CAPITOLO 3: L’IDIOTA E L’ÜBERMENSCH
3.3 NUOVE DIVINITÀ
3.3.3 I LIMITI DI DIONISO
Oltre alle differenze che abbiamo appena esaminato, Nietzsche e Girard divergono anche nel modo di considerare Dioniso.
Secondo Albert Henrichs, la prospettiva girardiana, che identifica il dio con la violenza sacrificale, non tiene conto delle altre significative sfaccettature della sua figura. I limiti della sua indagine emergono, in particolare, nella sua analisi de Le baccanti 290 di Euripide:
Within this general conceptual framework, Girard offers the most violent interpretation of Euripides’ Bacchae ever attempted, with disastrous consequences for Dionysus. This mythical plot of the Bacchae is taken at face value and read as if it were a social document. Girard is not interested in either the Greeks or Dionysus but in universal patterns of religious behavior. […]. Girard does not write for classical readers and must not be held to their standards, but too much is ignored that is important for a proper understanding of the Bacchae as a product of Euripides and Greek society: for instance, the nonviolent aspects of Dionysiac cult echoed in other passages of the Bacchae or the function of stories about human sacrifice in Greek culture. […] Dionysus has been so drastically uprooted from his original Greek habitat and transplanted to modern regions where blood is more plentiful than wine that he might not survive. Can Dionysus be saved? 291
La scelta di Girard, per Henrichs, è dettata dal suo schierarsi dalla parte di Cristo il quale, nell’età moderna, rappresenta la contrapposizione a Dioniso. Il dio greco, a causa della sua nemesi, viene dipinto solo con tratti sanguinari e brutali:
After the rise of Christianity, Dionysus had emerged as the leading pagan antagonist of Christ. Dionysus and Christ had much in common. Both had conquered death, both obscured the distinction between blood and wine, and both promised their followers salvation after death. Long after the final victory of Christianity, familiar Dionysiac motifs such as vines, drinking cups, peacocks, and even Erotes continued to appear frequently on Christian mosaics and sarcophagi, which projected a vision of a luscious paradise that owed more to the world of Dionysus than to the Bible 292.
Nietzsche, ad ogni modo, non condivide l’immagine violenta e barbarica di Dioniso. Il dio dello scatenamento libidinoso e orgiastico non equivale alla divinità invocata nei suoi scritti,
290 Euripide, Le baccanti, tr. di V. Di Benedetto, BUR, Milano, 2004.
291 A. Henrichs, Loss of self, suffering, violence: the modern view of Dionysus from Nietzsche to Girard, in
Harvard Studies in Classical Philology, vol. 88, Department of the Classics, Harvard University, 1984, pp. 232-
234.
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concepita, piuttosto, come “Dioniso il Filosofo”. Uno dei tratti distintivi del suo pensiero è, infatti, la critica all’eccesso di ebbrezza, tipica degli individui degenerati e nocivi:
Considerano l’ebbrezza come la vera vita, come il loro vero io: vedono in tutti gli altri gli avversari e gli ostacolatori dell’ebbrezza, sia essa di natura spirituale, etica, religiosa o artistica. A questi entusiasti ubriaconi l’umanità deve gran parte dei suoi mali: essi sono infatti gli insaziabili seminatori di gramigna del loro scontento di se stessi e del prossimo, del disprezzo del loro tempo e del mondo, e specialmente della stanchezza del mondo. […] Oltre a ciò quegli esaltati impiegano tutte le loro forze nel radicare dentro la vita la loro fede nell’ebbrezza quasi fosse la fede nella vita stessa: un’orribile fede! 293
Il Dioniso di Nietzsche rappresenta, invero, la pratica della cura e della costruzione di sé che abbiamo delineato in precedenza. Il “culto” del dio greco equivale alla necessità dell’autosuperamento e all’aspirazione alla grandezza e nobiltà spirituali. Dioniso spinge l’individuo a essere pago di se stesso e a fare affidamento sulle sue sole forze, pervenendo alla capacità di autodominio e regolazione degli istinti contraddittori che lo rendono padrone della propria interiorità e artefice dei propri valori e orizzonti esistenziali. La fede in Dioniso diviene necessaria dopo la constatazione della morte di Dio, vale a dire del crollo della morale tradizionale e della credenza nell’oggettività della verità in campo teoretico ed etico. L’uomo non può più affidarsi o abbandonarsi a un Dio trascendente, né perseguire il compito infinito impostogli dal cristianesimo che lo spinge a rinnegare la sua autentica natura istintuale. Egli, adesso, deve farsi carico della propria condizione e forgiare il suo personale destino. Nietzsche è consapevole delle difficoltà, per l’umanità, di contemplare una nuova via dopo la morte di Dio. Tuttavia, egli scorge nell’unicità dell’evento un’occasione propizia, una ricchezza inestimabile di possibilità per la creazione di un’inedita tipologia di uomo:
Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che veramente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea. […] In realtà, noi filosofi e «spiriti liberi», alla notizia che «il vecchio Dio è morto», ci sentiamo come illuminati dai raggi di una
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nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d’attesa […] il mare, il
nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto» 294.
