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4.2 Percezioni e aspettative

4.2.4 Inclinazioni

Nella fisica aristotelica il termine ormé (ὁρμή), di solito tradotto in latino con impetus e in italiano con «inclinazione», indica la spontanea tendenza degli elementi a mutare o a cambiare luogo.193 Per analogia, possiamo dire che una persona sia

incline ad eseguire una certa azione quando si trova in una determinata situazione. In particolare, suppongo che le inclinazioni siano delle aspettative percepite dalla

192Per comodità, non ho considerato il fatto che le misurazioni all’aperto (aeroporto e bosco) risentono del vento e gli strumenti vanno tarati anche su questo fattore.

persona allo stesso modo delle affordance, ma meno legate alle informazioni sensoriali immediate e più connesse al bagaglio conoscitivo ed esperienziale. Allo stesso tempo, esse devono incorporare le azioni possibili da compiere. Dunque, un’inclinazione non è un generico what if, ma una simulazione che coinvolga l’attore in prima persona e includa le possibili conseguenze dell’azione in quella specifica situazione: «se facessi questa azione, dovrebbero avvenire questi determinati effetti», oppure, invertendo l’ordine causale, «per ottenere questi effetti, dovrei fare queste azioni».

A questo punto, siamo pronti per tornare alla teoria della competenza, e in partico- lare alla composizione del dominio. Il compito del concetto di inclinazione è collegare le azioni possibili alla situazione. E i problemi?

L’immediato locus del problema riguarda, allora, il genere di risposte che l’organismo deve dare. Riguarda l’interazione delle risposte organiche194e delle condizioni ambientali nel loro procedere verso un risultato reale.195

Queste parole di Dewey esaminano il fine di ogni problema: produrre un risultato. Nel paragrafo4.1.1abbiamo già visto che il problem solving si conclude con lo stabilire (o ristabilire) una certa situazione. Questo obiettivo si raggiunge attraverso le varie azioni, la cui linea guida, cioè il principio che le tiene unite, è il problema da scoprire, impostare e infine risolvere.

La mia ipotesi, dunque, è che l’attore umano, immerso in un ambiente, e in particolare in una specifica situazione, non si chieda direttamente quali siano le possibili azioni. Forse molti animali fanno così. Ma l’uomo agisce con un fine, cercando un principio razionale che guidi il suo comportamento. Dunque, mi sembra che la prima operazione che egli compia sia cercare di scoprire un problema, per poi impostarlo e risolverlo. Con questa mia osservazione, ci ricolleghiamo alla tesi di Dewey vista nel paragrafo4.1.1, secondo cui la riflessione ha come fattore di guida proprio la risoluzione di una «perplessità». Ciò equivale semplicemente ad affermare che il nostro punto di partenza sono le azioni intenzionali che hanno un fine. D’altra parte, sarebbe ben strana una teoria della competenza in cui si parta dall’inconscio o dalle azioni non intenzionali, etc.

La teoria della morficità delle azioni, da questo punto di vista, ci ha già fornito una solida base concettuale. Infatti, il nostro concetto di azione, a differenza di quello di Gibson, include anche quelle molto astratte, come scrivere un’equazione, ordinare elementi secondo un certo criterio, assegnare o meno una rilevanza o una priorità, etc. Le uniche limitazioni, ricordando la teoria della morficità, sono l’intenzionalità e il significato. Quest’ultimo dev’essere garantito all’interno della comunità dell’attore. D’altra parte, come visto, le inclinazioni, che sono possibili azioni, vengono in qualche modo influenzate dalla propria formazione, dalla cultura, etc. Dunque, le diverse prospettive concordano pacificamente.

Seguendo gli ordini, possiamo distinguere un’inclinazione «diretta», in cui l’attore interagisce con la situazione, al fine di scoprire un problema. Questo è il modo di razionalizzare la situazione, un processo necessario per l’uomo. Egli cerca gli elementi della situazione che gli sembrano più utili, e ne trascura altri; li ordina e li classifica; li isola dal contesto; ne osserva il layout (forme e colori); ne cerca dei possibili feedback sensoriali (tatto, olfatto, etc.); li manipola, etc. Con l’uso dell’intuizione, infine, giunge alla scoperta di un problema, cioè riesce ad incanalare la situazione in qualcosa di formulabile linguisticamente, che abbia un obiettivo preciso.196 Dopo la scoperta,

194Cioè dell’organismo. 195Dewey,1974, p. 160.

l’attore non si confronta più con la situazione, ma con il problema da lui stesso formulato: qui entra in gioco un’inclinazione «indiretta».

