• Non ci sono risultati.

Un pensiero tassoniano rivelatore di poetica Poeti antichi e modern

2 Il genere misto De' ragguagli di Parnaso e della Secchia rapita

2.8 Un pensiero tassoniano rivelatore di poetica Poeti antichi e modern

Intorno alla poesia più c’è da contendere. Ella, come altrove fu detto, si divide in due parti, cioè rappresentativa e narrativa. E la rappresentativa gli antichi in due altre la divisero: comica e tragica. Ma i nostri hanno inventata una terza specie né comica né tragica, chiamata pastorale; si che possiamo sicuramente dire che oggi ella si divide in tre, cioè comica, tragica e boschereccia. La narrativa in quattro specie si divide percioché o spiega lodi divine, e chiamasi innica o ditirambica; o narra azioni umane virtuose eccedenti l’uso comune, e chiamasi eroica; o biasima e motteggia i vizi, e chiamasi satirica; o descrive passioni ed affetti, e chiamasi melica o lirica. E ciascuna di queste spezie ha certi suoi modi e versi particulari, essendo che senza versi già conchiudemmo che non si possa far poesia. Alcuni nondimeno de’ nostri hanno queste spezie confuse insieme, facendone risultare un misto che a molti è piaciuto, come per esempio la tragicommedia pastoral del Guarino e ‘l poema di Dante, che potrebbe chiamarsi eroisatirico poi che il suo Inferno non è altro che satira e ‘l Paradiso è tutto narrazione eroica mischiata d’innica e ‘l Purgatorio è parte eroico, parte satirico. E noi ancora abbiamo con la nostra Secchia rapita dato a divedere che si può far poema eroicomico. Di maniera che la poesia nostra, quanto al suo tutto, viene a risultare più assai copiosa che non era l’antica. Che quantunque alcuni degli antichi inventassero alle volte spezie diverse dalle già dette, non furono però lodate nè accettate come le nostre e Aristotele nella sua Poetica non ne fe’ caso alcuno. Ma quanto alla comica e tragica, io tengo i nostri poeti per molto inferiori agli antichi e credo in particulare che sinora non sia stato ritrovato nella nostra favella verso a proposito nè per l’una nè per l’altra.

Comedie in versi, non abbiamo se non quelle dell’Ariosto che meritano d’esser nominate. In prosa n’abbiamo veramente infinite e molte ce ne sarebbero di perfette, riguardando alla favola; ma perché mancano di numero poetico, mancano insieme del nome di poesie. E torto si farebbe a’ poeti veri che usano il verso anteponendo o paragonando loro quelli che scrivono in prosa le medesime cose.

Delle tragedie similmente n’abbiamo di molte fatte da valentuomini in altre professioni; ma in questa, o sia stata la loro poca fortuna o l’imperfezione della nostra lingua nelle cose gravi, non ci è stato finora alcuno che sia arrivato a segno di passar la mediocrità. Ma nelle pastorali all’incontro, dove si richiede dolcezza e languidezza di stile, i nostri poeti hanno scritto con eccellenza tale che non gli agguagliano le

328 Ivi, p. 606.

96

più ornate e leggiadre composizioni degli antichi.

Nella satira alcuni moderni si sono veramente avanzati, come l’Ariosto e ‘l Caporali; ma alcuni altri hanno passato in eccesso tale di maledicenza o disonestà che le loro poesie sono state proibite, come perniziose a’ buoni costumi.

Nella melica furono eccellentissimi i Greci e i Latini; ma certo non furono più eccellenti de’ nostri percioché questa spezie di poesia richiede lo stile ornato e pieno di concetti e d’acutezza e di scherzi, in che la nostra lingua toscana mirabilmente fiorisce. Aggiugnesi che i poeti nostri hanno spogliate tutte l’altre lingue straniere delle più belle frasi e dei più vaghi concetti e n’hanno arricchite in maniera le rime loro che al presente la lirica poesia italiana non è altro che una mirabil raccolta di tutte le bellezze poetiche che non pur sono sparse in diverse lingue, ma che possono in tempo alcuno essere imaginate da qual si voglia gentile spiritoso intelletto.

Rimane a dir dell’eroica, nella quale in tanti secoli i Greci non ebbero altri degno di fama grande che Omero, ne’ cui poemi non si può veramente negare che, oltre la vaghezza e bontà dello stile e del verso, non vi siano parimenti diverse altre bellezze, riguardando massimamente alla rozza età in ch’egli visse. Ma per la maggior parte sono pieni di scipitezze di sorte che l’imitarle al presente sarebbe un farsi tener per leggiero, come fe’ il Tasso, che nella seconda Gierusalemme lasciò la prima favola per imitare Omero e si rimase arenato.

