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Individualità biologica

Nel documento Biopolitica e libertà in Michel Foucault (pagine 119-128)

P ENSARE UNA BIOPOLITICA AFFERMATIVA

4.4. Individualità biologica

1. Nel panorama Francese del dopoguerra un attacco frontale alla “questione del soggetto” è venuto da un “fuori” costituito dai saperi biologici. È nei termini della individualità biologica - a qualsiasi modello concettuale si faccia riferimento - che viene criticata la “metafisica dell’Io” caratteristica della tradizione filosofica medievale e moderna. Il soggetto trascendentale viene contestato attraverso la sua messa in relazione con quel fondo pre-individuale e pre-soggettivo, costituito dalla vita impersonale che scorre al suo interno, e che sembra determinarlo in ogni sua parte. Esaminiamo adesso brevemente alcune posizioni della filosofia biologica sull’individualità.

Come abbiamo anticipato in un paragrafo precedente, il testo di Raymond Ruyer intitolato proprio L’individualité inaugura il renouveau della filosofia biologica francese. In questo scritto Ruyer intende denunciare il carattere coloniale e gerarchico della coscienza, detentrice di una pretesa di potere che finisce col subordinare a sé tutti i differenti fenomeni organici: «prendere atto per parlare dell’Unità dell’Io con la maiuscola, sarebbe abusare di questa verità fino all’errore, poiché questa unità è un edificio, che può rompersi nelle zone di minore resistenza. L’Io non è un’unità»285. Ruyer si spinge fino a prefigurare la famosa sentenza di Foucault che chiude Le parole

e le cose quando afferma che «l’ “io” comanda veramente oggi, non può credere che ha potuto

essere un confluente e che potrà dividersi, o un giorno scomparire. Quale “io” ha mai ammesso un solo istante questa strana storia che gli si racconta...?»286. Ruyer rinuncia, preliminarmente, al

postulato dell’Io assoluto in quanto per lui «Il “rappresentativo”, il “soggetto”, l’ “io penso”, il punto “x”, insomma, non è la condizione dell’unità del dominio psicologico»287. Condizione per

ogni studio teorico serio è quella di mettere da parte i concetti tramandati dalla tradizione per accettarli o ricusarli soltanto dopo aver concluso la propria ricerca, legittimandoli, se è il caso, a

284 A. Cutro, Michel Foucault: tecnica e vita, cit., p. 61.

285 R. Ruyer, L’individualité II, in “Revue de Métaphysique et de morale”, n. 4, 1940, p. 388. 286 Ivi, p. 389.

posteriori. Ruyer sostiene l’esigenza teorica di partire da una “individualità mitigata”, capace di

porre un limite alle pretese assolutistiche del soggetto costituente. La questione che a Ruyer si pone, in seguito ad una riflessione sugli sviluppi delle scienze della vita, è quella che interroga lo statuto dell’individualità stessa, che, a discapito dell’etimologia del termine, sembra presentarsi come nient’altro che un “epifenomeno”, plurale e soggetto a graduazione. Il problema che Ruyer pone con forza, è il seguente: «Un essere – sia detto senza pregiudicare nulla, e solamente perché occorre pure un soggetto alla frase – può essere di più o di meno di un individuo? Due esseri possono essere

due soltanto in maniera approssimativa? L’individualità è suscettibile di gradazione?»288. Ruyer

fonda la propria analisi sull’interpretazione di alcuni risultati della scienza contemporanea, primo fra tutti la scoperta dell’ “indeterminismo dei legami”. Il presupposto epistemologico di Ruyer è il carattere culturale e sociale della scienza. Ogni nuovo concetto scientifico è collegato ai modelli culturali e sociali costituiti all’interno della società e della comunità in cui sorge, e, viceversa, le nozioni scientifiche della vita non cessano di influenzare l’immagine del mondo che esse contribuiscono a generare. Una nuova definizione si traduce in una differente comprensione dei fenomeni vitali e conduce immediatamente a rimettere in discussione i modelli culturali, ed in primo luogo filosofici, di cui si fa abitualmente uso. Ruyer sostiene che l’unità della coscienza, in seguito a questi sviluppi, vada necessariamente revocata in dubbio, e al suo posto debba essere tematizzata la sua essenziale “pluralità”, fatta di infiniti insiemi sotto-individuali, sostenendo così «una concezione pluralista ma non materialista dell’organismo, considerata, in sé, come fatto di molteplici individualità, essenzialmente soggettive»289. L’Io deve essere pluralizzato fino a farne

emergere le parti costituenti, a loro volta considerate come insiemi di elementi eterogenei. L’individualità dominante, che produce come effetto (di aberrazione) la sicurezza nell’Io, è in realtà una forza che sottomette in modo soltanto temporaneo i suoi elementi particolari. Ruyer utilizza la metafora di una figura (l’Io) che si staglia su di uno sfondo, costituito dagli elementi sotto- individuali. In questo senso, non è mai possibile avere una prospettiva sull’Io che prescinda dallo sfondo sul quale si colloca, e che lo definisce nei suoi contorni. Egli sostiene che una coscienza psicologica non può essere pensata – se non per cattiva astrazione – separatamente dall’individualità organica e biologica dalla quale originariamente sorge. La figura in sé non possiede un perimetro dato una volta per tutte, ma può apparire soltanto attraverso la spinta di un incessante processo di differenziazione, discontinuo ma ininterrotto. Così il soggetto non può essere separato dal mondo che biologicamente lo rende possibile: «Ci sembra – dice Ruyer – che la nozione di individualità mitigata risolva il paradosso. Noi siamo oscuri a noi stessi, non perché noi siamo un’apparenza, un’ombra, ma perché noi siamo un frammento, un tema incompletamente