I vantaggi della formulazione del problema sono molteplici. In primo luogo, esso è comunicabile. La situazione, infatti, è troppo varia per poter essere comunicata in modo completo con le parole. Il problema, invece, è per definizione formulabile in almeno un linguaggio, che sia quello ordinario o uno specialistico. In secondo luogo, poiché il problema tralascia aspetti della situazione considerati irrilevanti, esso offre una notevole generalizzazione, che consente di accomunare situazioni anche molto dissimili tramite la scoperta dello stesso problema. In terzo luogo, il processo di astrazione che conduce dalla situazione al problema consente di applicare strumenti concettuali altrimenti inapplicabili. Ad esempio, la formulazione linguistica consente di far entrare in gioco concetti fisici come pressione, peso, etc., oppure concetti geometrici come triangolo, quadrato, distanza. Da qui, durante l’impostazione si può procedere alla misurazione delle grandezze fisiche e geometriche.

Non ci si deve far ingannare dal fatto che le misurazioni, che abbiamo inserito nel problem setting, siano compiute nella situazione. Dopo la scoperta, l’attore inquadra ogni cosa nel problema formulato, cercando di impostarlo e risolverlo, comprese le misurazioni e le modifiche della situazione. Di norma, può ritornare a confrontarsi direttamente con la situazione solo quando, alla soluzione da lui prospettata, la situazione non risponde nel modo atteso. Anche in questi casi, è più probabile che cambi impostazione o risoluzione, piuttosto che abbandonare la sicurezza del quadro concettuale fornito dal problema. Qui, probabilmente, sta la bravura di molti esperti, che si liberano dei problemi già scoperti e provano a “riscoprirne” di nuovi a partire dalla stessa situazione, in modo originale.

A questo punto ha un senso distinguere, come già fatto per le inclinazioni, gli ordini «indiretti» di azioni, quelli in cui l’esperto non deve confrontarsi con la situazione, ma con il problema già scoperto. Nella nostra classificazione, che contiene solo tre ordini, quelle indirette sono il problem setting e il problem solving. L’ordine restante, cioè il problem finding, è definita ovviamente «diretta», perché l’esperto cerca di scoprire il problema a partire dalla situazione. Vale la pena sottolineare che, vista la grande arbitrarietà degli ordini, si potrebbero immaginare facilmente altre categorie, dirette e indirette. Ad esempio, in un’altra classificazione il decision making, che noi abbiamo considerato parte del problem solving, potrebbe essere un ordine a sé stante. In quest’ottica, forse, sarebbe da considerare diretto, visto lo stretto rapporto con la situazione.

Torniamo alla questione principale: che cos’è la competenza interazionale? Come si può vedere facilmente, Collins, nel rispondere alle domande di interferometria, sa quando fare cosa, ma ovviamente non sa fare in prima persona. Allo stesso modo, un architetto non sa fare ciò che fa il piastrellista, ma sa quando il piastrellista deve compiere una certa azione o meno. Inoltre, l’esperto interazionale non è mai entrato in un laboratorio e non ha mai indagato sul campo, affrontando la situazione in sé, ma nelle sue interazioni ha sempre e solo discusso con altri di problemi già scoperti. Ricordando l’ipotesi fondamentale (proposizione4.1), possiamo trarre le seguenti definizioni. Proposizione 4.3. La competenza interazionale consiste nella morficità debole degli ordini indiretti del dominio. Di contro, la competenza contributoria consiste nella morficità forte degli ordini diretti e indiretti del dominio.

Queste definizioni sono del tutto coerenti con l’ipotesi fondamentale, che in generale non pone vincoli alla morficità delle azioni singole, ma solo degli ordini. Dunque,

seguendo la definizione di morficità debole, che cosa significa per un esperto interazionale padroneggiare uno o più ordini del dominio, ma non le azioni ivi contenute?