I latini ebbero di molti poeti eroici. Ma que’ loro Lucani e Stazi e Silli Italici furono uomini poco più che mediocri. Sì che l’eccellenza della poesia latina eroica tutta si ristrigne in Vergilio.

Ma noi, lasciati alcuni altri di minor grido, abbiamo que’ due sovrani lumi della lingua e dell’età nostra, l’Ariosto e ‘l Tasso, che l’invidia può bene in questa fresca età scuotere e travagliare, ma non farà già ella che ne’ secoli che verranno non sieno illustri e gloriosi sopra tutti gli antichi. Quantunque gli antichi, non avendo per tanti secoli trovati compettitori, si sieno andati avnzando ad un eccesso di fama tale che ‘l passare più oltre paia richiedere ingegno sovraumano.329

Questo pensiero ci concede numerosi spunti critici per comprendere meglio quali siano le convinzioni poetiche di Tassoni. Vedremo come, dietro ad un pensiero riguardante la comparazione tra poesia moderna ed antica, l’autore suggerisca una propria visione poetica e definisca chiaramente i modelli che convivono nella sua opera maggiore,

La secchia rapita. La prima posizione da evidenziare è tutta di carattere formale. Per

Tassoni non esiste arte poetica che non sia l’arte di comporre in versi, quindi, tutto ciò che è stato scritto in prosa, non merita il nome di poesia: concezione aristotelica, ma diciamo di un aristotelismo intransigente e ortodosso.330

Questa idea era già stata esposta nel pensiero su Lucrezio e Boccaccio, in cui ambedue venivano esclusi dalla sua idea poetica: l’uno perché aveva scritto in versi ma su di un argomento filosofico e scientifico, l’altro perché aveva scritto in prosa una narrazione che aveva delle bellezze poetiche. A tal proposito, con la tipica espressione votata al paradosso, Tassoni aveva espresso il parere che se proprio si fosse voluto dare il nome di poeta ad uno dei due, ebbene sarebbe stato più giusto darlo a Lucrezio, proprio perché aveva scritto in versi. Scrive Tassoni:

La poesia, dunque, è imitazione fatta con numero armonioso di parole. E per questo l’Istoria falsa e i

Dialoghi di Platone e degli altri e le novelle in prosa non meritano nome di poesia perché mancano della

differenza specifica, che è il numero armonioso delle parole. Sì che Luciano, Amadigi di Gaula, Eliosoro, Achille Tazio, Apuleio, Giovan Boccaccio nelle novelle e gli altri di questa schiera saranno imitatori sì, ma poeti non mai.331

329 A. Tassoni, Pensieri e scritti preparatori, cit., pp. 869-870.

330 “Il verso rappresenta per il Tassoni una sorta di quintessenza del dire che da un lato merita considerazione per le sue origini sacrali

e le sue potenzialità di sublimazione della materia, e dall’altro presuppone particolari doti di perizia tecnica o di «industria». Di ciò la restrizione del concetto di poetica al puro artificio formale ( «Poetica è l’arte di comporre bene i proemi»)”. P. Puliatti, introd. a Pensieri e scritti preparatori, cit., p. XXI.

97 Questa affermazione sembra non dare adito a possibili retromarce, ed è anche una spiegazione del perché Tassoni non utilizzi la prosa per la sua invenzione eroicomica, distanziandosi aristocraticamente dalle numerose opere in prosa della sua epoca. C’è, in lui, una ortodossia formale che concede solo al verso e alla forma poetica uno statuto letterario in senso stretto, e qui, risiede anche la distanza che c’è, tra il poema eroicomico italiano ed altre opere italiane ed europee scritte in prosa, che molto hanno in comune con la Secchia, come i Ragguagli di Parnaso, Gargantua e Pantagruel e Don Chisciotte.

Possiamo prendere spunto da questa visione tassoniana per approfondire il problema metrico della Secchia rapita. Scrive Tassoni: “E ciascuna di queste spezie ha certi suoi modi e versi particolari, essendo che senza versi già conchiudemmo che non si possa far poesia”, e la scelta per la sua invenzione eroicomica cadrà sul metro dell’ottava rima.

