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L’EQUILIBRIO DELLA POTENZA E IL SACRIFICIO DI SÉ

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 155-167)

CAPITOLO 3: L’IDIOTA E L’ÜBERMENSCH

3.3 NUOVE DIVINITÀ

3.3.2 L’EQUILIBRIO DELLA POTENZA E IL SACRIFICIO DI SÉ

Girard accusa Nietzsche di misconoscere i legami imitativi intrattenuti con i suoi modelli e di riproporre l’istituzione sacrificale per sfogare il proprio risentimento, derivante dalle sconfitte subite.

Fino a che punto, tuttavia, Nietzsche ignora l’influenza dell’alterità?

Come sostiene Semerari, il filosofo è perfettamente consapevole dell’importanza della dimensione sociale nella costruzione dell’identità. Egli delinea una concezione dell’ego come pluralità di forze contrapposte che creano, volta in volta, equilibri differenti, con il prevalere dell’una o dell’altra:

L’ego, dunque, non è uno. Esso è una pluralità di forze in tensione fra loro. Questa, però, è solo una parte (anche se importante, forse la fondamentale) della verità dell’ego. La verità dell’ego non è solo nell’«egoismo» delle singole forze interne all’ego […]. All’interno dell’ego non c’è solo tensione tra forze diverse e in alterna reciproca prevalenza (con conseguente, come si è visto, autopromozione della forza di volta in volta prevalente a «ego totale»), c’è anche collaborazione e armonia: vi sono forze che assecondano altre forze, che fanno il bene di altre forze, sia pure, probabilmente, con l’unico intento di assicurare se stesse o alle forze con cui collaborano la possibilità delle altre forze ancora. Nietzsche mostra la natura relazionale (relazione di opposizione o di armonizzazione) della struttura interna dell’ego. Ma la relazionalità dell’ego, in particolare la relazionalità di tipo antagonistico, è un riflesso della relazionalità dell’ego con l’esterno 269.

Secondo Nietzsche, le forze che costituiscono l’individualità, gli istinti, si configurano come propensioni all’alterità, a ciò che è diverso ed esterno. L’ego, di conseguenza, è un prodotto sociale:

Ci trattiamo come una pluralità, e in questi «rapporti sociali» portiamo tutte le abitudini sociali che abbiamo verso uomini, animali, paesi, cose […] Quali istinti avremmo che non ci porterebbero fin dal principio in una determinata posizione rispetto ad altri esseri, per esempio il nutrimento, l’istinto sessuale? Ciò che gli altri ci insegnano, vogliono da noi, ci ordinano di temere o di perseguire, è il materiale originario del nostro spirito: giudizi di altri sulle cose. Quelli ci danno la nostra immagine di noi stessi, secondo la quale ci misuriamo, siamo o non siamo soddisfatti di noi! Il nostro giudizio non è altro che la riproduzione di giudizi estranei combinati! I nostri stessi istinti ci appaiono nell’interpretazione degli altri 270.

269 F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell’altro in Nietzsche, op. cit., p. 34.

270 F. Nietzsche, F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, tr. di M. Montinari e F.

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Per il pensatore tedesco si pone, dunque, la necessità di assimilare l’alterità, di nutrirsene spiritualmente:

La identità individuale si viene definendo proprio attraverso la relazione ‘nutrizionale’, che l’individuo stabilisce con la alterità. Con queste premesse, che cosa è proprietà individuale? Dove finisce la proprietà – ciò che è proprio – dell’uno e dove inizia la proprietà – ciò che è proprio – dell’altro? Diventa difficile e, anzi, impossibile rispondere a questa domanda nel momento in cui si riconosce che ciascun uomo ‘viene’ dall’altro, dagli altri, in generale dalla realtà ‘fuori’ di lui, nel momento in cui si riconosce che ciascun uomo è quello che è e diventa quello che diventa in virtù del suo nutrirsi dell’apporto che proviene dagli altri uomini e dalla realtà in genere (presente e passata) 271.

