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2.17 APPRENDIMENTO SOCIALE NEL CANE

2.17.1 Imitazione vs incentivazione allo stimolo Imitazione cane-uomo e cane-cane

cane

Sono stati condotti alcuni studi che hanno dimostrato come i cuccioli di cane impiegati per la ricerca degli stupefacenti, apprendono molto più rapidamente la loro mansione se hanno potuto osservare le loro madri svolgere il loro “lavoro” (Fugazza, 2011; Kaminski e Brauer, 2008).

Nel 2001 Pongracz ed i suoi collaboratori, misero appunto alcune procedure sperimentali per tentare di valutare la capacità del cane di imitare un modello umano, lo scopo era anche quello di valutare in che modo avviene l’imitazione e quale potrebbe essere la motivazione che spinge il cane ad imitare (Pongracz et al., 2001, 2003, 2005).

Negli studi condotti dagli Autori appena citati, venne utilizzato un ostacolo avente forma di V e si osservò il comportamento di “detour” cioè il comportamento di aggiramento del medesimo. I ricercatori, posizionarono una ciotola contenete cibo oppure un giocattolo, in un punto preciso di un recinto a forma di V. Non era possibile per i soggetti in studio, arrivare direttamente alla risorsa, ma occorreva aggirare il recinto stesso. Inizialmente fu evidente la difficoltà incontrata dai cani nella risoluzione del compito assegnato loro. A questo punto vennero creati tre gruppi:

- il primo gruppo di cani non aveva mai osservato la soluzione del problema che gli veniva presentato, quindi non aveva ricevuto nessun aiuto;

- il secondo gruppo di cani, poteva osservare una persona sconosciuta aggirare l’ostacolo quindi ricoprire il ruolo di dimostratore che mostrava la soluzione del problema;

- i cani del terzo gruppo, potevano osservare i rispettivi proprietari, come modelli che eseguivano il compito di aggiramento dell’ostacolo.

Ciò permise anche di valutare quanto il grado di conoscenza della persona che ricopriva il ruolo di dimostratore, fosse influente sulla prestazione del cane.

I risultati del test, mostrarono chiaramente come, i cani appartenenti ai gruppi due e tre, erano riusciti a svolgere il compito richiestogli molto più rapidamente rispetto ai cani che non avevano ricevuto alcun aiuto (cani del primo gruppo). Sembra infatti, che i cani del secondo e del terzo gruppo, riuscissero a trovare più rapidamente il percorso corretto per raggiungere la risorsa (cibo o giocattolo), rispetto agli altri. Non furono rilevate sostanziali differenze tra i cani del secondo ed i cani del terzo gruppo, a dimostrazione che il legame con il dimostratore non sembrava essere influente.

In seguito, venne praticata una porta nel recinto e fu possibile osservare come i cani, nonostante questa agevolazione, preferissero eseguire ancora il percorso più lungo; quello cioè mostratogli da un dimostratore umano (Kaminski e Brauer, 2008).

Con il tempo, ci si è chiesto se si trattasse realmente di imitazione; secondo la definizione già citata, riportata da Thorndike (1898), imitare significa apprendere ad eseguire un’azione osservandone l’esecuzione. Volendo applicare tale definizione a quanto osservato da Kaminski e Brauer (2008), si nota come in realtà la definizione stessa non sia del tutto calzante, infatti, i soggetti testati, eseguirono sì l’azione dimostratagli dal modello umano, ma lo fecero senza eseguire pedissequamente le stesse azioni. I dimostratori, infatti, eseguirono il detour una volta girando verso la destra del recinto ed una volta girando verso sinistra, ma ciò sembrò essere ininfluente per i cani (Kaminski e Brauer, 2008).

Thorpe (1963), fornisce una definizione più appropriata per tale fenomeno, egli parla di incentivazione localizzata dell’attenzione, definita come imitazione apparente conseguente alla focalizzazione dell’attenzione di un animale nei confronti di un oggetto o di un aspetto ambientale. In altre parole, il dimostratore umano, avrebbe solamente focalizzato l’attenzione dei cani sul percorso da seguire (Miller et al., 2009; Kaminski e Brauer, 2008). Inoltre fu possibile osservare che non necessariamente il dimostratore doveva essere un essere umano, poteva anche trattarsi di un oggetto che, comunque, contribuiva a focalizzare l’attenzione del cane sul percorso. Kaminski e Brauer (2008), utilizzarono un’automobilina che veniva trascinata vicino al recinto ed ottennero i medesimi risultati ottenuti utilizzando un modello umano (Kaminski e Brauer, 2008).