L’interpretazione girardiana della morte di Dio, secondo la quale essa simboleggia le dinamiche sacrali e il processo di divinizzazione delle vittime espiatorie, non sembra essere idonea. Prima di tutto perché Nietzsche non ha consapevolezza del meccanismo antropologico del capro espiatorio. Egli non perviene mai a tale intuizione. In secondo luogo, poiché, in sintonia con l’esegesi più accreditata dell’opera nietzschiana, essa indica un avvenimento tanto storico quanto culturale, corrispondente al crollo del sistema cristiano di valori. Una svolta epocale che obbliga l’uomo dell’era post-Dio a intraprendere un diverso viaggio, a imbarcarsi verso nuove frontiere dell’esistenza. Dioniso è l’incarnazione del mare aperto, dell’infinito abisso in cui non c’è più traccia della terra ferma:
Nell’orizzonte dell’infinito. Abbiamo lasciato la terra ferma e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i
ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e fantastica visione di bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più «terra» alcuna! 295
La “fede” nel dio greco combacia con quella nell’eterno ritorno. Dopo la morte di Dio, svanisce ogni teleologia escatologica, ogni moralizzazione del reale. All’uomo non resta che la vita terrena, il regno del qui e ora. La sua felicità consiste, adesso, nel scorgere la bellezza insita nella landa priva di senso dell’essere, nella speranza di giustificare l’esistenza nonostante il suo caos e dolore:
Voglio dire che il mondo è stracolmo di cose belle, ma che ciò nonostante è povero, molto povero di begli attimi e disvelamenti di siffatte cose. Ma forse è questa è la più potente magia della vita: c’è su di essa, intessuto d’oro, un velo di belle possibilità, colmo di promesse, ritrosie, di pudori, d’irrisioni, di pietà, di seduzione 296.
294 F. Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., (343), pp. 251-252. 295 ibidem, (124), p. 162.
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L’eterno ritorno, l’autentico spirito dionisiaco, è l’amore per ogni attimo, vale a dire per la caratteristica intrinseca e particolare dell’accadimento irripetibile:
Ogni caratteristica fondamentale, che è alla base di ogni accadimento, e che in ogni accadimento si esprime, dovrebbe, se fosse sentita da un individuo come propria caratteristica fondamentale, spingere questo individuo ad approvare trionfalmente ogni attimo dell’esistenza generale. L’importante sarebbe appunto sentire con piacere dentro di sé questa caratteristica fondamentale come buona, pregevole 297.
