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Il titolo dell'opera: Da Secchia a Secchia rapita

2 Il genere misto De' ragguagli di Parnaso e della Secchia rapita

2.6 Il titolo dell'opera: Da Secchia a Secchia rapita

298 Ivi, p. 19.

299 Ivi, pp. 2-3.

300 L. Firpo, Il più antico imitatore del Boccalini: Girolamo Briani, (Biblioteca degli eruditi e dei bibliofili, LIX) Sansoni, Firenze

1960.

301 G. Briani, Aggiunta s' Ragguagli di Parnaso Del Signor Trajano Boccalini Romano, Intitolata Parte Terza. Nella quale si

contengono Cinquanta Ragguagli, e un solenne Convito fatto in Parnaso, per Girolamo Briani modenese, Modena 1615(?), pp. 126- 127.

87 Il titolo dell'opera della princeps parigina "La secchia poema eroicomico di Androvinci Melisone" diverrà definitivo nell'edizione romana con il titolo "La secchia rapita".

Il primo titolo misto può essere suddiviso in una parte tematica, La secchia ed in una parte rematica, poema eroicomico, con in chiusura un'indicazione dell'autore che si pone come mascherata di Androvinci Melisone. In particolare la parte tematica, secchia, che costituisce anche il primo titolo dato dal poeta, ci conduce verso un tipo di genere che ha avuto notevole fortuna nel secondo Cinquecento e nel primo Seicento: l'elogio paradossale. L'oggetto secchia salito a rango di tema poetico e di tema poetico eroico paradossale, ci rimanda a tutta una serie di opere cinquecentesche e classiche che sono il sostrato culturale e stilistico presente dietro l'ideazione del genere eroicomico: basti citare, per fare solo qualche esempio, La peste di Berni per l'elogio di una epidemia, oppure La fava di Mauro per l'elogio di un ortaggio, oppure Il forno di Della Casa per l'elogio di un luogo-oggetto e così via. Ma il tipo di titolo paradossale lo ritroviamo anche in precedenti classici che Tassoni nominerà in una delle sue prefazioni, in quella firmata Girolamo Preti, vale a dire la Zanzara attribuita a Virgilio, o l' Elogio della mosca di Luciano, sottacendo ma allo stesso tempo alludendo paralleli anche più significanti, come gli elogi e i biasimi di Elena, che si trovano in Luciano, in Gorgia e persino in una tragicommedia di Euripide.

L'accostamento della parte rematica invece, serve a qualificare il tipo di elogio paradossale e di genere effettuato dal poeta, ovvero porre quel tipo di tradizione in un nuovo genere narrativo che ha i poli oppositivi dell'eroico e del comico. Infine, il nome mascherato serve per diminutio poetica, in stile con la tradizione che prima abbiamo individuato come fondativa del genere, e allo stesso tempo come produttore di curiosità e di ambiguità. Il primo titolo quindi ci indica prima di tutto uno dei modelli primari del nuovo genere tassoniano: l'elogio paradossale.

La tradizione degli elogi e dei biasimi paradossali verso la seconda metà del Cinquecento, ha la funzione di bilanciare le spinte fortemente normative, che vengono sia dall’ambiente ecclesiastico in seguito al concilio tridentino, sia, forse di conseguenza, dall'ambiente letterario, con la riscoperta di Aristotele e la consacrazione delle autorità letterarie di Petrarca, Boccaccio e Dante. Come afferma Maria Cristina Figorilli: “L’elogio paradossale affonda le sue radici nella tradizione retorica antica, come estensione della pratica epidittica che si “perfeziona” nella sperimentazione tecnica di nuovi temi, fino ai più rari e inattesi. Se infatti gli elogi “regolari” attingono i propri oggetti al repertorio degli endoxa (ciò che è universalmente degno di lode), gli elogi paradossali pertengono al campo tematico degli adoxa (materiale di nessun valore) e, appunto, dei paradoxa o admirabilia ( argomenti contro l’opinione comune e per tanto, al di fuori del discorso epidittico, considerati indifendibili)”.302

