CAPITOLO 2: LA FOLLIA DI DIONISO
2.1 NIETZSCHE E IL DESIDERIO MIMETICO
2.1.3 MIMESI E VOLONTÀ DI POTENZA
Nell’ottica girardiana, la filosofia di Nietzsche esprime l’ideologia del fanatismo mimetico. Tra i suoi concetti più rilevanti, riscontriamo l’esasperazione della mimesi nel Wille zur
Macht, la volontà di potenza:
A giudizio di molti studiosi la volontà di potenza è una delle idee fondamentali di Nietzsche, ma un esame obiettivo rivela con chiarezza che quest’idea fornisce una giustificazione intellettuale perfetta per i casi più brucianti di autosconfitta a cui possa condurre la mediazione mimetica nella sua fase terminale. […] La mistica della volontà di potenza potrebbe venir definita l’ideologia del desiderio mimetico, se è vero che le ideologie sono attivamente impegnate nel promuovere fini che restano irraggiungibili solo col non riconoscerne la vera natura 129.
La volontà di potenza viene intesa dallo studioso francese come un tentativo di mascherare i fallimenti esistenziali di Nietzsche i quali, come abbiamo osservato prima, hanno segnato drammaticamente la sua intera vita, spingendolo alla pazzia. Il suo aspetto ideologico consiste nel tramutare le umiliazioni subite dal pensatore tedesco in affermazioni enfatiche di vittoria, supremazia e dominio. A questo si deve la contrapposizione costitutiva, e tuttavia mendace, tra individui forti, che godono dell’espressione della propria potenza, ai quali Nietzsche sostiene di appartenere, e tipologie inferiori di uomini, che sfruttano la propria debolezza a scapito dei primi. Girard tenta di argomentare la propria tesi ricorrendo ai testi di Nietzsche:
Che cos’è buono? – Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell’uomo. Che cos’è cattivo? – Tutto ciò che ha origine dalla debolezza.
128 ivi, p. 171, 129 ibidem, pp. 24-33.
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Che cos’è felicità? – Sentire che la potenza sta crescendo, che una resistenza viene superata.
Non appagamento, ma maggior potenza; non pace sovra ogni altra cosa, ma guerra; non virtù, ma gagliardia
(virtù nello stile del Rinascimento, virtù libera da moralina).
I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro d’aiuto.
Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? – Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli […] 130.
Per Nietzsche, la necessaria crudeltà nei confronti dei deboli è dovuta alla pericolosità legata alla morale degli schiavi, impregnata di ressentiment, un mezzo subdolo che ostacola e imprigiona la forza scalpitante dei signori, i quali fanno della morale dei padroni la loro unica e fiera condizione d’esistenza:
Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un «di fuori», a un «altro», a un «non io»: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo
necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale
degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per poter in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione 131.
Se, pertanto, l’uomo aristocratico è colui che afferma se stesso, facendo di questa affermazione il principio del proprio agire e volere, spinto dalla gioiosa creazione della propria esistenza tramite la libera espressione della sua forza e capacità di dominio, lo schiavo, viceversa, si configura come l’individuo che dipende totalmente dal primo: egli ne è l’ombra, la cui natura oscilla tra la segreta ammirazione e l’invidia. Il suo scopo non è creare se stesso, bensì bloccare l’altro, il rivale irraggiungibile. In questo consiste il suo risentimento: prima, nella costatazione dell’impossibilità di eguagliare il valore del signore aristocratico; poi, nel tentare con ogni mezzo di reagire a quello, di esserne la negazione. Quello che Nietzsche descrive, per Girard, equivale in tutto e per tutto alla dinamica del
130 F. Nietzsche, Der Antichrist (1888), tr. di F. Masini: L’Anticristo, in Opere, vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano,
1970, pp. 158-159 (2).
131 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887), tr. di F. Masini: Genealogia della morale.
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desiderio mimetico e al conflitto tra mediatore e imitatore. Il ressentiment non sarebbe altro che l’espressione del senso d’inferiorità del discepolo, da cui si origina la competizione con il rivale e che stabilisce la differenza quantitativa tra i due pretendenti in termini di forza e autorità mimetica:
Ciò che distingue la volontà di potenza è il suo essere una forma di energia, che si differenzia solamente in termini di quantità. Ma come può una differenza che inizialmente è solo quantitativa diventare infine qualitativa? La risposta sta nella natura competitiva e conflittuale della volontà di potenza. Gli individui che hanno più volontà superano quelli che ne hanno di meno. I forti devono dominare i deboli, e i deboli si risentiranno amaramente per la loro inferiorità, facendo tutto il possibile per eludere le sue conseguenze, fino a negare la sua stessa esistenza. Essi sanno di essere destinati alla sconfitta in qualunque confronto a viso aperto, e sono costretti pertanto a ricorrere ai mezzi più subdoli 132.
Un risentimento, ad ogni modo, che, per Girard, è lo stesso Nietzsche a covare. La sua identificazione con la morale aristocratica dei signori corrisponde esattamente a quel mezzo meschino con cui i deboli tentano di compensare la loro inferiorità. D’altronde, è la stessa vicenda biografica del pensatore a testimoniare le sue disfatte: «Ma cosa emerge se cominciamo a valutare la vita dello stesso filosofo secondo i criteri da lui ripetuti? Dove sono le sue vittorie? Non è stata la sua vita, piuttosto, una pressoché continua sconfitta? E non è la sconfitta il peggior germe infettivo dell’anima?» 133.