La scelta dell’ottava per l’eroicomico non è ovvia, soprattutto se vogliamo prestare credito alla testimonianza di un contemporaneo del modenese portata alla luce da Puliatti: secondo l’abate Matteo Pagliaroli, il poeta avrebbe in un primo momento optato per la terza rima.332 Tassoni pertanto avrebbe seguito inizialmente l’esempio di Caporali, dei

poeti berneschi e delle terzine satiriche dell’Ariosto, le quali, come scrive Ferroni, si inseriscono in “una diffusa volontà di costruire un genere discorsivo, mirante a disporre la riflessione morale su di uno sfondo di tipo “realistico”, a mischiare registri e prospettive diverse”;333 nonché ovviamente la via tracciata dal realismo dantesco. Il dubbio iniziale,

sul metro da utilizzare, ci spinge a fare un’ulteriore riflessione per l’interpretazione del poema. La tesi secondo cui Tassoni avrebbe voluto parodiare uno stile epico diventato ripetitivo e stanco non può essere ritenuta fondamentale per la comprensione dell'opera, perché non era questa l’intenzione iniziale del poeta; questo sentore parodico è, forse, una conseguenza della scelta operata verso l’ottava, che aveva raggiunto il suo apice epico in Ariosto ed in Tasso e che, nella riscrittura eroicomica produceva inevitabilmente una degradazione di quello stile.

Tassoni, infatti, avrà l’abilità di innestare le sperimentazioni della terzina burlesca e satirica dei berneschi, e della narrativa dantesca, nel metro più adatto alla rappresentazione narrativa epica, che è l’ottava rima,334 portata al suo splendore da

Ariosto.

Già Dante, era riuscito abilmente a far convivere nella forma metrica della terzina varie strutture: narrative, argomentative e descrittive, e a congiungere il linguaggio elevato (idealizzante) a quello basso (realistico). Berni e i suoi successori, continueranno questo esperimento, per le loro operazioni paradossali, burlesche e satiriche; Caporali cercherà di costruire un poema più ampio con quelle stesse caratteristiche, mentre Tassoni innesterà questa tradizione in terza rima nell’ottava rima narrativa, che comporterà la nascita di un nuovo tipo di ottava, eroicomica. L’idea è quella di dare un nuovo metro al

332 Cfr. P. Puliatti, Tassoni e l’epica, in “Studi secenteschi”, L. S. Olschki, Firenze 1984, p. 40. Sulla testimonianza cfr. anche P.

Puliatti, Problemi attribuzionistici delle rime del Tassoni, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi», XI, vol. I, 1979, pp. 159-195.

333 G. Ferroni, Ariosto, Salerno, Roma 2008, p. 86.

334 Una delle Sentenze di Tassoni recita: “Epicum poëma versus dependentes ac concatenatos requirit […]. Hinc Castrovitreus actavas

98

nuovo genere inventato e non quello di parodiare un metro quale quello dell’ottava, che aveva perso la sua vitalità. Se, per Tassoni, è fondamentale il metro poetico per la creazione poetica narrativa, la sua volontà diventa quella propositiva, di una riforma dell’ottava che riesca a superare il modello eroico e cavalleresco, inglobando altri registri e altri modelli.

Per fare un esempio concreto di come Tassoni cerchi di inserire nell’ottava alcune sperimentazioni proprie della terzina, prendiamo il tipo di ottava dominante, riscontrata dalla maggioranza della critica, procedente verso una soluzione comico-realistica del distico finale:

Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti, rose e gigli il bel volto, avorio il petto, le labbra di rubin, di perle i denti, d'angelo avea la voce e l'intelletto. Maccabrun dall'Anguille in que' commenti che fece sopra quel gentil sonetto

«Questa barbuta e dispettosa vecchia», scrive ch'ell'era sorda da una orecchia. (Secchia, I, 17)

Essa ha il suo modello sicuramente nella tradizione bernesca della terza rima, dove la trovata bizzarra e insolita, ma anche la caduta realistica e familiare veniva scandita anche dalla rima delle terzine o tra le terzine. Così fa per esempio Caporali rimodulando nella terzina una rima cara a Pulci:

Così di quel già glorioso, e magno Pompeo finì la generosa prole; e fu peccato; ch’era buon compagno. (Vita di Mecenate, VIII, 364)

Questo modello lo troviamo imitato esattamente in altre soluzioni comiche all’interno dell’ottava tassoniana, dove si ripresenta proprio il modello della terzina caporaliana:

[…]

l'alma col sangue. E certo fu peccato, ch'amico più fedel non potea darse e non bevea giammai vino inacquato. […]

(S. R., VI, 60)

La trovata di Caporali, di far rimare “Magno” con “compagno” dopo il commento ironico del narratore "fu peccato" è simile a quella tassoniana, di far rimare “peccato” con “inacquato”; essa produce quella caduta comica, che è un fatto caratteristico dell’eroicomico, ma anche della tradizione bernesca. Confrontiamo per esempio questa descrizione polemica della primavera, con la sua altalenante discordanza di registro nel