Se questa è la definizione retorica degli elogi paradossali, nella storia del pensiero e della letteratura, questi elogi hanno assunto nella precarietà ermeneutica della loro relatività, diversi significati. Infatti nell’antichità si può far risalire l’artificio retorico del

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paradosso alla dimostrazione sofistica della forza del logos: “Gli elogi paradossali nel momento di massima espansione della sofistica greca divennero espressione della potenza del logos, delle smisurate capacità tecniche degli oratori, di fronte alle quali tutto diventa lodabile, persino il disvalore e il negativo”.303 Allo stesso tempo un moralista come

Socrate, o ancora un cinico come Diogene, usavano questo espediente retorico o per tendere ad una conoscenza che aveva bisogno di una purificazione continua del contrario, come in Socrate, oppure, per scandalizzare la società e metterne in discussione le sue verità appaganti e quindi immorali, come in Diogene e poi nella setta stoico-cinica. Nell’epoca cristiana invece, l’elogio paradossale diventa una: “corrosione del principio classico del decorum, nella convinzione cristiana che il “basso” e l’umile possano avvicinarsi al divino in misura infinitamente maggiore rispetto ai cavilli della teologia più rigidamente razionalistica”.304

Questa tradizione in tutte le sue varianti si riproporrà nel mondo irrequieto e anarchico dei paradossi cinquecenteschi, e non solo avrà un’ampia diffusione e un importante successo editoriale, ma produrrà nelle generazioni successive in cui inseriamo lo stesso Tassoni, una carica scettica e relativistica che potremmo chiamare libertina. Infatti in Tassoni, questa spinta sarà soprattutto laica, filosofica e lontana da una sotterranea religiosità evangelizzante.

L’Elogio del boia e Il biasimo delle lettere di Tassoni, che possiamo definire come

dei preludi a molti dei suoi Pensieri e alla paradossale Secchia rapita, sono organicamente inseribili in questa tradizione degli elogi e biasimi in prosa, con delle piccole differenze.305 L'Elogio del boia è sì un gioco retorico e accademico, ma è anche, proprio

per la scelta tematica di voler capovolgere i termini di eroismo, una tragica, ma leggera, messa in discussione del principio dell'onore tanto caro allo stesso poeta e al mondo a lui contemporaneo:

Non è, dunque, da esser tenuto infame il boia nec infama iuris nec infamia facti, ma degno d’onore, e di grandissimo onore, poi che l’azzioni sue avanzano quelle de’ più famosi in guerra e de’ più lodati in pace, essendo egli uomo raro per ardir segnalato e per grandezza di cuore; né solamente giusto, ma squadra e braccio della giustizia in terra e che in esser benefattore avanza tutti gli eroi de’ gentili.306

Questo gioco tragico diventa uno spartiacque nell’evoluzione esistenziale e conoscitiva di Tassoni. Nell’Elogio del boia ci sono tutti i temi e le ossessioni dell’autore della Secchia, in un fermento ancora embrionale: il ribaltamento dell’eroismo che supera la morale, il suo andare al di là del bene e del male, si rovescia nell’infamità più statica, come può essere quella del boia, ma comunque eccedente la morale umana. Achille è il boia della sua incontestabile legge eroica, come il boia è un Achille istituzionalizzato.

303 Ivi, p. 7.

304 Ivi, pp. 8-9.

305 “In questa proliferazione manieristica dell’encomio paradossale, molti autori, ovviamente, furono dei piatti e meccanici ripetitori

e solo pochi - come ad esempio il Tassoni, che sulla vena degli encomi paradossali compose non solo la Secchia rapita, ma anche molti dei famosi Pensieri - riuscirono a convogliare in quel drammatico contrasto fra cose e parole una persuasiva voce d’angoscia”. P. Cherchi, L’encomio paradossale nel manierismo, in Forum Italicum, 9 (1975), pp. 368-84, in particolare p. 382.