L’eterno ritorno permette di esperire il divino come pura immanenza, come panteismo amorale dove ogni cosa trova la sua redenzione nel movimento incessante e ciclico del divenire:
il «tutto perfetto, divino, eterno» costringe parimenti a credere all’«eterno ritorno». Domanda: assieme alla morale viene resa impossibile anche questa posizione affermativa panteistica rispetto a tutte le cose? In fondo solo il Dio morale è infatti superato. Ha un senso pensare un Dio «al di là del bene e del male»? Sarebbe possibile in questo senso un panteismo? Togliamo dal processo l’idea del fine e affermiamo, ciononostante, il processo? – Così sarebbe se qualcosa entro questo processo venisse raggiunto in ogni momento di esso – e sempre lo stesso 298.
Fino a che punto, ad ogni modo, per l’uomo educato dalla millenaria cultura cristiana, è possibile accettare la divinità di Dioniso, il flusso indefinito e perennemente identico di tutte le cose? Per Nietzsche, l’individuo che anela all’autosuperamento e alla massima potenza deve sopportare il peso insostenibile della nuova fede. Quella dell’Ewige Wiederkunft è anche una prova d’iniziazione, una sfida lanciata dalla simbolizzazione demoniaca dell’eternità:
Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria
delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!». – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!»? Se quel pensiero ti prendesse in suo
297 F. Nietzsche, Der europäische Nihilismus, tr. di S. Giametta: Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide,
Milano, Adelphi, 2006, (8), p. 15.
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potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello? 299
L’individuo deve tramutare l’insostenibilità del peso dell’eterno ritorno nella sua nuova forza. Egli deve rendere, in altre parole, l’insensatezza del divenire ricorrente la propria fonte di affermazione della vita, la legittimazione terrena della realtà in tutti i suoi aspetti. Esattamente come il pastore soffocato dalla vipera, egli deve ingurgitare il fardello più rivoltante e farne motivo di riso:
E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava – invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. – Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: – che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l’uomo, cui le più grevi e le più nere tra le cose strisceranno nelle fauci? – Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente – : e balzò in piedi. – Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, – – e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! 300
La trasformazione del pastore morente in figura sovrumana indica la metamorfosi che l’uomo deve compiere per divenire Übermensch. L’oltreuomo è l’individuo che crea eternamente e ciclicamente se stesso, colui che persegue la cura di sé. Egli non ricorrere alla trascendenza di Dio per organizzare plasticamente e artisticamente i propri istinti. Al contrario, restando fedele alla fede dionisiaca, quindi all’immanenza e all’innocenza del divenire, al “senso della
299 F. Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., (341), pp. 248-249. 300 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., pp. 179-180.
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terra”, egli fa leva solo su stesso, sulla capacità di governarsi e dominarsi in vista del suo superamento, alla continua ricerca di nuovi equilibri e nuove prospettive di vita. Così come la realtà ritorna eternamente, e con essa le singole cose e gli infiniti avvenimenti, allo stesso modo, l’oltreuomo forgia se stesso in un movimento incessante e ricorrente. Egli è il tramonto dell’uomo:
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli
esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra! Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri.
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo 301.
Introspezione, disprezzo, autosuperamento, tramonto, cura di sé, sacrificio di sé, maieutica della crudeltà, immanenza, prova d’iniziazione, giustificazione dell’esistenza: gli elementi che legano la speranza nello Übermensch alla fede nell’Ewige Wiederkunft. In che senso, allora, è lecito parlare, come nel caso di Girard e Fornari, dell’oltreuomo come fantoccio da competizione e considerare l’eterno ritorno la reiterazione della ciclotimia? Nella filosofia di Nietzsche, entrambi i concetti sono del tutto privi di riferimenti collettivi ed estranei ad ambizioni concorrenziali. La loro finalità non è la sopraffazione né la conquista del prestigio. Essi si riferiscono a esperienze per individui solitari che anelano all’introspezione e alla contemplazione dell’eternità dell’esistenza.