A questo punto, ci si chiese cosa poteva cambiare nel caso in cui il dimostratore fosse stato un cane. Venne eseguito un nuovo studio in cui del cibo, venne posizionato sotto un cesto intrecciato e poi sopra ad un asciugamano. Il cibo era visibile, ma non raggiungibile direttamente se non tirando l’asciugamano stesso. I cani furono divisi in due gruppi:

- il primo gruppo di cani, doveva risolvere il problema senza nessun aiuto;

- il secondo gruppo di cani, doveva risolvere il problema dopo aver preventivamente osservato un cane (“cane tutore”) che lo eseguiva.

I soggetti del primo gruppo, portarono a termine il compito tirando l’asciugamano con il muso o con una zampa, ma impiegando un tempo ragguardevole, il secondo gruppo di cani, eseguì il compito molto più rapidamente se paragonato ai soggetti appartenenti al primo gruppo. Anche in questo studio, si osservò che i cani, focalizzavano la loro attenzione sulla mansione da svolgere, ma non su come eseguirla, nel senso che il cane tutor, poteva tirare l’asciugamano con il muso, mentre i

cani osservatori, portavano a termine lo stesso compito servendosi della zampa. Quindi, è possibile affermare che è più appropriato definire questi fenomeni di apprendimento utilizzando il termine di

rinforzo locale o incentivazione localizzata dell’attenzione, piuttosto che il termine imitazione

(Kaminski e Brauer, 2008).

Ciò condusse alcuni ricercatori a concludere che, i fenomeni di imitazione nel cane, sono spiegabili prendendo in considerazione meccanismi più semplici come il contagio oppure l’incentivazione allo stimolo (Mersmann et al., 2011).

Miles ed i suoi collaboratori (1996), avevano eseguito studi sull’apprendimento per imitazione nelle scimmie; seguendo l’onda di queste ricerche, Topàl e collaboratori (2006), applicarono il protocollo “Do as I do!” alla specie canina.

Miles e collaboratori (1995). Miles, osservò un orango, al quale era stato dato il nome di Chantek e valutò le sue capacità di imitare azioni precedentemente proposte da un dimostratore umano. Chantek, era stato allevato dall’uomo ed aveva appreso il linguaggio gestuale; quindi si ipotizzò che potesse essere più avvantaggiato nel riprodurre le azioni presentate dall’uomo perché più abituato ad interagire, osservare e comunicare con esso. Custance (1995) invece, aveva condotto studi analoghi su scimpanzé che non possedevano le stesse capacità cognitive di Chantek. Dallo studio condotto sull’orango, fu possibile dimostrare la capacità dello stesso di riprodurre le azioni mostrategli dall’uomo, anche se l’orango, non riuscì mai nell’intento di replicare gli stessi comportamenti in maniera esatta (Miles et al., 1996 in Range et al., 2007).

Topàl, nel 2006 eseguì degli studi su un cane: un Tervuren di nome Philip, si trattava di un cane per assistenza ai disabili e gli furono proposte differenti azioni dimostrate da un modello umano. Egli, fu in grado di apprenderle e riproporle. Come era già stato fatto con le scimmie, vennero insegnati a Philip vari comportamenti che il cane imparò a ripetere dopo aver osservato un modello umano metterli in pratica, in più, veniva impartito il comando “Do it!” per indicare a Philip che doveva ripetere l’azione. In seguito, Philip, fu in grado di ripetere sequenze di azioni non conosciute dimostrate dagli sperimentatori (Topàl et al., 2008).

Successivamente, furono condotti ulteriori studi per indagare le capacità imitative del cane; in uno studio condotto da Miller e collaboratori nel 2009 vennero esaminati quattro gruppi di cani che dovevano aprire un pannello scorrevole. Tale pannello, nascondeva uno sperimentatore che avrebbe premiato il cane con del cibo, al momento della sua apertura. Il primo gruppo, era composto da cani che avevano la possibilità di svolgere il compito assegnatogli, dopo aver osservato un altro cane portarlo a termine; il secondo gruppo, era composto da cani che potevano veder aprire il pannello scorrevole senza osservare nessun dimostratore (uomo o cane) aprirlo. Il tutto avveniva alla presenza del cane modello. Il terzo gruppo, era composto da cani che osservavano un modello umano eseguire l’apertura del pannello ed il quarto gruppo, era invece, composto da cani che vedevano il pannello aprirsi senza l’intervento di un dimostratore come se non esistesse un reale motivo. In quest’ultimo caso, non era presente, come invece nel gruppo due, il cane modello. I risultati migliori li mostrò il gruppo di cani che aveva avuto un conspecifico come dimostratore (Miller et al., 2009).