Possiamo constatare un’analogia tra le riflessioni di Nietzsche sull’alterità e quelle di Girard. Per quanto il pensatore tedesco non pervenga a un’intuizione compiuta della mimesi né a edificare un sistema incentrato sul desiderio mimetico, condivide l’idea dell’influenza determinante dell’alterità nella costruzione del soggetto, di per sé vuoto, nullo. Per Nietzsche, infatti, un ego puro e monolitico non esiste, esso è soltanto un’illusione. Ugualmente, non esiste un mondo oggettivo, vero, dato. Anch’esso è frutto dell’interdipendenza sociale, delle connessioni quotidiane tra gli individui. Esattamente come nella triangolazione mimetica, nella quale il valore in sé dell’oggetto passa in secondo piano, soppiantato dal prestigio che gli attribuisce il mediatore, nel pensiero nietzschiano la realtà materiale perde la propria autonomia ontologica, sostituita dall’interazione con gli altri soggetti.

La distinzione fra l’“Io” e il “Tu” si dissolve. Ogni individuo è debitore nei confronti di altri individui. Gli uomini, animali relazionali, copiano le azioni e le decisioni degli altri. In termini girardiani, essi sono l’uno l’imitatore dell’altro.

Nietzsche sottolinea l’importanza della costruzione di grandi modelli per definire il proprio sé, vale a dire le inclinazioni, aspirazioni e possibilità. In chiave girardiana, egli afferma la necessità di imitare i mediatori migliori per orientare saggiamente il proprio desiderio:

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I nostri modelli sono costruiti secondo ciò che ci procurerebbe il massimo diletto di noi stessi se lo raggiungessimo, e che, d’altra parte, riteniamo possibile raggiungere (nel dominio delle nostre forze e della nostra situazione). Ciò presuppone l’essere orientati sui nostri sentimenti di piacere, e sulle nostre forze e sul processo oltre che sulle condizioni – un’alta prestazione dell’intelletto: per lo più dovrà essere un inventario! 272

Possiamo riscontrare, ad ogni modo, una differenza rilevante rispetto al pensiero di Girard. Quest’ultimo ritiene l’imitazione un atto immediato, inconscio. A meno che non si tratti di rapporti di relazione esterna, il soggetto imitatore non è mai consapevole di emulare un altro individuo a lui vicino. Ciò si deve al meccanismo del misconoscimento. La sua imitazione, dunque, è essenzialmente passiva. Inoltre, le relazioni imitative intrattenute con il prossimo sfociano sempre in dinamiche di rivalità e violenza. Nel pensiero di Nietzsche, al contrario, il soggetto emulatore costruisce intenzionalmente i propri mediatori, li plasma seguendo le proprie propensioni. Il modello appositamente edificato non si tramuta mai in ostacolo o nemico. Piuttosto, incoraggia il soggetto a realizzare i propri propositi, a essere pago di se stesso. Quella dell’imitatore è, di conseguenza, un’attività responsabile di emulazione. Essa richiede un ingente sforzo intellettuale mirante alla cognizione della propria dipendenza relazionale e dei personali limiti costitutivi. Un’impresa introspettiva che sono in pochi a compiere. Gli altri, al contrario, si lasciano ammaliare e subordinare dal fascino dei loro modelli:

Costruire modelli nostri di vita significa costruire modelli che ci consentano di realizzare il «massimo diletto» tenendo conto delle nostre particolari forze e capacità in rapporto alla situazione effettiva nella quale ci muoviamo. Ciò richiede, come condizione necessaria, la conoscenza, da parte nostra, di ciò che procura il nostro diletto (la conoscenza dei nostri «sentimenti di piacere») e, insieme, delle nostre soggettive possibilità e della situazione oggettiva in cui operiamo. Ma a questa duplice operazione, che presuppone una «prestazione dell’intelletto», non molti sono disponibili. Per questo «i più si lasciano dare un modello e anche la coercizione a imitarlo (“dovere”, una specie di forza creduta invece che conosciuta)273» 274.

Nietzsche, in definitiva, per quanto non incentri tutto il suo pensiero su di essa, come fa Girard, rileva la possibilità dell’imitazione e i suoi effetti deleteri.

272 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881, op. cit., 6 [139], p. 456. 273 ivi

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Come può, dunque, riprendendo la critica di Girard e Fornari, lasciarsi travolgere dall’autorità dei suoi mediatori? In che modo è possibile sostenere che egli misconosca le sue rivalità imitative, quando nei suoi testi emerge la nitida consapevolezza dell’interdipendenza relazionale?