Capitolo primo della peste di Berni con la prima descrizione della primavera nella Secchia rapita:

99 Cominciano e poeti dalla destra

parte dell'anno e fanno venir fuori un castron coronato di ginestra;

copron la terra d'erbette e di fiori, fanno ridere il cielo e gli elementi, voglion ch'ogniun s'impregni e s'inamori;

che i frati, allora usciti de' conventi, a' capitoli lor vadano a schiera, non più a dui a dui, ma a dieci e venti; fanno che 'l pover asin si dispera, ragghiando dietro alle sue inamorate; e così circonscrivon primavera.

(Capitolo primo della peste a maestro Piero Buffet cuoco, 10) Del celeste monton già il sol uscito,

saettava co' rai le nubi algenti, parean stellati i campi e 'l ciel fiorito, e sul tranquillo mar dormieno i venti; sol Zefiro ondeggiar facea sul lito l'erbetta molle e i fior vaghi e ridenti, e s'udian gli usignuoli al primo albore e gli asini cantar versi d'amore, (S. R., I, 6)

Alla polemica metaletteraria esplicita e argomentativa del Berni si sostituisce quella narrativa implicita di Tassoni, ma è evidente che l’ultimo verso su cui è concentrata la sferzata "gli asini che cantano i versi amorosi" deriva proprio da quel movimento altalenante delle terzine bernesche, da stile elevato a contrappunto polemico.

Un altro esempio che prendo però dai primi due versi di un sonetto e non da una terzina tipico di Berni, è quello di far dialogare due versi di registro opposto:

Chi vuol veder quantunque può natura In far una fantastica befana

(Rime, Sonetto in descrizion dell’Arcivescovo di Firenze, LXI, 1-2) Dove l’incipit petrarchesco

Chi vuol veder quantunque può Natura e ’l Ciel tra noi, venga a mirar costei,

(Rerum vulgarium fragmenta, CCXLVIII,1-2)

serve per introdurre un’iperbole paradossale. È lo stesso procedimento che farà Tassoni per i versi che introducono il suo poema:

Vorrei cantar quel memorando sdegno ch'infiammò già ne' fieri petti umani un'infelice e vil secchia di legno (S. R., I, 1)

100

Dove il “vorrei cantar” e il “memorando sdegno” vagamente omerico (l’“Ira funesta”) servono a connotare paradossalmente “un’infelice e vil secchia di legno”.

Sia Giorgio Bàrberi Squarotti che Maria Cristina Cabani hanno individuato nell’invenzione dell’ottava eroicomica di Tassoni una discendenza dall’ottava ariostesca. Per Bàrberi Squarotti:

[...] non è da dire che il Tassoni abbia qui inventato specificamente tale struttura dell’ottava [si riferisce

naturalmente dell’ottava eroicomica con la sua specifica caduta nel distico finale], è fin troppo facile

risalire a un’eco ariostesca, se non si vogliono reperire più lontane suggestioni popolaresche (sì, i cantari), secondanti naturalmente il tendere dell’ultimo distico, con la rima baciata, a risolvere e a racchiudere in sé la conclusione della battuta, l’enormità, lo straordinario, la sorpresa. [...] Ma, più opportunamente forse, proprio un «oggidiano» come il Tassoni, sarà da rammemorare il versante barocco della costruzione verbale del discorso: la tensione che, nei sonetti del Marino e dei marinisti, si scarica nel supremo artificio della terzina conclusiva.335

Bisogna precisare, però, due cose fondamentali: la prima, che è ovvia l’affermazione che l’ottava concentra nel distico finale la battuta, la sorpresa e lo straordinario, perché è una caratteristica propria di quel tipo di forma metrica; la seconda, che quando parliamo della particolarità dell’ottava eroicomica ci riferiamo alla caduta o se vogliamo alla differenziazione di stile, di registro che spesso ma non sempre si concentra nel distico finale. Questa particolarità non è ascrivibile né ad Ariosto, che non presenta forti cadute stranianti stilistiche o linguistiche, né ai cantari che al contrario non avendo forti sfumature di registro non potevano in alcun modo giocare nell’ottava su due piani.

