3.3 Tre dimensioni
4.1.1 Problemi e azioni
La mia idea di base consiste nel collegare comunità e individuo attraverso il concetto di problema, seguendo alcune intuizioni di Kuhn. Da una parte, infatti, egli riteneva la scienza «tradizione di soluzione di rompicapo», dall’altra notava che l’educazione delle nuove generazioni nell’ambito delle scienze naturali è fatta attraverso la sistematica
risoluzione di rompicapo.172 In altre parole, i rompicapo possono essere visti come il
ponte che collega il singolo esperto, che si sta formando, alla sua comunità.173
Dewey, con un approccio più radicale, riteneva che tutti i processi cognitivi in senso proprio si potessero fondare sui problemi e sulla loro risoluzione.
Richiedere la soluzione di una perplessità è il fermo fattore di guida nell’intero processo della riflessione.174
Tralasciando le questioni terminologiche e le differenze tra gli autori,175 vorrei
proseguire queste riflessioni all’interno del quadro fornito dalla prospettiva practice- based del KM: «La pratica connette ‘sapere’ e ‘fare’». La mia proposta è utilizzare le seguenti tre categorie come principali indicatori per scomporre l’interazione tra un attore e un problema.
1. Problem finding: scoprire un problema. 2. Problem setting: impostare un problema. 3. Problem solving: risolvere un problema.
Secondo Jacob Getzels, l’attività basilare degli esseri umani non è risolvere problemi, e nemmeno impostarli, ma scoprirli; è il motivo per cui ci si diverte a esplorare posti sconosciuti e a leggere storie di mistero.176 Spesso, la scoperta di un problema è un
risultato più significativo della sua analisi o risoluzione: si tratta di estrarre da una situazione qualcosa che dia un obiettivo.
Il problema è dunque il prodotto di tale operazione. Storicamente, ciò che apre nuovi percorsi di ricerca è proprio la scoperta di un nuovo problema, il quale stimola gli esperti a creare nuovi strumenti per impostarlo e per risolverlo. Non esistono, né è possibile immaginare, guide su come scoprire un problema. Dato il suo stretto rapporto con l’intuizione, è forse il tipo di attività più creativa (e creatrice) della mente umana.
L’impostazione di un problema, invece, è un’attività composta dall’analisi e dall’in- dividuazione delle sue componenti rilevanti. Queste ultime devono essere valutate e misurate. Inoltre, se il problema è definito in modo vago o confuso, può essere utile ridefinirlo oppure cambiare punto di vista su di esso.
La risoluzione di un problema, infine, consiste nel trovare un modo per stabilire (o ristabilire) una certa situazione. Essa comprende, di norma, anche la scelta e la messa in pratica delle decisioni necessarie a tal fine.
Queste tre categorie sono studiate da decenni dagli psicologi, che suddividono il processo in vari modi. Tuttavia, la maggior parte di essi sembra consapevole che una divisione netta è quasi impossibile: l’interazione tra il risolutore e il problema è continua e ininterrotta.177 Le tre categorie da me utilizzate devono essere dunque
considerate dei punti notevoli in un processo che non è discreto, né potrà mai esserlo. In particolare, considero il problem shaping, ovvero il tentativo di dare forma ad un problema, come parte del problem finding. Anche se ad orecchio può sembrare
172Cfr.T. S. Kuhn,1978.
173AncheAbbott [1988] afferma della necessità di passare dalla sociologia delle professioni alla sociologia dei compiti e dei problemi (tasks and problems).
174Dewey,1910, p. 14, trad. mia.
175InLakatos e Musgrave[1993], Kuhn dibatte a lungo con Popper per il significato delle parole «rompicapo» e «problema». Qui uso «problema» in un senso molto generale e al di fuori delle questioni
specifiche di questi filosofi. 176Getzels,1979, p. 169. 177Robertson,2001, p. 36-37.
strano, questo mi consente di poter parlare di azioni che si compiono nello scoprire un problema. Inoltre, considero la problem analysis come parte del problem setting e il decision making, invece, come parte del problem solving.
