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LA VOLONTÀ DI POTENZA DEL PRETE

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 118-129)

CAPITOLO 3: L’IDIOTA E L’ÜBERMENSCH

3.1 LA DECADENZA DEL CRISTIANESIMO

3.1.3 LA VOLONTÀ DI POTENZA DEL PRETE

Leggendo la riflessione sul cristianesimo di Nietzsche in chiave girardiana possiamo ottenere altre risposte importanti sulle loro due differenti concezioni.

Abbiamo trattato dell’impossibilità per l’uomo di attuare il compito infinito del cristianesimo, consistente nell’emulazione di Dio. Tale ideale esaspera le passioni degli uomini. Ricorrendo ai termini di Girard, esso eccita il desiderio mimetico.

Per Nietzsche, un altro effetto nocivo consequenziale alla morale cristiana è il fomento violento dell’ardore erotico incarnato dalle divinità Eros e Afrodite:

Pensare male significa rendere malvagio. Le passioni diventano malvagie e maligne se vengono riguardate in

modo malvagio e maligno. Così il cristianesimo è riuscito a fare di Eros e Afrodite – grandiose potenze ricche di forze ideali – coboldi infernali e spiriti fraudolenti, grazie ai tormenti che esso ha fatto nascere nella coscienza dei credenti ad ogni perturbamento sessuale. […] È in sé comune alle sensazioni sessuali, come pure a quelle della compassione e dell’adorazione, il fatto che un essere umano, attraverso il proprio piacere, determini un bene in un altro essere, - non troppo di frequente si incontrano in natura disposizioni benefiche di questa specie! Ed è proprio una di esse che si denigra e si guasta mediante la cattiva coscienza! […] Eros è divenuto più interessante per gli uomini di tutti gli angeli e i Santi, grazie al sommesso parlottare e all’aria di mistero della Chiesa su tutti i fatti erotici; essa ha avuto come risultato che, fin nel mezzo della nostra epoca, la vicenda

amorosa è divenuta l’unico reale interesse comune a tutti gli ambienti, - in una esagerazione inconcepibile

dell’antichità, esagerazione cui seguirà più tardi, quando che sia, anche uno scoppio di ilarità 213.

Eros e Afrodite rappresentano delle possibilità per l’uomo di fare del bene al prossimo, essendo tra le poche passioni non violente dell’animo umano. Tuttavia, la loro castrazione ne fa motivo di vergogna, suggerendo il capriccio della trasgressione che, contrariamente

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all’intenzione iniziale, provoca una smania frenetica. Il cristianesimo, dunque, imbruttisce e incattivisce delle potenziali fonti di nobili azioni.

Ritroviamo la stessa dinamica negativa nella metamorfosi della compassione. Nel passo, Nietzsche accosta quest’ultima alle forze erotiche dalla valenza positiva. Tuttavia, esattamente come queste, la morale cristiana provoca la sua degenerazione in qualcosa di subdolo e perverso. Per il filosofo tedesco la compassione cristiana è un’espressione di odio per la gioia del prossimo, un segreto augurio di sofferenza:

Il cristiano compassionevole. L’altra faccia della pietà cristiana per i dolori del prossimo è il profondo sospetto

per ogni gioia del prossimo, per la sua gioia in tutto ciò che vuole e può 214.

Essa corrisponde alla volontà di nulla, in altre parole al rinnegamento della realtà effettuale dell’esistenza. La compassione cristiana mira all’annullamento della realizzazione individuale, sia nel soggetto sia nell’altro, corrispondente per Nietzsche al senso della potenza, vale a dire alla forza di affermare la vita in tutti i suoi aspetti, sia in quelli lieti sia in quelli tragici. La compassione riduce gli uomini alla schiavitù, costringendoli alla dipendenza da altri e al misconoscimento della loro energia creatrice. La sua finalità consiste nel mantenere gli uomini in uno stato di miseria:

Il cristianesimo è chiamato la religione della compassione. – La compassione sta in contrasto con gli affetti tonici che elevano l’energia del sentimento vitale: essa agisce in senso depressivo. Si perde forza quando si ha compassione. Con la compassione aumenta e si moltiplica il dispendio di forza che già in sé la sofferenza arreca alla vita. La sofferenza stessa diventa contagiosa attraverso la compassione: a volte può essere raggiunto, con quest’ultima, un dispendio complessivo di vita e d’energia vitale che sta in una proporzione assurda con il

quantum della causa […]. Questo è il primo punto di vista; ma ce n’è ancora uno più importante. Posto che si

misuri la compassione dal valore delle reazioni che essa suole provocare, allora il suo carattere di pericolo per la vita appare in una luce assai più chiara. La compassione intralcia in blocco la legge dello sviluppo che è la legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per il tramonto, oppone resistenza a favore dei diseredati e dei condannati dalla vita; grazie alla quantità di malriusciti di ogni specie che essa mantiene in vita, dà alla vita stessa un aspetto fosco e problematico. Si è osato chiamare la compassione una virtù (– in ogni morale

aristocratica essa è considerata una debolezza –); si è andati ancor più lontano, si è fatto di essa la virtù, e il

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terreno e l’origine di tutte le virtù – ma soltanto, si deve sempre tenere presente questo fatto, dal punto di vista di una filosofia che era nichilistica, che portava scritta sulla sua insegna la negazione della vita 215.

In termini girardiani, si può sostenere che essa tenti di bloccare le ambizioni mimetiche degli uomini, che, di conseguenza, la sua funzione di contenimento risulti indispensabile per evitare l’escalation della violenza. Se ai soggetti viene impedito di incoraggiare la loro natura mimetica, non ci sarà bisogno di ricorrere al sacrificio, quindi non ci saranno più vittime. Solo dedicandosi agli altri, essi non ascolteranno il richiamo del loro desiderio. Ad ogni modo, in base alla considerazione nietzschiana, essa ottiene il risultato contrario.

Secondo Nietzsche, prima di tutto, preoccuparsi esclusivamente degli altri equivale a non concentrarsi adeguatamente su se stessi, divenendo incapaci di autogestirsi. La mancata capacità di dominare se stessi comporta l’impossibilità di padroneggiare i propri impulsi, quindi, nell’ottica di Girard, il desiderio mimetico. Alla morale dell’altruismo segue la disgregazione degli istinti, sintomo di decadenza e indebolimento:

Critica della morale della décadence. – «Una morale altruistica», una morale nella quale l’egoismo intristisce-

resta in ogni caso un brutto segno. Ciò vale per il singolo e vale specialmente per i popoli. Manca il meglio quando comincia a mancare l’egoismo. Sceglierci istintivamente ciò che ci danneggia, venire attratti da motivi «disinteressati» fornisce quasi la formula della décadence. «Non cercare il proprio vantaggio» - è semplicemente la foglia di fico morale per uno stato di fatto del tutto diverso, vale a dire fisiologico: «io non so più trovare il mio vantaggio»… Disgregazione degli istinti! – Se l’uomo diventa altruista, è finita per lui 216.

In secondo luogo, si chiede Nietzsche, cosa dà il diritto a un individuo di aiutare un altro individuo? Il suo aiuto può renderlo effettivamente migliore? Per Nietzsche, il soccorso ha come unico effetto quello di rendere l’altro uomo incapace di vivere, ossia di autodeterminarsi. L’aiuto implica la sua sottomissione.

La compassione cristiana nasconde una segreta volontà di dominare l’altro, di affermare il proprio senso di potenza attraverso il bisogno dell’indigente. Per Semerari, Nietzsche

215 F. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., (7), pp. 161-162.

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intravede nella compassione la stessa dinamica da cui deriva la relazione amorosa finalizzata al possesso dell’amato:

L’amore si richiude su se stesso, l’amante isola l’amato, e l’unità che con esso forma, dal mondo e tiene lontano il mondo dall’amato e da tale unità. Il mondo è visto dall’amante come carico di tentazioni per l’amato e, quindi, come fonte di pericoli per la sua unione con l’amato stesso. L’amante procede ad allontanamenti ed esclusioni, fa dell’allontanamento e dell’esclusione il suo principio: allontana ed esclude l’amato dal rapporto con il mondo – da un rapporto libero con il mondo – e il mondo dal rapporto con l’amato – da un rapporto libero con l’amato. […] Così l’amore per il prossimo, l’amore per il sapere e la verità, l’amore per il sofferente sono forme ed espressioni di una volontà di possesso […] 217.