89 Ancora più esemplare è il biasimo delle lettere, dove il procedimento retorico risulta essere più complesso. Tassoni vuole denunciare la falsità e l’inutilità delle lettere, poiché per lui le lettere non hanno un carattere morale ma solo estetico, di falsificazione del reale. Per spiegare questo concetto elabora una letteratissima e retorica costruzione rovesciante che, sconfessando le lettere, si sconfessa essa stessa. Tassoni però manca di diplomazia: nella sua scrittura, pur di mettere in discussione una pseudo - verità, arriva a sconfessarne addirittura l’esistenza; per confutare il pedantismo e l’autorità dei letterati, arriva a negarne il senso, ben sapendo che il suo è un discorso da letterato e talvolta da pedante. Infatti, dopo vari sfoggi di erudizione, conclude con vanto di reputarsi come il più ignorante fra gli uomini: “Però, se le lettere fanno di questi favori, godane chi vuole, ch’io per me sempre riputerò mia ventura l’esser nato e morir ignorante”,307 ricordando

vagamente quell’io so di non sapere socratico.

A tal proposito è da considerare esemplare l’argutissimo ritratto del letterato che ci presenta Tassoni in questo biasimo:

Narrasi che il tarabusso è un uccello di rostro molto lungo, di copiosissima piuma e di voce tanto terribile che, udita, mette spavento; ma dall’altra parte il busto è piccolissimo, e di poca o nulla carne e di natura così debole e fiacca che, punto che si sforzi il vento, egli non può volarli all’incontro. Questo, se ben si considera, è il ritratto del litterato: severo per lunga barba, nella toga e nel manto pomposo e grande, allo strepito della voce terribile e spaventevole; ma debole di forze, di corpo estenuato e di spirito così fiacco che, dove trova incontro, fuor che alla seconda del vento giamai non vola; d’istorico poeta, di poeta buffone, di filosofo adulatore, d’avvocato menzoniero e di medico ciurmatore.308

L’insinuante disequilibrio dell’elogio del boia e del biasimo delle lettere viene in qualche modo attutito nel libro dei Pensieri, per poi riesplodere nuovamente nella scrittura della Secchia, nel suo tema dominante e nel suo significato scettico-filosofico.

In questo modo Tassoni spiega, in una lettera del 1612, la sua volontà di scandalizzare la società letteraria nel biasimo delle lettere:

Ritornato da Tivoli, ove per alcuni giorni mi sono trattenuto, ho ritrovata una lettera di V. P. tutta piena di care ammonizioni da fare arrossare il settimo libro de' Miei Pensieri, come troppo licenzioso in biasimar le lettere. Prego V. P. ad iscusarlo in virtù di quella dichiarazione, eh' egli fa nel fine del primo Capitolo, sfidando i difensori delle Lettere a giostra non a battaglia, e a mirare che la sua vera intenzione non è di biasimar la natura stessa della cosa, ma 1' abuso in che ella s' è abbandonata. Io non niego che non sia vero tutto quello che dice Vostra Paternità, che le Lettere nelle volontà bene inclinate aggiungano a gli uomini perfezione; ma che le Lettere facciano la buona inclinazione, questo lo nego, e aggiungo di più, che agli animi mal disposti accrescono malizia. Né questo V. P. il mi negherà, veggendo che anche i cibi, che non sono cattivi di lor natura, ne gli stomachi male affetti, si convertiscono in putredine. Le Lettere sono indifferenti al bene, ed al male : e se tali sono, non ha da esser men lecito a me il biasimarle, che agli altri il lodarle ; e se tutti gli altri le lodano, io amo più questa singularità di biasimare una cosa non biasimata da alcuno, che il concorrer con la commune in lodar quello, che alcuno non biasima. Così Carneade si compiacque di lodar l' ingiustizia de' Romani, dalla quale tanti buoni effetti erano poscia nati. Cosi Diogene si fé beffe di colui, che voleva lodar Ercole, domandandogli chi '1 metteva in cosi fatto farnetico di lodare uno che non era mai stato biasimato. Sian l'armi anch' esse indifferenti, come pur pare a V. P. Se queste son biasimate e lodate, perché non si ha da poter fare il medesimo delle Lettere?309