In che senso il problem finding richiede azioni? A volte, per incanalare una situazione in un problema, occorre vagliarla in diversi modi; ad esempio, per scegliere quali sono le grandezze rilevanti. Un ingegnere che deve valutare la stabilità di un edificio di norma trascura la verniciatura, ma, dopo un sopralluogo, potrebbe accorgersi che è stata usata una vernice molto corrosiva, il cui effetto sull’integrità strutturale non può essere tralasciato. In questo modo, nello scoprire il problema (l’integrità strutturale compromessa), il nostro esperto prende in considerazione anche un parametro inusuale, che poi dovrà essere inserito opportunamente nell’impostazione, al fine di trovare soluzioni idonee per quell’edificio: rimuovere la vernice, ristrutturarlo, etc.
Consideriamo ora il caso dei principianti che intraprendono studi in una certa materia scientifica. Nei primi mesi vengono sottoposti a problemi la cui risoluzione consiste spesso nel semplice calcolo di una certa quantità. Dunque, non si tratta di una vera e propria risoluzione, perché non c’è nessuna condizione da mutare, ma solo di una migliore comprensione della situazione. Sembra che qui ci si fermi alla fase del problem setting. Allo stesso modo, un esperto immesso in una zona di scambio proverà, per prima cosa, ad impostare i nuovi problemi in vari modi: l’interazione con gli esperti di altre comunità, com’è ovvio, serve a trovare punti di vista alternativi per il problem setting.
Andando avanti nello studio, o nell’interazione, si apprende come risolvere i problemi, e al contempo si impara anche come impostarli in diversi modi: cioè, mentre si comincia ad avere una prima capacità mimeomorfica di problem solving, il problem setting diventa polimorfico. Vorrei sottolineare che all’inizio il problem solving non consiste propriamente nello stabilire una certa situazione in modo effettivo, ma solo in modo concettuale. Lo studente di fisica nucleare non viene messo al Cern a dirigere un apparato strumentale, ma gli viene chiesto cosa potrebbe fare se fosse lui a dirigerlo e si presentasse un certo problema.
Questo, a mio parere, è il motivo per cui un esperto interazionale forte, dotato di certe capacità di problem setting e problem solving, può riuscire positivamente nel gioco dell’imitazione. Consideriamo due delle domande che sono state rivolte a Collins durante tale esperimento.
Un teorico ti dice di aver messo a punto una teoria secondo cui un anello circolare di particelle viene disperso dalle onde gravitazionali in modo tale che la forma circolare rimanga uguale, ma allo stesso tempo la grandezza dell’anello vari in modo significativo. Sarebbe possibile misurare questo effetto utilizzando un interferometro laser?
Immagina che gli specchi alle estremità di un interferometro siano carichi elet- tricamente in modo uguale e segno opposto. Può un’onda radio incidente sull’interferometro avere lo stesso effetto di un’onda gravitazionale?178
Come si vede, sono domande che riguardano problem setting e problem solving. Non è possibile fare domande che prevedano il problem finding, perché la descrizione di una situazione è sempre già un’impostazione del problema (non necessariamente quella più utile a risolverlo). Infatti, come abbiamo visto, la scoperta del problema è un modo creativo di rivolgersi ad una situazione, senza intermediari linguistici. Questo potrebbe essere un altro motivo per cui Collins ha potuto fingersi un fisico: non si può
chiedere a qualcuno di estrarre un problema da una situazione con mezzi puramente linguistici. Eppure, spesso ai fisici esperti viene chiesto proprio di fare questo, cioè scoprire nuovi problemi.
La padronanza di questa capacità, il problem finding, sancisce a mio parere il definitivo passaggio a esperto contributore. Il contributo più innovativo, dunque, non sta solo nell’impostare o risolvere un problema in modo nuovo e originale, ma anche nell’intuire come una certa situazione possa essere incanalata in una circoscritta «perplessità», come direbbe Dewey. Secondo quest’ultimo, è proprio la situazione in sé
ad aver bisogno di essere ricondotta ad un problema.179
Queste osservazioni appena esposte non sono affatto rare tra coloro che indagano la natura. Molti scienziati, nella storia, hanno scritto di quanto fosse essenziale nel loro lavoro la capacità di estrarre il problema dall’esperienza “grezza”, compreso Albert Einstein.