Nel 2009, Range ed i suoi collaboratori, condussero altri studi sull’argomento; oggetto di studio fu una femmina di Weimaraner chiamata Joy, partendo dal protocollo applicato da Topàl et al., (2006), eseguirono varie valutazioni:

- vagliarono se esistevano differenze nell’imitazione di azioni dirette verso oggetti o su parti del corpo;

- valutarono se esistevano differenze tra azioni funzionali ed azioni non funzionali;

- esaminarono se esistevano differenze tra azioni conosciute dal cane e azioni non conosciute. I risultati evidenziarono che Joy, nell’approcciarsi ad azioni nuove, si avvicinava sfruttando comportamenti da lei già conosciuti, in più le occorrevano almeno tre ripetizioni per poter riproporre il nuovo comportamento. Quando venivano presentate a Joy sequenze di azioni, essa le scomponeva in comportamenti singoli molto simili a comportamenti già conosciuti. Le azioni riferite ad oggetti, si mostrarono più facilmente ripetibili rispetto a quelle riferite a parti del corpo anche se non c’era un precedente conoscenza dell’azione da parte del cane (Topàl et al., 2006).

2.17.2 Imitazione selettiva nel cane

Le informazioni rilevanti ed essenziali, possono essere trasmesse alle generazioni future, proprio in conseguenza al fatto che non tutto il sapere viene trasmesso alla prole, si può parlare di “imitazione

selettiva” (Range et al., 2007).

Nel processo di imitazione selettiva, c’è l’esigenza di definire con precisione quali siano le informazioni rilevanti da selezionare ed imitare. Questa capacità è stata dimostrata nei neonati tra i 3 ed i 12 mesi e fu osservata anche nel cane (Range et al., 2007).

I cani furono suddivisi in tre gruppi:

- il primo gruppo, comprendeva cani che potevano osservare un cane dimostratore utilizzare una zampa per tirare una barra, essendo la bocca impegnata da una pallina;

- il secondo gruppo, di cani osservava un cane “modello” utilizzare sempre la zampa per tirare una barra nonostante la bocca fosse libera;

- il terzo gruppo di cani, rappresentato dal gruppo di controllo, eseguivano il compito di tirare la barra utilizzando la bocca, a causa di una loro spontanea preferenza.

L’uso della bocca per l’esecuzione del compito assegnato, era il più efficace; come dimostrato dal gruppo di controllo che per preferenza spontanea, tirava la barra servendosi appunto della bocca. Nel primo gruppo, l’uso della zampa, aveva come giustificazione, il fatto che la bocca fosse occupata dalla presenza della pallina, nel secondo gruppo, l’azione mostrata dal cane “modello” non era giustificata, in ragione del fatto che, il dimostratore, presentava la bocca libera. I risultati emersi da questo test, videro i cani del primo gruppo utilizzare la bocca per tirare la barra e quelli del secondo utilizzare, invece, la zampa. Ciò fu la dimostrazione che i cani, proprio come i bambini, non imitano pedissequamente un’azione mostrata da un dimostratore, ma la rielaborano attraverso un processo interpretativo, comprendendo l’importanza del contesto in cui l’azione si realizza e la finalità dell’azione stessa (Range et al., 2007).

2.17.3 Imitazione automatica e differita nel cane

Con il termine di “imitazione automatica”, si definisce una tipologia di imitazione in cui il movimento compiuto da un dimostratore, tende ad elicitare il maniera appunto automatica, lo stesso movimento nell’osservatore, anche se, comunque, si assiste ad una riduzione dell’efficacia nel portare a termine il compito. L’ipotesi formulata è che questa tipologia di imitazione, sia essenziale per l’apprendimento imitativo e di fondamentale importanza per la trasmissione culturale (Range et

al., 2011).

L’imitazione automatica è stata indagata da Mui e collaboratori (2008) nel parrocchetto (Melopsittacus undulatus) e di seguito da Range ed i suoi collaboratori (2011) nel cane.