307 Ivi, Discorso in biasimo delle lettere, p. 95. 308 Ivi, p. 75.

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Il voler chiamare i letterati a giostra più che a battaglia, è un elemento tipico dell’atteggiamento di Tassoni, che vede nelle sue provocazioni un punto di partenza per un approfondimento successivo. Proprio quel richiamo a Carneade e a Diogene ci rimanda al carattere cinico delle sue provocazioni, che pretendono di scandalizzare il giudizio di coloro che, in cattiva coscienza, propongono un tipo di moralità ipocrita e falsa. Vediamo che un atteggiamento simile si troverà nella prefazione alle postille sul Petrarca, dove Tassoni biasima quegli “spiriti tisicuzzi” che idolatrano il poeta di Valchiusa:

Odio per certo, nè mal talento contro il Petrarca re de’ melici, non m’ha mosso: ma una stitichezza (per così dire) d’una mano di zucche secche, che non voglion che sia lecito dir cosa non detta da lui, né diversamente da quello ch’egli la disse, né che pur fra tante sue rime, alcuna ve n’abbia, che si possa dir meglio. Come se gli umani ingegni, in cambio di andar perfezionando e loro stessi e le cose trovate, ogni dì più s’annebbiassero; e fosse da seguitare la sacciutezza di certi barbassori, che auggiando gli usi moderni, vestono tuttavia con berrette a taglieri e le falde del saio fino al ginocchio.310

Il suo ideale eroico attivo e politico si riversa nella scrittura come un eccesso di vitalismo del pensiero critico che, di volta in volta, chiama a giostra la società letteraria del suo tempo o i grandi classici della letteratura e del pensiero.

Io non posso se non maravigliarmi che voi altri, signori letterati, tutti siate di opinione che in noi la contemplativa prevaglia di gran lunga all'attiva, immaginandovi che il contemplare e l'intendere in noi siano il medesimo, come nelle Creature Divine, che è il maggior inganno del mondo; perciocché le Creature Divine contemplano nel Ciel sereno, dove noi contempliam nella nebbia; sicché ben è vero che la contemplativa prevale di sua natura all'attiva, ma non in noi che l'abbiamo offuscata.311

Il titolo tematico definitivo de' La secchia rapita esibisce, oltre al nucleo paradossale che prima abbiamo analizzato, una prima prova di quello stile eroicomico che si profonderà per l’intero poema. Se “secchia” è connotata linguisticamente nella tradizione poetica italiana come un termine basso, volgare, popolare, realistico e domestico; il rapimento, invece, convoglia simbolicamente una moltitudine di suggestioni letterarie della tradizione alta, eroica, cavalleresca, partendo naturalmente dall’archetipo del rapimento per eccellenza, quello di Elena. Il titolo tematico racchiude in sé, inoltre, il soggetto centrale del poema, cioè la causa simbolica scatenante l’azione principale: la guerra tra modenesi e bolognesi. Inoltre il titolo rivela l'accostamento del genere eroicomico al modello eroico più forte del cinquecento che è quello della Gerusalemme

Liberata, e prima ancora quello trissiniano de L'Italia liberata dai Goti, mantenendo il

sintagma femminile sostantivo-participio aggettivale e trasformandolo in chiave comica e polemica. Da luogo di conflitto di civiltà, Gerusalemme, simbolo di unione dell'Occidente cristiano, e dal raggiungimento dell'obiettivo Liberata, si passa all'oggetto di una futile contesa municipale disgregante Secchia e al finale simbolico Rapita.

Nella dedicazione al “nipote del Rettor del mondo / del generoso Carlo ultimo figlio” alla prima sestina, interamente seria e canonica, si affianca il distico finale, dove il poeta chiede, anche qui, realisticamente e comicamente, di porgere “l’orecchia” per ascoltare

310 Cito da G. Mazzacurati, Rinascimento in transito, Bulzoni, Roma 1996, p. 167. 311 A. Tassoni, Lettere, vol. II, cit., p. 194.

91 “Elena trasformarsi in una secchia”. Il verso che chiude queste due ottave proemiali, diventa in tal modo la sintesi dell’intero poema, rimandando anche al titolo dell’opera La

secchia rapita, collegando l'oggetto alla bella regina greca. Inoltre, quel trasformarsi,

diventa rivelazione ermeneutica di un poema, che vive di trasformazioni e metamorfosi che vanno dalla tradizione eroica alla storica comicità municipale e viceversa.