Nelle prime pagine di questo libro abbiamo paragonato la funzione del ri- cercatore a quella del detective, che dopo aver riunito i fatti necessari trova la soluzione giusta con il solo ausilio del pensiero. C’è tuttavia un punto essenziale rispetto al quale il nostro paragone appare assai superficiale. Tanto nella vita, quanto nel romanzo giallo il delitto è un fatto acquisito. Il detective deve bensì cercare lettere, impronte digitali, pallottole e armi, ma sa positivamente che un delitto è stato commesso. Lo scienziato si trova in tutt’altra situazione. (. . . ) Per il detective il delitto è un fatto positivo e il problema si pone semplicemente in questi termini: chi è l’uccisore? Lo scienziato, invece, deve, almeno in parte, commettere egli stesso il delitto e al contempo condurre l’inchiesta.180
Ma qual è la differenza tra un fisico che si sta formando sulle onde gravitazionali e Collins? Da quanto ho detto, sembra che entrambi siano nella stessa situazione, in quanto nemmeno il primo è (ancora) in grado di scoprire nuovi problemi. La differenza, a mio parere, sta nel saper utilizzare efficacemente alcuni strumenti in relazione al problema. Uno studente di fisica è messo fin da subito a contatto con strumenti matematici molto avanzati, che gli consentono di analizzare e scomporre i problemi. Come abbiamo visto, i primi problemi non chiedono una vera e propria risoluzione, ma solo un’impostazione matematica, perché non ci sono situazioni da stabilire, ma solo calcoli da fare. In questo modo, lo studente impara a maneggiare gli strumenti, e questo lo fa migliorare molto nella capacità di problem setting. Quando raggiunge la piena padronanza del bagaglio matematico, cioè sa usare la matematica secondo un polimorfismo aperto, il fisico è pronto a contribuire. Anche gli studenti interagiscono, proprio come gli esperti interazionali, ma le loro interazioni sono supportate da un bagaglio decisamente diverso.
Dunque, la morficità di un esperto interazionale e quella di uno studente sono qualitativamente diverse, a causa del fatto che lo studente può agire in un modo che potremmo dire più “efficace”. Nel paragrafo 4.2.1 vedremo che proprio per questo motivo si possono distinguere due diversi tipi di morficità.
La tabella5riassume come potrebbe svolgersi un apprendimento lineare e “ideale” di un esperto in un certo settore. Ovviamente, i passaggi da un tipo all’altro di competenza sono continui ed è quasi impossibile tracciare linee di separazione. La linea tratteggiata è quella che separa interazione da contribuzione, perché il passaggio è più facilmente riconoscibile: l’esperto impara a padroneggiare la scoperta dei nuovi
179Dewey[1974, p. 159]: «Noi siamo dubbiosi perché la situazione è nella sua essenza dubbiosa». 180Einstein e Infeld,2007, p. 80.
Tabella 5 – Modello di apprendimento lineare delle competenze.
Competenza
Problem setting
Problem solving
Problem finding
Scala
INTERAZIONE
debole
Mimeomorfismo
Assente
Assente
−3
INTERAZIONE
forte
Polimorfismogiocoso
Mimeomorfismo
Assente
−2
INTERAZIONE
massima
Polimorfismoprovocato
Polimorfismogiocoso
Mimeomorfismo
−1
CONTRIBUZIONE
debole
Polimorfismoaperto
Polimorfismoprovocato
Polimorfismogiocoso
+1
CONTRIBUZIONE
forte
Polimorfismoaperto
Polimorfismoaperto
Polimorfismoprovocato
+2
CONTRIBUZIONE
massima
Polimorfismoaperto
Polimorfismoaperto
Polimorfismoaperto
+3
problemi. L’interazione massima, poco prima, è caratterizzata, invece, da una capacità mimeomorfica, dunque embrionale, di problem finding.