In precedenza, abbiamo visto che Nietzsche non invidia né Gesù l’idiota né il Crocifisso. Lo stesso, possiamo affermare, accade con Wagner. Come sostiene Giorgio Colli, la scrittura di

Umano, troppo umano 275 simboleggia il distacco pacato e meditato, dopo il periodo di forte affezione, dal musicista. L’allievo riesce finalmente a liberarsi dalla relazione di doppio vincolo con il maestro e a conquistare la propria autonomia:

Umano non è da intendere come reazione, favorita dall’incrinatura dell’amicizia, a una visione del mondo

fortemente influenzata da Wagner, ma come posizione conquistata attraverso il maturarsi di pensieri che il legame con Wagner, pur avendoli dapprima suscitati, o comunque arricchiti, aveva tuttavia alla fine ostacolati. […] Wagner si infuriò, quando prese in mano il libro mandatogli in omaggio. La lettura non fu mai condotta a termine, e in questo momento propriamente interviene la sua rottura con Nietzsche. Si era accinto a leggere lo scritto di un discepolo, e lo ritrovò ormai uscito di tutela. Umano segna appunto il passaggio da una fase ancora unilaterale e circoscritta del pensiero di Nietzsche, dove l’originalità e la dipendenza non si distinguono chiaramente, a una conquista di autonomia, alla risoluzione di una disarmonia interiore, mediante un approfondimento filosofico, che d’un tratto gli fa trovare un linguaggio indipendente, e porta il suo pensiero a un’ampiezza che racchiude pacificamente tutto ciò che prima gli era sembrato antinomico 276.

La filosofia di Nietzsche, qualora volessimo interpretarla con il linguaggio girardiano, non rappresenta l’esasperazione del mimetismo, bensì il tentativo di dominarlo, di valorizzarlo artisticamente per la creazione della propria individualità.

L’emulazione attiva e la ricerca dei modelli equivalgono alla cura di sé. Essa non va intesa come legittimazione di un egoismo capriccioso e lascivo, ma come rigido esercizio di autodisciplina. Una pratica che risulta proficua sia per se stessi sia per gli altri. Divenendo, infatti, uomini equilibrati, si offre un esempio di nobiltà e grandezza in grado di spingere gli altri soggetti a migliorarsi. Ciò che rende un individuo forte è il diligente apprendimento

275 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, tr. di S. Giametta: Umano, troppo

umano. Un libro per spiriti liberi, Adelphi, Milano, 1992.

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dell’arte dell’autosuperamento, culminante nell’attitudine a essere un modello positivo per i propri emulatori:

Attenzione, impegno, applicazione, costanza, metodo, esercizio: abbiamo visto Nietzsche rivendicare la fondamentalità dell’esercizio, da parte dell’uomo, di tali qualità. Tali qualità vanno coltivate ed esercitate se si vuol ottenere qualcosa di buono e importante non solo per sé ma anche per gli altri, per sé e, quindi, anche per gli altri […]. Il problema della cura di sé non è, così, solo il problema della determinazione delle condizioni della propria felicità personale, ma anche il problema della determinazione delle condizioni di una propria cura valida, efficace nei confronti degli altri 277.

Per Zarathustra, donare è espressione di saggezza: «Colui che dà da mangiare agli affamati ristora la propria anima; così parla la saggezza» 278.

Il profeta invita più volte i suoi discepoli a non lasciarsi irretire dal fascino dei maestri, lui compreso. Essi devono cercare se stessi, sostenere la propria individuazione, svincolarsi da ogni legame di subordinazione. Egli esige il loro rinnegamento e abbandono. Un vero maestro deve lasciare liberi i suoi seguaci, adoperarsi affinché essi non lo siano più:

Ora vado da solo, discepoli miei! Anche voi andatevene da soli! Così io voglio. In verità, io vi indovino: andate via da me e guardatevi da Zarathustra! Ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato. L’uomo della conoscenza deve non soltanto saper amare i suoi nemici, bensì anche odiare i suoi amici. Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari. E perché non volete sfrondare la mia corona? Voi mi venerate; ma che avverrà, se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una statua non vi schiacci! Voi dite di credere a Zarathustra? Ma che importa di Zarathustra! Voi siete i miei credenti, ma che importa di tutti i credenti! Voi non avevate ancora cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni fede vale così poco. E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi. In verità, fratelli, con altri occhi cercherò allora i miei smarriti; con altro amore allora vi amerò. E un’altra volta ancora dovrete essermi diventati amici e figli di una sola speranza: allora voglio essere tra voi per la terza volta, per celebrare con voi il grande meriggio 279.