Come precisa Nietzsche:

Tra gli uomini soccorrevoli e benefici si incontra quasi di regola quella goffa astuzia, che sa soprattutto adattare ai loro fini colui che deve essere soccorso: come se costui, per esempio, «meriti» aiuto, o desideri precisamente il «loro» aiuto, e come se si dimostri per tutti i loro aiuti profondamente riconoscente, affezionato, sottomesso – immaginandosi queste cose, essi dispongono di chi ha bisogno come di una loro proprietà, essendo essi soltanto per brama di proprietà gente generalmente disposta a beneficare e soccorrere 218.

La compassione cela una dinamica relazionale paternalistica. Traducendo con termini girardiani, possiamo sostenere che l’atteggiamento compassionevole equivale a spingere il sofferente, cioè la vittima, a seguire il soccorritore, in questo caso il modello. In sostanza, a dipenderne. L’esito è la ricaduta nella schiavitù mimetica. La preoccupazione per le vittime, di conseguenza, genera un legame che condanna l’immolato al ruolo subalterno dell’indifeso da tutelare e alla subordinazione ai suoi protettori. La vittima deve a questi la vita. Il suo essere deve riconoscenza alla loro potenza. In tal modo, rischia di non poter ottenere la propria indipendenza e autonomia, di poter essere padrona del proprio destino. La vittima è forzata a persistere nel suo stato di sofferenza. L’azione antimimetica sancita dalla rivelazione evangelica si mostra, dunque, nelle sue modalità, l’espressione più subdola di mimetismo. Il

217 F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell’altro in Nietzsche, Edizioni Dedalo, Bari, 2000,

pp. 126 -127.

218 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse (1886), tr. di F. Masini: Al di là del bene e del male, in Opere, Vol. VI,

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soccorritore-modello, difatti, si prodiga a salvare la vittima dai persecutori solo per avvinghiarla al proprio carisma, a farne, in sintesi, la propria vittima.

Il cristianesimo, pertanto, vincola gli uomini al mimetismo e alla vittimizzazione.

Il mimetismo paternalistico è alimentato dal perseguimento del compito infinito. L’uomo è chiamato a seguire ed emulare Cristo per fronteggiare la propria natura passionale e mimetica. Ma, come abbiamo notato in precedenza, fallisce. Secondo Nietzsche, date le conseguenze, l’esasperazione delle passioni e l’ipocrisia della compassione, la fede cristiana, con il pretesto di realizzare l’ideale da essa sancito, induce l’individuo a lasciarsi governare dai suoi precetti. L’uomo non può conseguire la perfezione da solo. Deve essere sostenuto. Da qui la fondazione dell’istituzione del clero. L’unica via per eguagliare la perfezione di Cristo è assoggettarsi ai precetti della Chiesa. Ma fino a che punto il supporto ecclesiastico è davvero giovevole? Come può, si domanda Nietzsche, un’istituzione colmare la distanza ontologica tra l’uomo e Dio? E, qualora ci riesca, non si correrebbe il rischio, come abbiamo già constato, analizzando le contraddizioni teologiche di Girard, di passare da una situazione di mediazione esterna a una di mediazione interna, quindi di rivalità e conflitto? A cosa ambisce la Chiesa? Per Nietzsche, alla potenza, al dominio. Dietro il suo insostenibile ideale di perfezione divina e la sua pratica compassionevole, si nasconde l’infido proposito di assoggettamento. La Chiesa manifesta un odio mortale per ogni elevatezza dell’anima:

Il destino del cristianesimo sta nella necessità che la sua stessa fede dovesse diventare tanto malata, tanto abietta e volgare, quanto malati, abietti e volgari erano i bisogni che con essa dovevano essere appagati. La barbarie

malata ascese infine a potenza come Chiesa – la Chiesa, questa forma d’inimicizia mortale per ogni onestà, per

ogni altezza dell’anima, per ogni disciplina dello spirito, per ogni schietta e indulgente umanità. – I valori

cristiani – i valori nobili: siamo stati i soli, noi spiriti divenuti liberi, ad aver ripristinato questa contrapposizione

di valori, la più grande che esista! 219

Essa pretende che l’individuo pecchi. Solo così può instillare in lui il senso di colpa per il peccato e sottometterlo spiritualmente ai suoi dogmi:

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La disobbedienza verso Dio, cioè verso il prete, verso «la legge», riceve ora il nome di «peccato»: i mezzi per nuovamente «riconciliarsi con Dio», sono, come è logico, mezzi con i quali l’assoggettamento al prete è semplicemente assicurato in maniera ancor più radicale: soltanto il prete «redime» . . . Considerando la cosa psicologicamente, in ogni società organizzata su basi sacerdotali i «peccati» diventano indispensabili: essi sono i caratteristici appigli della potenza, il prete vive dei peccati, per lui è necessario che si «pecchi» . . . Principio supremo: «Dio perdona a chi fa penitenza» – o più chiaramente: a chi si sottomette al prete 220.

La Chiesa deve rendere malati gli uomini per fortificare la sua posizione di dominio. Essa deve privare gli individui delle loro energie migliori, esaurendoli a tal punto da costringerli a implorare l’aiuto clericale. Il cristianesimo sopravvive solamente diffondendo la décadence, l’abbruttimento spirituale e fisiologico di tutti gli individui. Una volta resi malsani, la compassione del prete afferma la relazione paternalistica di possesso. Essendo lui stesso un decadente, non trova mai occasione di esercitare la sua volontà di potenza sui più forti, sui più nobili. Lo scarto di forza con gli uomini aristocratici glielo impedisce. Di conseguenza, deve prodigarsi a infiacchirli. Livellando i suoi nemici, può finalmente esternare la sua brama di dominio, la sua volontà di potenza. L’essenza di quest’ultima è, in definitiva, il parassitismo:

Tutti i concetti della Chiesa sono riconosciuti per quello che sono, come la più maligna falsificazione di monete

che esista, mirante a invilire la natura, i valori della natura; il prete stesso è riconosciuto per quello che è, per la più pericolosa specie di parassita, per il vero ragno velenoso della vita . . .221

Da ciò deriva la contrapposizione con il mondo pagano e la necessità di vincerlo. Il cristianesimo fa della vendetta contro Roma la propria condizione d’esistenza:

La vendetta cristiana su Roma. Forse non c’è nulla che stanchi tanto, quanto lo spettacolo di un continuo

vincitore, - per duecento anni si era visto Roma assoggettare a sé un popolo dopo l’altro, il circolo era compiuto, tutto l’avvenire sembrava alla fine, tutte le cose erano organizzate per una eterna condizione. […] Altri cercavano differenti mezzi di conforto contro la stanchezza confinante con la disperazione, contro la coscienza mortifera che ormai tutti i movimenti del pensiero e del cuore fossero senza speranza, che in ogni luogo si fosse piantato il grande ragno, che esso avrebbe implacabilmente bevuto tutto il sangue, dovunque ancora scaturisse. Questo odio vecchio di secoli, senza parole, nutrito dagli stanchi spettatori verso Roma, almeno per tutto il tempo in cui durò il suo dominio, si sgravò, alla fine, nel cristianesimo, coinvolgendo in un solo sentimento

220 ivi, (26), p. 186. 221 ibidem, (38), p. 200.

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Roma, il «mondo» e il «peccato»; ci si vendicò di Roma, ritenendo prossima l’improvvisa fine del mondo; ci si vendicò di Roma ponendo dinanzi a sé un avvenire 222

L’avvenire prospettato dalla fede cristiana prevede l’abolizione definitiva della morale dei signori a favore dell’estensione globale della valorizzazione dei malriusciti, ovvero dell’affermazione della malattia della volontà, quale unica condizione desiderabile per l’uomo:

tutte e due le religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, potrebbero aver avuto la loro base d’origine, e a un tempo il segreto della loro repentina diffusione, in una mostruosa malattia della volontà. E in verità così è accaduto: entrambe queste religioni s’imbatterono nell’esigenza di un «tu devi» innalzata all’assurdo da una malattia della volontà, e progredente fino alla disperazione; entrambe queste religioni furono maestre di fanatismo in epoche di snervamento della volontà e pertanto offrirono a innumerevoli uomini un appoggio, una nuova possibilità di volere, un godimento nel volere 223.