Il senso d’inferiorità, continua lo studioso francese, si tramuta in spirito polemico, creandosi appositamente degli avversari, attraverso la provocazione e la critica, contro i quali vi è la certezza di vincere, tradendo la propria traballante supremazia ontologica. In tal senso, Nietzsche sembra adottare la stessa folle soluzione di Don Chisciotte, emblema della demistificazione del reale a vantaggio del proprio orgoglio ipertrofico:
Quando il guardiano dei leoni apre la porta della gabbia e Don Chisciotte fronteggia le belve, queste belve semplicemente si rifiutano di rispondere, sbadigliando e ritornando a dormire. Don Chisciotte è ancora abbastanza in sé per non costringere il guardiano ad aizzare le bestie contro di lui. Il cavaliere finisce per cedere alle suppliche di questi, e batte dignitosamente in ritirata, non prima però di aver dichiarato la sua gloriosa
132 R. Girard, G. Fornari, Il caso Nietzsche, op. cit., pp. 25-26. 133 ibidem, p. 26.
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vittoria. Non posso impedirmi di pensare che Nietzsche si sarebbe sentito segretamente offeso dalla noncuranza dei leoni. […] Per Nietzsche, come per Don Chisciotte, il più grande pericolo è quell’indifferenza del mondo che la sua tipica mescolanza di egocentrismo e di dipendenza dagli altri è costretta a fraintendere. Egli sistematicamente sopravvaluta la sua capacità di fare scandalo, esagerando sia l’accettabilità sia l’inaccettabilità delle sue opere 134.
Possiamo affermare che, grazie alla sua analisi del ressentiment, da lui stesso patito, Nietzsche sia un precursore, sebbene inconsapevole, della teoria mimetica. Allo stesso tempo, Girard precisa che si tratta di una scoperta solo parziale, poiché imbevuta del misconoscimento illusorio, tipico dei miti, che occulta la reale portata del mimetismo. Nietzsche, a detta dell’antropologo, infatti, pur di non accettare il tremendo senso di fallimento che lo divora, ribalta il significato del desiderio mimetico, fomentando la volontà di incarnare la parte del modello vincente e ineguagliabile, senza tuttavia accorgersi delle disastrose disfatte che tale aspirazione comporta. Per lui non si danno altre possibilità: o si è padroni, nel senso di mediatori dotati del massimo prestigio e autorità, o si è schiavi, misera condizione degli eterni perdenti. Il Wille zur Macht, sostiene Girard, è l’ideologia della competizione spinta all’estremo. Una vera e propria religione della vittoria che, non rendendosi conto del fatto che tanto il modello quanto l’imitatore sono destinati a un conflitto violento il cui unico esito è la distruzione, si riduce a patologia imitativa compulsiva, nonché a una nuova forma di immolazione sacrale di cui la vittima principale è Nietzsche medesimo:
La mistica nietzschiana è sia una maschera della malattia mimetica, sia una sofisticata giustificazione del tipo di comportamento che tale malattia presuppone. Abbiamo osservato prima che il desiderio impara sempre più dalle proprie sconfitte, ma mettendo questa conoscenza al servizio di un desiderio esasperato, che rende inevitabili sconfitte ancor più catastrofiche. […] La mistica della volontà di potenza è in realtà una religione del successo davvero sorprendente ed “eroica”, se consideriamo che viene da un uomo così povero di successi, ed è quest’ultima circostanza a renderla così letale. Essa trasforma le sconfitte sociali di Nietzsche in una maledizione metafisica senz’appello, in una sorta di giudizio universale terreno da cui non c’è scampo. Nietzsche in tal modo diventa il più implacabile giudice di se stesso 135.
134 ivi, pp. 29-30. 135 ibidem, pp. 32-33.
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Possiamo già intuire, seguendo l’interpretazione girardiana, che il termine ultimo della mistica del Wille zur Macht sia la follia. Nelle fasi più esagitate della riflessione nietzschiana, intravediamo, infatti, come l’alternanza maniaco-depressiva tipica del double bind, corrispondente all’ambivalenza di amore e odio per il modello, nonché alle continue oscillazioni emotive tra sentimento di vittoriosa onnipotenza e struggente depressione, faccia tutt’uno con l’essenza della filosofia della potenza, ovvero con il culto di Dioniso. Nel momento in cui Nietzsche si abbandona al suo nuovo idolo, incarnazione della divina follia, l’itinerario della malattia mimetica, concludono Girard e Fornari, è compiuto. Ormai condannato alla perdita di ogni distinzione tra sé e i propri mediatori, definitivamente irretito nella logica del desiderio mimetico, non gli rimane che spacciare il suo collasso mentale per l’ultima conquista di superiorità ontologica:
Una crescente pazzia può implicare, e di fatto implica, un’intensità crescente di oscillazioni e di alti e bassi maniaco-depressivi talmente improvvisi, talmente estremi e violenti che alla fine l’intero meccanismo oscillatorio inevitabilmente collassa. Solo in quel momento l’oscillazione di Dioniso fra il soggetto e il suo mediatore sarà interrotta per sempre, e solo allora la mancanza di fede del soggetto in se stesso sarà eliminata. […] È impressionante che l’unica certezza e stabilità che l’uomo folle riesca a prefigurare per sé sia la distruzione della sua stessa mente, il trionfo della pazzia camuffato come suo personale trionfo. L’abbraccio della pazzia come “divina” e il rifiuto, o incapacità, di dire il nome del mediatore sono un’unica cosa. […] la terribile ironia del desiderio mimetico è che esso ottiene sempre infallibilmente ciò che chiede 136.
In ogni caso, sostengono i due critici, prima di giungere alla catastrofe, la smania dionisiaca spinge Nietzsche ad aizzare il suo risentimento contro un ultimo decisivo nemico, imbastendo contro di esso una nuova competizione che si rivela fatale: Cristo, il Crocifisso.
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