Propositi che abbiamo già riscontrato nell’idiota Gesù. Tuttavia, abbiamo anche constatato che egli non è identificabile con la figura dell’Übermensch. Se da una parte, infatti, il decadente Gesù, tramite il suo simbolismo introverso, vive di sole realtà interiori e del
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sentimento di beatitudine per la visione dell’eternità, egli, d’altro canto, è un irrimediabile decadente, condannato all’infantilismo, alla morbosità tattile e all’esasperazione di ogni minima percezione del dolore. L’oltreuomo, al contrario, rende la sofferenza la sua principale condizione d’esistenza. Egli non rinnega né rifugge la realtà concreta, bensì l’accetta, l’affronta, l’assimila. Egli distrugge se stesso attraverso il confronto traumatico con l’esterno, per ricrearsi e ridefinirsi incessantemente. La sua interiorità, pertanto, è intrinsecamente relazionale. Essa muta insieme al divenire delle cose. Essa è indistinguibile dall’alterità. I diversi individui e le differenti entità sono parte integrante della sua personalità. Mentre Gesù concepisce l’esteriorità come materiale simbolico per esprimere il proprio universo interiore, l’oltreuomo si abbandona interamente al caos della vita, tramutando insieme ad essa. Se Gesù è “al di qua”, nella sua chiusa dimensione patologica, l’oltreuomo è “al di là”, indelebile aspirazione al tramonto e all’autosuperamento, fedeltà alla metamorfosi del “senso della terra”.
In tal guisa, come sostiene Montinari nella sua Introduzione al Crepuscolo degli idoli, vi è un legame essenziale tra le singole volontà di potenza e l’eterno ritorno. Quest’ultimo simboleggia l’unità redentrice delle singole prospettive del Wille zur Macht:
Vi è dunque una tensione ineliminabile tra eterno ritorno dell’identico e sistema della volontà di potenza. Il primo enuncia l’innocenza di tutto il divenire, la redenzione del mondo dalle calunnie metafisiche, è la formula suprema di affermazione del tutto, è il fondamento speculativo del pensiero di Nietzsche. Il secondo è proiettato nella lotta, nella storia secondo prospettive parziali. Anche la volontà di potenza dell’individuo più alto nella sua tirannica, ma anche più vasta, sistematizzazione deve opporsi a tutte le altre prospettive di tutte le altre volontà di potenza. A quest’ultima sistematizzane Nietzsche è sfuggito proprio grazie alla presenza del pensiero dell’eterno ritorno dell’identico 302.
Le singole prospettive del Wille zur Macht sono affermazioni di nuovi valori, espressioni immediate della vita: «Quando parliamo di valori, parliamo sotto l’ispirazione, sotto l’ottica
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della vita: la vita stessa ci costringe a stabilire dei valori, la vita stessa valuta per nostro tramite, quando noi stabiliamo valori…» 303.
Ad ogni modo, l’economia delle prospettive e l’antitesi tra valori decadenti e valori affermativi si disperdono nel movimento eterno e ciclico dell’identico, nella morte e nella rinascita ricorrenti di Dioniso:
La «fede di Dioniso» altro non è che il pensiero dell’eterno ritorno dell’identico, con cui Nietzsche chiude il
Crepuscolo degli idoli. […] L’occhio filosofico, aperto all’economia della vita, che ha bisogno di tutto sa, che
nel tutto ogni cosa (anche il prete, anche il decadente) «si redime» - questa è la fede di Dioniso, questa fede non
nega più. […] Solo una lunga peripezia della vita, solo la conoscenza del dolore e della gioia, solo la lotta e la
sconfitta o la vittoria, il periplo del mondo e il naufragio possono dare un significato all’affermazione della vita, al sì verso il pensiero dell’eterno ritorno dell’identico. Esso, senza trascenderlo, è il mondo della contingenza, è l’immanenza che eterna ritorna – dopo la morte di Dio, è anche la grande «giustificazione della vita». Ora, questa giustificazione, negando la legittimità del serrare la prospettiva, dell’esclusione di una parte dell’orizzonte del mondo, infirma ogni volontà di potenza e così finisce per impedire la lotta, la guerra di cui la vita ha bisogno. […] L’eterno ritorno è anche il «non sistema», perché accoglie in sé tutti i sistemi. In esso trova la sua negazione