Gli studi proposti da Range e collaboratori, prevedevano di prendere in considerazione dei cani che venivano poi suddivisi in due gruppi. Il set sperimentale, prevedeva l’osservazione del proprietario che apriva un pannello scorrevole con la testa oppure con una mano. Dopo alcuni secondi dall’osservazione, il cane, veniva stimolato ad aprire lo stesso pannello. I cani facenti parte del primo gruppo, venivano premiati se utilizzavano per l’apertura del pannello la medesima parte del corpo (testa o mano) utilizzata dai proprietari, mentre, i soggetti appartenenti al secondo gruppo venivano ricompensati quando utilizzavano la parte del corpo errata, rispetto a quella utilizzata dai proprietari. La prova veniva ripetuta fino a che, i soggetti testati, non raggiungevano un livello costante ed un criterio fisso nelle risposte messe in atto. Osservando i risultati, è stato possibile appurare come, i soggetti appartenenti al secondo gruppo, mostrassero maggiore difficoltà nel raggiungere un criterio fisso nel ripetere le azioni viste svolgere dal proprietario. Ciò suggeriva che i cani, avessero la tendenza ad imitare automaticamente i movimenti osservati dal proprietario per espletare il compito ricevuto ed ottenere così un premio. Tale tendenza dei cani, che sarebbe del tutto naturale, entrava in contrasto con il fatto che, i soggetti del secondo gruppo, venivano premiati quando mostravano il comportamento opposto a quello dimostrato dal proprietario. L’imitazione, in questo studio, risulta essere in contrasto con l’efficienza dei soggetti nel risolvere il compito (Range

et al., 2011).

Lo studio, è proseguito ed è stata messa in atto la seconda fase, a questo punto i cani ricevevano un rinforzo solo quando esprimevano tendenze imitative vere e proprie; vale a dire quando aprivano il pannello con il muso se il dimostratore lo aveva fatto con la testa, o usavano la zampa se il “modello” aveva utilizzato la mano. A questo punto, fu possibile osservare che i cani del secondo gruppo, facevano più errori rispetto ai cani del primo gruppo (Range et al., 2011).

Jean Piaget (1962), psicologo e pedagogista, utilizzò il termine di imitazione differita per descrivere una capacità dei bambini tra i 12 ed i 24 mesi di età, di riprodurre l’azione svolta da un “modello” anche dopo ore o giorni dall’osservazione del medesimo. Ciò presuppone che i bambini, siano in grado di conservare nella mente, una rappresentazione del “modello” osservato.

Bering ed i suoi collaboratori nel 2000, condussero uno studio proprio sull’imitazione differita nei primati, in particolare negli scimpanzé e negli oranghi. Gli individui venivano lasciati ad osservare degli oggetti messi a loro disposizione per circa 4 minuti, in questo intervallo di tempo veniva loro

mostrato come utilizzarli per la risoluzione di un compito; dopo circa 10 minuti, gli venivano forniti gli stessi oggetti e si osservavano le loro azioni. I risultati ottenuti, indicarono la presenza dell’imitazione differita come abilità cognitiva nei primati.

Fugazza e Miklosi, (2012) stanno svolgendo studi sull’argomento riferiti al cane; stanno cioè valutando se i cani, siano in grado di mostrare imitazione differita, cioè, se siano capaci di riproporre un’azione dimostrata dal proprietario, anche dopo un certo lasso di tempo. Infatti, riprodurre l’azione contemporaneamente al “modello” che la mostra all’animale, potrebbe far pensare ad una “facilitazione sociale” o ad un “contagio”, in cui, l’azione svolta dal “modello”stesso, ricoprirebbe il ruolo di stimolo per l’emissione dell’azione stessa o di una simile. Fugazza nel 2011, ha apportato alcune modifiche al protocollo “Do as I do”, vale a dire che si è insegnato ai cani ad attendere 5 secondi prima di riproporre l’azione “dimostrata” dal proprietario. Successivamente, il periodo di attesa, è stato allungato a 10 secondi e di seguito è stato possibile osservare che i cani erano in grado di riproporre l’azione osservata anche una volta trascorsi 10 minuti di tempo (Fugazza e Miklosi, 2012).

Si è osservato che l’imitazione, si verifica anche se durante l’intervallo di tempo, il proprietario, richiede al proprio cane di svolgere alcune esercizi come il mettersi a terra o il riportare una pallina che non sono strettamente in relazione con il comportamento da imitare (Fugazza e Miklosi, 2012). Parte degli studi citati, sono ancora in corso ed i dati riportati sono solamente indicativi, ma si può comunque affermare che i cani possiedono una memoria e sono dotati della capacità di richiamare alla mente azioni viste in precedenza per poi riproporle.