Anche Cabani procede nella stessa direzione di Bàrberi Squarotti:

Il distico baciato è il luogo prediletto per il basso-comico, per il fisiologico corporale, per il dialettale, per l’osceno e via dicendo. Tassoni si limita a estremizzare spunti che potevano provenirgli tanto da Pulci quanto da Boiardo e Ariosto, i quali avevano già sperimentato quel particolare uso della cadenza baciata.336

Che il distico baciato sia il luogo prediletto per il basso-comico, in specie nella

Secchia, avrei i miei dubbi, ma se si vuole affermare che, spesso, Tassoni utilizzi il distico

finale per lo straniamento dall’apertura epica, sono d’accordo. Ciò è dovuto, però, alla specificità dell’ottava, che tende a concludersi nel distico finale, quindi è in quella “estremizzazione”, nel senso di particolarità tassoniana, che va individuata, mentre non è sicuramente molto presente in Ariosto, o in Boiardo, e tantomeno in Pulci. Infatti, dalle reminiscenze e dalle citazioni dei poeti epici, che Cabani riporta per il distico finale dell’ottava eroicomica, nessuna ha quella caratteristica, non dico “estremizzante”, ma neanche di sfumata forza straniante:

seguitatemi voi, ché larga strada

io vi farò col petto e con la spada S.R. I 25 ch’io m’offerisco farti con la spada

tra gli nimici spaziosa strada O.F. XVIII 173

335 B. Squarotti, La struttura della «Secchia Rapita», in Studi Tassoniani, cit., p. 47.

101 e illuminò così l’aer dintorno

che parve senza sol nascere il giorno S.R. IV 22 Gli fece luce mostrandoli intorno,

Come un sol fosse in cielo a mezo giorno O.I. II VIII 18 Cotanti lumi accesi avea de intorno,

Che si cerniva come fusse il giorno O.I. III I 53 sì chiaramente ognun si vedea intorno

che la notte parea mutata in giorno O.F. XL 6 or da la nube uscendo i raggi intorno

più chiari spiega e ne raddoppia il giorno G.L. IV 29 giugneano a punto al numero di mille

gli armati abitator di quattro ville. S.R. III 32 mandò cento cavalli, e intorno a mille

fanti raccolti da sue amene ville. S.R. III 47 E queste quattro avean sei volte mille

fanti raccolti da sessanta ville. S.R. III 73 Taccio d’Argenta, di Lugo e di mille

altre castella e populose ville O.F. III 41 Poi raccoglieva una città di mille

in val di Po case disperse in ville G.L. XVII 70337

Dobbiamo dire, invece, che proprio queste reminiscenze individuate dalla critica, ci invitano ad allontanarci dall’idea che solo nel distico finale Tassoni avrebbe attuato quella discesa comico-straniante, rispetto all’impianto complessivo dell’ottava. Gli esempi, infatti, dimostrano come nell’ottava eroicomica non ci sia sempre lo stesso movimento, ma convivano una varietà di soluzioni. Partendo proprio dai distici individuati e risalendo all’intera ottava, possiamo vedere che l’effetto straniante può essere presente all’interno dell’ottava con parole dialettali e volgari, come nel caso del primo esempio riportato:

Allor Gherardo a' suoi diceva: - O forti, ecco Dio che divide e che confonde questi bedani. Udite i lor consorti, che sono del Panaro anco a le sponde. Prima del giugner lor, questi fien morti, pochi e stanchi e ridotti entro a quest'onde. Seguitatemi voi, ché larga strada

io vi farò col petto e con la spada - . (S. R., I, 25)

Oppure possiamo notare come non sia affatto presente, e l’intera ottava si muova canonicamente nel registro epico:

Passavan cheti e taciturni avanti, 337 Ivi, pp. 170-171.

102

senza ronde scontrar né sentinelle, quando cessaro a l'improviso i canti e i gridi e gli urli andar fino a le stelle. I cavalli lasciaro addietro i fanti allora e Marte accese due facelle e illuminò così l'aer d'intorno che parve senza sol nascere il giorno. (S. R., IV, 22)

Nel caso del topos ripetuto nei distici finali delle rassegne degli eserciti della Secchia con la rima mille-ville, troviamo un innalzamento di registro nella reminiscenza epica rispetto alla prima sestina dell’ottava, ricordando che i toponimi e i nome di persone, hanno un ruolo di straniamento comico-popolaresco:

Bertoldo Grillenzon li conducea, gran giucator di spada e lottatore; nella bandiera un materasso avea, che sdrucito spargea la lana fuore. Questa schiera de l'altra esser potea, se non uguale, almen poco maggiore; giugneano a punto al numero di mille gli armati abitator di quattro ville. (S. R., III, 32) Ma le due di Soraggio e di Sillano, da Otton Campora l'una era guidata, l'altra da Iaconia di Ponzio Urbano,