Significa esattamente che, quando egli deve impostare o risolvere un problema, sa quando fare cosa, ma non è in grado di eseguire le singole azioni possibili che percepisce. Inoltre, questo tipo di inclinazioni è indiretto perché suggerita all’esperto interazionale non dalla situazione, ma dal problema scoperto nella situazione.

Dunque, ricapitoliamo i punti chiave della competenza interazionale.

1. L’esperto interazionale acquisisce la sua competenza solo in modo indiretto, ossia si confronta col problema (linguisticamente) e non con la situazione.

2. L’esperto interazionale non padroneggia le azioni che conducono all’impostazione e alla risoluzione del problema.

3. L’esperto interazionale sa quando fare cosa, ossia sa interagire con uno o più problemi del dominio in modo da percepire le possibili azioni che si possono compiere, pur non sapendolo fare.

In modo simile, possiamo elencare i punti chiave della competenza contributoria. 1. L’esperto contributore acquisisce la sua competenza sia in modo diretto che in

modo indiretto, cioè si confronta sia col problema (linguisticamente) sia con la situazione.

2. L’esperto contributore padroneggia le azioni che conducono alla scoperta, all’im- postazione e alla risoluzione del problema.

3. L’esperto contributore sa quando fare cosa, ossia sa interagire con uno o più problemi del dominio in modo da percepire le possibili azioni che si possono compiere, ma sa anche fare.

Mi sembra che queste caratteristiche siano tutte riassunte nella definizione data, e in particolare nelle classificazioni degli ordini in diretti/indiretti e della morficità in debole/forte.

Le definizioni lasciano aperta la possibile esistenza di altri tipi di “esperti”. Ad esempio, qualcuno che sappia come fare per scoprire problemi in certe situazioni, ma non padroneggi le singole azioni per tale fine, cioè che abbia una morficità debole in uno più ordini diretti.197 Ritengo che questa caratterizzazione sia così ampia da

comprendere chiunque si trovi immerso in una certa situazione.

Infatti, la continua immersione in un certo ambiente comune genera per molti di essi il confronto usuale con una data situazione. L’interazione tra queste persone e la situazione produce certe inclinazioni. Questo equivale semplicemente ad affermare che gli esseri umani spontaneamente si creano aspettative. D’altra parte, può mancare un linguaggio specialistico per giungere all’enunciazione di un certo problema. Oppure, si può non riuscire a capire esattamente come utilizzare criteri di rilevanza o di priorità tra gli elementi osservati ed esperiti nella situazione. La presenza ubiqua delle inclinazioni è un altro modo per affermare la tesi di Getzels, cioè che l’uomo cerca problemi nelle situazioni, cerca di incanalare le perplessità.

Un non-esperto così caratterizzato, cioè immerso, sa molto spesso capire che in una certa situazione c’è un problema da scoprire,198prima di molti “esperti”, ma gli manca

la padronanza delle singole azioni del problem finding per scoprirli effettivamente.

197Non escludo altri tipi di classificazioni degli ordini.

L’altra possibilità che rimane è qualcuno che abbia una morficità forte solo ed esclusivamente negli ordini indiretti. Abbiamo già incontrato questo tipo di esperto, nel paragrafo4.1.1: si tratta dello studente che segue il modello lineare di apprendimento. Infatti, abbiamo visto che la differenza principale tra un normale esperto interazionale e uno studente è negli strumenti tecnici, che permettono di fare e non soltanto di sapere quando fare cosa. Lo studente occupa di norma i primi anni della sua formazione ad impostare e risolvere problemi, con poco spazio dedicato alla scoperta. In seguito, quando padroneggia polimorficamente ciascuna azione del problem setting e del problem solving, raggiungendo una morficità forte di questi ordini, egli è libero di dedicarsi al problem finding.

A mio parere, giunti fin qui possiamo dire di possedere una buona caratterizzazione analitica delle competenze, sia dal punto di vista delle comunità che da quello dei problemi. Rimane da chiarire il concetto di dominio, che finora è stato sezionato e fatto a pezzi in più di un modo.