediante… Secondo caso di coscienza 168.

La tragedia di Nietzsche, secondo Fornari, assume connotati comici. La sua confusione esistenziale lo rende, rispetto alla sua filosofia della potenza, un buffone. La dissociazione mimetica lo induce a ritenersi sia Dio sia pagliaccio: «Dio o pagliaccio – è questo l’involontario in me, questo sono io» 169. Per Fornari, le parole di Nietzsche vanno prese

letteralmente. Esse contengono in nuce la spiegazione della pazzia del pensatore, ciò che lo spinge a incarnare la parodia grottesca di Cristo:

Quest’identità follemente asserita è l’ultimo atto della simulazione, della lunga lotta fra il Dio e il pagliaccio, la fase in cui le due identità ruotano vorticosamente e si sostituiscono, si fondono, sino a formare l’immagine caricaturale e tragica di un pagliaccio divinizzato, di un Dio-pagliaccio 170.

168 F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung (1889), tr. di F. Masini: Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col

martello, Adelphi, Milano, 1983, (38), p. 30.

169 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., 25 [6], p. 409 (v. F. Nietzsche, Il caso Wagner, op. cit.,

pp. 630-631).

92

L’inseguimento di Cristo, spiega lo studioso italiano, lega indissolubilmente il cacciatore Nietzsche alla sua preda. Egli ormai vive solo per essa, è tutt’uno con essa. Simbolicamente, Nietzsche può essere considerato l’unificazione filosofica di Achab e Moby Dick:

La preda e il suo cacciatore sono i due poli fra cui oscilla Nietzsche, ma la loro contrapposizione è in definitiva illusoria, ossia reversibile, transitoria: Achab e Moby Dick, nel corso di una caccia che indissolubilmente li divide e li unisce, arrivano a coincidere. È il congiungimento del dittico che essi da sempre formano a rivelare l’abisso del male, l’autodistruzione dello spirito dell’antagonismo, della vendetta. Sono i due estremi fra cui si muove anche il filosofo, e che in ultimo si congiungono mortalmente contro di lui. […] In realtà la balena non è che il desiderio nascosto, spettrale del suo inseguitore. Il problema di Nietzsche è che egli è condannato ad essere Achab, il capitano folle che non molla la preda perché fa già parte di lui, l’inseguitore che insegue, l’uccisore che uccide se stesso 171.

Per Girard e Fornari è la competizione con i mediatori divenuti doppi che aggrava la dissociazione mimetica del pensatore:

i doppi si moltiplicano dentro il soggetto, a volte potenziandone la creatività (che è imitativa e quindi duplicativa), ma comunque danneggiandone in modo anche grave la stabilità, fino al limite estremo della pazzia. Sia nei rapporti fra le persone che all’interno di queste, i doppi mimetici tendono infatti a formare una struttura, un sistema che, se controllato psicologicamente e socialmente, è di grande fecondità creativa, come avviene appunto nelle duplicazioni rappresentative dell’arte, ma che se non controllato può letteralmente impazzire. […] Il “sistema di doppi” che si sviluppa nella mente e nel pensiero del filosofo, […] si rivelerà certo creativo, ma resterà fatalmente orientato verso lo squilibrio psichico. Non è difficile dimostrare come siano questi doppi rivalitari il motore nascosto del pensiero nietzschiano 172.

Delle idee che più risentono della patologia, per i due studiosi, fa parte la figura dell’Übermensch. Esso si presenta come un’idealizzazione dell’agonismo di Nietzsche. L’oltreuomo è la personificazione della potenza, del desiderio di dominio, della volontà di vincere le sfide con i propri modelli. L’oltreuomo, proseguono i due critici, è l’eroe che Nietzsche vorrebbe incarnare per ribaltare i fallimenti e le umiliazioni della sua vita. Una tipologia di uomo, per questo, mai del tutto attuabile nel presente, ma sempre attesa in un futuro glorioso, dove il pensatore sarà padrone del mondo e verrà venerato dai suoi discepoli

171 ivi, pp. 130-131. 172 ibidem, pp. 176-177.

93

devoti. L’ideale dell’Übermensch alimenta le speranze nietzschiane di divenire l’unico mediatore realmente degno d’imitazione. Un’illusione che, sconfitta dopo sconfitta, aggrava la frenesia del filosofo, condannandolo al collasso mentale. L’oltreuomo, in ultima analisi, sostiene Fornari, è un fantoccio da competizione:

Non dobbiamo farci abbagliare dalla figura del superuomo: il superuomo, o l’oltre-uomo come taluni traducono nel vano tentativo di smascherarne l’essenza, è semplicemente colui che supera gli altri, colui che vince sempre. […] Ben a ragione, d’altronde, Nietzsche non è entrato in maggiori dettagli sul suo superuomo, poiché tale figura si caratterizza in termini soprattutto negativi: essa sistematicamente persegue il contrario di quello che fanno gli altri, si caratterizza cioè con l’imitazione tipica dei rapporti di rivalità, l’imitazione negativa, che si illude di distinguersi per una sua originalità incomparabile, quando invece essa spia ossessivamente tutto ciò che fanno gli altri all’unico scopo di fare sempre con esattezza l’opposto. […] La tragedia insita nel superuomo è che quest’autentico fantoccio da competizione deve vincere non solo il gregge, ma anche i suoi simili, tant’è vero che Nietzsche lo proietta in un luminoso passato o in un futuro ancor più luminoso (e vedremo di che luce), ma mai nel presente 173.