Proviamo a seguire le tappe dello studente ideale di fisica. All’inizio, come detto, impara ad impostare i problemi, prima mimeomorficamente, cioè usando in modo meccanico le formule imparate, poi polimorficamente, cioè facendo piccole e grandi modifiche per adattarle ai particolari casi che incontra. In parallelo al problem setting polimorfico comincia ad occuparsi anche del problem solving. Ad esempio, nei problemi di meccanica, oltre alle domande d’impostazione («calcola l’energia cinetica»), ci saranno anche domande su come mutare la situazione: «quanta lavoro bisogna compiere per ottenere questo risultato?». Quando padroneggia polimorficamente anche il problem solving, lo studente è pronto per contribuire. Per farlo, durante la tesi, viene in contatto con apparati strumentali. In tali situazioni, il nostro studente può scoprire problemi ed eventualmente applicare nella pratica le soluzioni che prima poteva solo esprimere concettualmente.
A mio parere, una questione importante è quanto sia lontana dalla pratica la competenza interazionale, così come definita dalla tabella. Quella massima molto poco, ovviamente. Ma l’interazione debole e forte non richiedono aprioristicamente alcun uso del corpo. Gli strumenti matematici sono utili in fisica, ma non sono necessari alla comprensione di alcun concetto. Rimarco qui, infatti, come Collins stesso abbia affermato che nei discorsi a tavola i fisici non parlino di matematica, ma di concetti della fisica.181 Dunque, per interagire come un fisico, gli strumenti non
sono un requisito indispensabile. In questo modo dimostro che anche nel modello di apprendimento lineare vale l’ipotesi interazionale forte. In particolare, a mio parere un
esperto interazionale forte, con capacità definite come in tabella, potrebbe superare un gioco dell’imitazione.
Cerchiamo ora di capire cosa sono queste tre categorie, in relazione a quanto sappiamo da Collins e dal KM, per poterle inserire in una teoria della competenza che possa essere in qualche modo coerente. Innanzitutto, esse non individuano in modo univoco delle particolari azioni. Inoltre, tutte hanno bisogno di essere definite dal problema particolare in questione, come se avessero uno slot libero da riempire: impostazione del problema X, risoluzione del problema X, scoperta del problema X. La differenza tra quest’ultima espressione e le prime due è che in essa il nome di X viene dato a posteriori, dopo la scoperta, mentre alle altre l’etichetta può essere ovviamente assegnata anche prima dell’impostazione e della risoluzione.
Una volta individuato il singolo problema, le tre categorie non definiscono azioni precise, ma classi di azioni, tra le quali il risolutore può scegliere ed eseguire quelle che vuole in un qualsiasi ordine, pur di arrivare al fine. Ad esempio, un problema X può essere risolto eseguendo «a, b, c» oppure «d, c, f », etc. Tuttavia, l’attore non può compiere prima un’azione che fa parte della classe del problem solving di X e poi un’azione appartenente del problem setting di X. Questo significa che, anche se all’interno di una classe di azioni l’ordine è libero, le nostre tre categorie pongono dei limiti alla libertà di eseguire azioni di classi diverse.
D’altra parte, per diventare esperto in un dominio, non basta avere a che fare con un solo problema, ma occorre una classe di problemi. Ad esempio, la classe dei problemi sulle onde gravitazionali è composta dai problemi X, Y, Z, etc. che, in questo particolare campo della fisica, possono essere scoperti, impostati e risolti. Per ognuno di essi, come sappiamo, possiamo definire le tre classi di azioni possibili, utilizzando le nostre tre categorie.
Mi sembra che il ruolo principale di queste categorie sia quello di mettere ordine nelle azioni che può compiere un attore durante la sua interazione con la situazione e con il problema scoperto in essa. Perciò, possiamo chiamarle «ordini». Diremo che gli ordini di un problema sono le tre classi di azioni che possono essere utilizzate per scoprire, impostare e risolvere quel problema; allo stesso modo, gli ordini di un dominio sono le tre classi di classi di azioni che possono essere utilizzate per scoprire, impostare e risolvere i problemi di quel dominio. Quest’ultima precisazione serve ad evitare che le azioni possano essere separare dal problema che concorrono a scoprire, impostare o risolvere. Ad esempio, il problem finding di un dominio è una classe che contiene, per ogni problema del dominio, la corrispondente classe di azioni relativa al problem finding per quel problema; dunque, è una classe di classi di azioni.