La morale cristiana associa l’autonomia dell’individuo a un pericolo. Il soggetto padrone di se stesso viene giudicato come un potenziale persecutore. La sua forza può essere nociva a coloro che ne sono privi o ne godono in misura minore. Ma per Nietzsche è insensato reputare malvagio un soggetto semplicemente per la sua sovrabbondanza di energia e vitalità, per la sua determinazione nell’affrontare le opposizioni dell’esistenza:

Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello – non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più saporito d’un tenero agnello». – Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza 224.

222 F. Nietzsche, Aurora, op. cit., (71), pp. 53-54.

223 F. Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., (347), pp. 261-262.

224 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887), tr. di F. Masini: Genealogia della morale.

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Ciò che ne consegue è un sistema di valori che rende l’odio per la gioia personale e per quella del prossimo il fine dell’agire. Qualora il soggetto tenti di affermare se stesso, un complesso sistema di punizioni e divieti blocca sul nascere la sua aspirazione. A tal riguardo, il senso di colpa costituisce il meccanismo d’inibizione più potente. Il cristianesimo accosta ogni disgrazia personale a una colpa commessa, a una qualche forma di trasgressione della morale della rinuncia:

La giustizia che punisce. Infelicità e colpa – queste due cose sono state messe dal cristianesimo su una stessa

bilancia: cosicché, se è grande l’infelicità che segue ad una colpa, sempre la grandezza stessa della colpa viene a sua volta involontariamente commisurata con quella dell’infelicità. […] al cristianesimo era riservato di dire: «Ecco una grave disgrazia, e dietro di essa deve essere nascosta una grave, egualmente grave colpa, sebbene non la vediamo chiaramente! Se tu sventurato non la senti, tu sei indurito, tu dovrai passarne ancora di peggio!». […] soltanto nel cristianesimo tutto diventa punizione, punizione ben meritata: esso fa ancor più soffrire l’immaginazione del sofferente, cosicché ad ogni dolorosa vicissitudine egli si sente moralmente riprovevole e riprovato 225.

Come si combinano le tre dinamiche che Nietzsche rimprovera al cristianesimo, vale a dire l’ideale del compito infinito, la compassione paternalistica e il senso di colpa? Il cristianesimo pretende che l’uomo sia malato e indigente. Gli vieta di affermare la propria individualità, la qual cosa viene considerata peccato. Egli deve identificarsi in Cristo, il Dio dei sofferenti. Cristo, per mezzo della sua divinità, sacrifica se stesso, quindi il proprio sé, per redimere gli uomini dal loro peccato e dalla loro violenza, entrambi originati dalla volontà di affermare gli istinti vitali. Il credente si affatica in tutti i modi per attuare l’ideale che la Chiesa gli impone. Tuttavia, la sua natura peccatrice e il suo pulsare istintuale lo trascinano alla disfatta, estremizzando proprio quelle passioni che cerca disperatamente di reprimere. L’uomo, infatti, non può essere Dio. Lo scacco teologico genera il senso di colpa. Il cristiano, vale a dire l’individuo malato, in un modo o nell’altro, viene condannato. Egli non può accettare la sua naturale condizione di animale fisiologicamente destinato all’errore, il peccato, né può eguagliare un Dio ontologicamente distaccato e inaccessibile. Il meccanismo che si viene a

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creare corrisponde per Nietzsche a una folie circulaire reiterata metodicamente. La Chiesa si prodiga per mantenere l’individuo in tale condizione patologica:

Che la fede in determinate circostanze renda beati, che non basti la beatitudine a fare di una idea fissa un’idea

vera, che la fede non sposti le montagne, sibbene ponga le montagne laddove non esistono: un rapido giro

attraverso un manicomio è abbastanza chiarificativo al riguardo. Indubbiamente non nei riguardi di un prete:

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 118-129)