Follia e filosofia, pertanto, conclude lo studioso, si sostengono a vicenda. Ma possibile che Nietzsche non si renda conto della strada intrapresa? Il suo genio non presagisce minimamente di essere destinato al delirio?

Per Riccardo Di Giuseppe disponiamo di un testo in cui si evince chiaramente la contezza di Nietzsche del suo squilibrio. Si tratta di una parafrasi della sorella Elizabeth di un passo da lei distrutto. Per lo studioso rappresenta la testimonianza dell’ultimo pensiero cosciente del filosofo, in cui interpreta la follia imminente:

In quell’epoca egli riempì alcuni fogli con fantasie singolari, nelle quali la saga di Dioniso-Zagreus si mischiava alla Passione dei Vangeli e ai personaggi contemporanei a lui più vicini. Il dio fatto a pezzi dai suoi nemici vaga, risorto, lungo le rive del Po e vede, oramai, tutto ciò che un tempo ha amato – i suoi ideali, gli ideali del presente in generale – ben lontano al di sotto di sé. I suoi amici e prossimi gli si sono trasformati in nemici che lo hanno fatto a pezzi. Questi fogli si rivolgono contro Richard Wagner, Schopenhauer, Bismarck, i suoi amici più intimi: il professor Overbeck, Peter Gast, la signora Cosima, mio marito, mia madre e me. Durante quest’epoca egli firmava le sue lettere come ‘Dioniso’ o ‘Il Crocifisso’. Anche in queste note si trovano ancora passi di bellezza vertiginosa, ma nel complesso essi si caratterizzano come morboso vaneggiamento febbrile 174.

173 ivi, pp. 178-179.

94

Il passo contiene tutti gli elementi analizzati da Girard e Fornari: l’esperienza sacrificale come premessa della divinizzazione, l’alternanza tra Dioniso e Cristo e i rapporti ambivalenti con le persone più care. Tuttavia, ciò che colpisce è il fatto che sia Nietzsche stesso ad elencarli. Il filosofo rileva i processi rovinosi che lo spingono al delirio. La sua consapevolezza, ad ogni modo, non si sforza di evitare il dramma. Al contrario, in base all’analisi di Di Giuseppe, sembra che Nietzsche voglia spingerlo alle sue più estreme conseguenze, che egli desideri abbandonarsi alla pazzia. Quella che descrive è un’iniziazione: la follia è la condizione per raggiungere lo scopo di una vita, divenire Dio. Egli deve prima lasciar morire la sua coscienza, in altre parole sacrificarla, per poi resuscitare sotto spoglie divine. La sua autocoscienza equivale, di conseguenza, all’apologia della malattia mimetica, alla legittimazione del suo disastro:

C’è, dunque, un trauma, una rottura: un evento puntuale come lo spirare – non di una vita, ma di una coscienza. Ma allora, se c’è una morte, e se c’è una rinascita […], Nietzsche sta spiegando la propria follia come una morte – rinascita, cioè un’iniziazione. Si comincia a scorgere lo scopo profondo di questa estrema auto-interpretazione: si tratta di un’interpretazione apologetica della follia: di un’ipotesi di apoteosi che il desiderio assassino di Nietzsche ha suggerito alla sua povera coscienza. […] È la follia che ha compiuto l’iniziazione di Nietzsche, perché è solo attraverso questa ‘morte’ che egli è riuscito, finalmente, a farsi dio, compiendo la traiettoria delle sue opere 175.

Di Giuseppe, dunque, ritiene l’analisi di Girard e Fornari la più appropriata per spiegare la follia di Nietzsche: essa consiste in un progetto di autodivinizzazione mirante a superare Cristo il cui esito è la morte mentale. Solo la teoria mimetica consente di comprendere il filosofo tedesco: «La follia rivela, emergendo dalla coscienza, la verità occulta della

fondazione sacrificale, che noi riconosciamo in questo frammento perché l’antropologia

mimetica ci permette di farlo» 176.

Una volta impazzito, seguendo il pensiero girardiano, il carattere mimetico della malattia di Nietzsche si rivela ancora più evidente.

175 R. Di Giuseppe, Un inedito sulla follia di Nietzsche a Torino, op. cit., p. 528. 176 ibidem, p. 537.

95

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 92-96)