Possiamo sostenere che l’insegnamento di Zarathustra sia finalizzato a liberare i discepoli dalle illusioni del desiderio mimetico, dalla degenerazione del doppio vincolo. La critica di

277 Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell’altro in Nietzsche, op. cit, p. 49. 278 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., (8), p. 15.

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Girard e Fornari, riguardante l’ambizione di Nietzsche di incarnare il massimo mediatore privilegiato e venerato, sostituendosi a Dio, non regge.

La cura di sé, per Nietzsche, equivale alla volontà di potenza. Quest’ultima è da intendersi come pratica spirituale di autodominio, come fisiologico equilibrio degli istinti. Il Wille zur

Macht è unione di razionale e irrazionale, la fiducia nell’abilità del pensiero di governare le

passioni e di ordinare il caos delle contraddizioni interiori. Secondo Giuliano Campioni, il filosofo vede nei Greci il popolo che, più di chiunque altro, riesce a domare la dinamicità degli istinti. I Greci sono i maestri del Wille zur Macht:

La serenità e la misura degli dèi dell’Olimpo sono una conquista […]. E sempre più, contro la «niaiserie

allemande» alla ricerca di «anime belle», «armoniose opere plastiche», «alta semplicità», questa appare la forte

lezione di «volontà di potenza» che il popolo greco può dare ai moderni […]. In contrapposizione al magma fluido ed alla dispersione policentrica di energia, «le loro istituzioni» rappresentano una espressione alta di potenza, una misura di protezione che nasceva dalla ricchezza 280.

Negli anni Ottanta, Nietzsche elabora la sua concezione del mondo energetistica, secondo la quale l’intera realtà, tanto interiore quanto esteriore, equivale alla dispersione di flussi di energia e alla contrapposizione di differenti centri di forza. Le loro relazioni formano l’esperienza:

In realtà Nietzsche, verso gli anni Ottanta, approda definitivamente ad una concezione del mondo energetistica da cui coglie con radicalismo i frutti: il flusso di forze incessante mette in crisi ogni irrigidimento dato, sia esso valore, categoria o «cosa». Alles ist Kraft. Questo comporta un disimparare gli opposti come antivitali (materia/spirito, soggetto/oggetto, ecc.) e mettere in movimento tutto. I centri di forza in perpetua lotta tra loro esprimono l’essenza stessa della realtà: ogni sfera di forza dispiega la propria potenza a spese delle altre sfere 281.

La concezione energetistica dissolve l’idea di una natura umana data a priori, vale a dire autonoma e distaccata dal mondo. Ciò che emerge è una prospettiva relazionale, incentrata sul confronto e sull’opposizione dei differenti centri di potenze, corrispondenti agli istinti. Questi ultimi, infatti, s’identificano nell’inclinazione all’azione e all’interazione con altre forze.

280 G. Campioni, Sulla strada di Nietzsche, ETS Editrice, Pisa, 1993, pp. 129-130. 281 ibidem, p. 136.

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Compito del Wille zur Macht, pertanto, è la regolazione degli istinti, la loro concentrazione in un organismo plastico e armonioso:

All’istinto Nietzsche affida la sicurezza dell’azione. Fin dalle opere giovanili il filosofo coglie nella coscienza un elemento superfluo rispetto al modo in cui l’organismo si rapporta alle forze esterne attraverso l’istinto. Ma ne

La nascita della tragedia l’istinto appare come un primum, ora esso è il risultato di un lungo processo di

regolazione delle forze plastiche che costituiscono l’organismo con le forze esterne. Anche gli istinti quindi sono

divenuti: non si può parlare, partendo da essi, di una natura dell’uomo. L’automatismo non è quindi un dato che

la coscienza pone in crisi: la «grande salute» è una conquista degli istinti che si combattono, che si trasformano attraverso la lotta, e, infine, si gerarchizzano 282.