Per chiarezza, schematizziamo i tre livelli di analisi visti finora.
1. Azione. È il livello fondamentale. Ogni esperto compie certe azioni, ognuna con una sua morficità, come definito daCollins e Kusch[1998].
2. Problem setting/Problem solving/Problem finding di un problema X. Ogni problema può essere risolto, impostato o scoperto effettuando diverse azioni. Dunque, dire «il problem setting del problema X» significa individuare la classe di azioni effettuabili al fine di impostare il problema X.
3. Problem setting/Problem solving/Problem finding di un dominio X. Ogni dominio è composto da una classe di problemi, i quali possono essere risolti, impostati o scoperti effettuando, per ognuno degli ordini, diverse azioni. Dunque, dire «il problem setting del dominio X» significa individuare la classe delle classi di azioni effettuabili al fine di impostare ognuno dei problemi del dominio X.
Nel paragrafo4.3.1chiariremo ancora di più questa schematizzazione, utilizzando la tabella.6.
Come si vede, quando gli ordini sono applicati a livello di singolo problema, essi individuano una classe di azioni, quando sono applicati a livello di dominio (e quindi di tutti i problemi che lo compongono), individuano una classe di classi di azioni.
Se una classe di azioni (cioè uno degli ordini di un problema) è composta da azioni che vengono padroneggiate con lo stesso tipo di morficità, possiamo dire che anche la classe stessa possiede quel tipo di morficità. Seguendo lo stesso ragionamento, anche per gli ordini di un dominio intero, che sono classi di classi di azioni, si può definire un tipo di morficità. Ad esempio, se un chimico sa risolvere tutti i problemi di chimica organica con azioni padroneggiate in modo apertamente polimorfico, potremo dire che il problem solving della chimica organica è apertamente polimorfico per tale chimico. In realtà, questa estensione della nozione di morficità genera alcune questioni, che verranno affrontate nel paragrafo 4.2.1. Per ora, basti sapere che l’importante, per il nostro chimico, è avere esperienza nell’utilizzo non semplicemente delle azioni, ma delle azioni in relazione ai problemi di chimica organica.
Questo diverso approccio al dominio che è stato appena introdotto, basato sui problemi, è parallelo e complementare a quello delle forme, basato sulle comunità. Grazie ad esso, possiamo letteralmente comporre il dominio, elencando i problemi al suo interno e utilizzando le nostre tre categorie per ordinare le azioni che compiono gli esperti. Chiameremo dunque «composizione» questo approccio al dominio: diremo che le azioni compongono le classi e le classi compongono i problemi. Gli ordini, infine, se relativi ad un problema individuano una classe di azioni, se relativi ad un dominio individuano una classe di classi di azioni.
Osservo esplicitamente che le azioni sono l’anello di congiunzione tra i due approcci. Infatti, il lettore ricorderà che abbiamo mutuato questo termine dalla teoria della morficità (paragrafo3.1), in cui le azioni per definizione acquisiscono il loro significato solo all’interno della comunità in cui sono eseguite. D’altra parte, le azioni sono organizzate in classi che compongono i problemi. Dunque, in esse confluiscono entrambi i tipi di analisi.
Tuttavia, il prezzo da pagare per questo diverso approccio, qui presentato, è l’au- mento di complessità della nozione di dominio. Prima, infatti, ci si poteva permettere di darla per scontata o ritenerla un concetto semplice. Ora, invece, essa necessita di essere “riunificata” e definita in modo preciso ed univoco, utilizzando gli stessi pezzi in cui l’abbiamo metaforicamente smembrata. Nel paragrafo4.3cercheremo di fare proprio questo lavoro.
La composizione del dominio apre la possibilità di indagare la competenza sotto diversi punti di vista. Vediamo quindi due ipotesi che mostrano in modo esplicito una possibile indagine basata sui concetti appena introdotti.