Il Wille zur Macht, dunque, si caratterizza come pluralità di volontà di potenza. La loro relazione consente l’equilibrio dell’organismo e la gerarchizzazione delle forze. Una funzione che, in conformità a quanto detto in precedenza, si svolge soprattutto nel sociale, vale a dire nei rapporti con gli altri individui, a loro volta espressione di diverse volontà di potenza. Nietzsche intende la relazione con i soggetti estranei come uno stimolo all’autosuperamento, vale a dire come l’opportunità di assimilare potenze esterne con cui accrescere la propria, rompendo l’equilibrio interiore realizzato precedentemente e creandone uno nuovo. Un furto, quello del Wille zur Macht, che, tuttavia, si tramuta in uno scambio, nella possibilità, cioè, di elargire e donare il risultato della propria realizzazione:

L’onestà riguardo alla proprietà ci impone di dire che noi siamo il risultato di furti (wir ganz zusammengestohlen

sind), e che in ciò la nostra sensibilità è troppo ottusa e grossolana. L’individuo ha un falso orgoglio quanto alla

materia e ai colori: ma può dipingere un nuovo quadro, che entusiasmerà i conoscitori – in tal modo egli

compensa le sue usurpazioni dei beni del mondo. Concepire la nostra esistenza in modo da fare qualcosa in

cambio di ciò – non come «colpa» ma come anticipo e debito! Noi ci nutriamo di tutto, è giusto che restituiamo qualcosa per il nutrimento di tutti 283.

Ritenere, alla maniera di Girard e Fornari, che la volontà di potenza costituisca un’idealizzazione delle sconfitte biografiche di Nietzsche, un ribaltamento immaginario per

282 ivi, pp. 137-138.

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sopperire alle umiliazioni subite, nonché una patologica alternanza di stati depressivi e maniacali risulta, da quanto abbiamo appena analizzato, del tutto errato, se non superficiale. Il Wille zur Macht non è l’esasperazione della competizione mimetica, né l’ambizione di divenire il modello dei propri nemici. Il filosofo tedesco rigetta ogni tratto fanatico ed estremo del suo pensiero. Quella che viene prefigurata è una concezione della relazionalità nella quale i soggetti coinvolti, le singole volontà di potenza, per quanto possano differenziarsi in termini di quantità di forza, imbastendo una gerarchia in cui uno si presenta come potenza attiva e l’altro come potenza passiva, crescono e si rafforzano vicendevolmente, attraverso la loro interazione. Proprio la differenza quantitativa, consente alla potenza “inferiore” di poter apprendere dalla “superiore”, di nutrirsi della sua esuberanza di energia. Una dinamica che, per Nietzsche, è possibile grazie all’arte del buon apprendimento, alla capacità di riconoscere i propri limiti e alla predisposizione di superarli attraverso l’aiuto di chi è migliore, più maturo.

In termini girardiani, l’emulazione del modello superiore da parte del discepolo permette a quest’ultimo di eguagliare il prestigio del primo, senza precipitare nel conflitto mimetico. Ciò sarebbe possibile attraverso la tecnica della buona e responsabile imitazione, con la quale tanto il discepolo quanto il mediatore potrebbero sfruttare la mimesi per il vantaggio di entrambi. Ad ogni modo, per Girard non si dà nessuna possibilità per l’uomo di dominare il desiderio mimetico e farne uno strumento positivo. L’unica conseguenza che deriva dall’eccessivo avvicinamento dell’imitatore al modello è soltanto la lotta e la crisi d’indifferenziazione.

Per Nietzsche, la relazione tra volontà di potenza diviene nociva soltanto se la più debole, piuttosto che nutrirsi della forza della superiore, s’ingegna a bloccarla e ostacolarla. È il caso, come si è visto in precedenza, del ressentiment e della morale della colpevolizzazione degli schiavi. Ad ogni modo, sarebbe inesatto affermare, come Girard e Fornari, che il filosofo auspichi all’annientamento violento dei più deboli. La tipologia di debolezza che disapprova

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è, in realtà, quella che anela alla sottomissione degli individui tramite i meccanismi subdoli della vittimizzazione e della compassione. Nietzsche, di conseguenza, non inveisce contro la debolezza in generale, bensì contro quella forma d’ipocrisia che sfrutta la propria condizione d’inferiorità per soddisfare la sete di dominio. Quando parla di distruzione dei malriusciti, ciò che intende è l’urgenza della liberazione dalla loro menzognera ideologia:

Si può dire a ragione che difficilmente ci si imbatte in un pensatore che abbia così bisogno di interpretazione come Nietzsche e non è un caso che il suo pensiero sia contraddistinto dal mezzo espositivo dell’ironia più di ogni altro filosofo significativo. […] E mi pare che sia qualcosa di più che un semplice dato biografico il fatto che dietro a questa brutalità si nasconda un’estrema delicatezza. Il primo crollo in seguito alla malattia avvenne,

Nel documento Il doppio vincolo di Cristo. (pagine 155-167)