288 R. Ruyer, L’individualité I, in “Revue de Métaphysique et de morale”, n. 3, 1940, p. 286. 289 R. Ruyer, L’individualité II, cit., p. 395.

autonomo di una melodia più vasta. Il nostro io cosciente non è centrato su se stesso, esso è al contempo individualità collettiva, organo di un soma biologico, tema momentaneo di un germen, e probabilmente sotto-individualità di unità ben più vaste. Tutto è figura sullo sfondo dell’universo»290. Le conclusioni di Ruyer hanno una portata cosmica, che fa del suo pensiero una

vera filosofia della natura291. Egli evita accuratamente di considerare il soggetto come unità di base

della conoscenza, ponendolo, al contrario, al livello di una gradazione tra le tante possibili nell’ordine dell’universo, componente un tutto sociale più vasto, ma anche composto di elementi sotto-individuali di ordine biologico ed animale. Ruyer insiste sul carattere “tematico” dell’individualità come di uno spartito dalle infinite variazioni possibili, e sempre in movimento. Ciò che distingue l’individualità biologica è dunque sempre la forma, e mai una sostanza immutabile e definita nei suoi limiti. La riflessione di Ruyer conduce conseguentemente ad una “filosofia della morfogenesi”292 capace di portare con sé “una nuova immagine del mondo” e dei

fenomeni293.

2. Lo stesso Canguilhem prende posizione nel dibattito sull’individualità apertosi in seno alla filosofia biologica nello scritto sulla Théorie cellulaire. Qui egli riprende i medesimi problemi aperti da Ruyer, indagando la relazione tra contesto sociale e teorie biologiche. Presupposto dell’analisi è l’idea che esista una relazione tra i modi di pensare collettivi e la rappresentazione dei fenomeni che avviene a tutti i livelli, compreso, naturalmente, quello scientifico. Le teorie scientifiche allora necessitano di essere contestualizzate nella realtà in cui sorgono, così da poterne cogliere il loro carattere arbitrario e “troppo umano”. A seconda infatti che il problema dell’individualità biologica venga analizzato da un punto di vista meccanicista oppure vitalista esso

290 Ivi, p. 408. Notare che Ruyer sembra qui rieccheggiare la Prefazione alla Genealogia della morale «Siamo ignoti a

noi medesimi, noi uomini della conoscenza...» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1968, p. 3).

291 È probabilmente questo aspetto ad aver sedotto Pierre Hadot, che cita Ruyer come rappresentante contemporaneo

della “coscienza cosmica” caratteristica del pensiero antico (cfr. P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, Torino, Einaudi, 2008, p. 94).

292 R. Ruyer, La genesi delle forme viventi, Milano, Bompiani, 1966, pp. 243-274.

293 Il discorso di Ruyer, così chiaro a proposito dell’indirizzo di fondo della filosofia biologica, appare meno sicuro sul terreno delle possibili ricadute in campo scientifico di queste stesse riflessioni. Egli rimane, in ultima analisi, indeciso sullo statuto da assegnare all’individualità biologica. Che cos’è infatti, materialmente, un’individualità biologica? Quale può essere l’atomo della vita, il suo costituente essenziale? Dove può essere ricercato? Ora, secondo Ruyer, l’individualità biologica vera e propria, l’atomo indivisibile e ultimo che sta alla base di ogni essere, risulta costituito, nella sua struttura essenziale, dalla cellula, elemento primario che partecipa alla formazione degli organi e del corpo nel suo insieme, come anche della costituzione psichica del vivente. Il concetto di individualità a questo punto, lungi dal conservare i caratteri distintivi attribuitogli dalla tradizione, si trasforma in un concetto oscuro, poiché i livelli e le gradazioni che sono emerse ne rendono impossibile la ricostituzione in unità. L’individualità biologica, costitutivamente plurale e dagli sviluppi aperti, non è infatti “rappresentabile” secondo i concetti della biologia contemporanea. Ruyer nota che «un organismo superiore è fatto di cellule, la cui autonomia è concepibile, e spesso realizzabile, ma è anche fatto di organi, la cui esistenza separata, malgrado un piccolo numero di esperienze molto recenti, non è molto più concepibile che quella di un tema in un discorso. Ora, a seconda che si sceglierà l’uno o l’altro tipo di “unità” relativa come più fondamentale, si avranno due modi di pluralismo molto differenti» (Id., L’individualité II, cit., p. 397). La filosofia biologica dell’individualità, lungi dal fornire al pensiero ulteriori certezze, contribuisce a rendere ancora più oscura ed incerta l’analisi, obbligandola continuamente a riproblematizzare i suoi dati.

riceverà forme di rappresentazione differenti, così come susciterà le nuove riflessioni sul medesimo argomento orientandole in una determinata direzione piuttosto che in un’altra. Che i fatti siano sempre “carichi di teoria” è un presupposto insindacabile agli occhi di Canguilhem: «le teorie non procedono mai dai fatti. Le teorie non procedono che da teorie anteriori spesso molto antiche. I fatti non sono che la via, raramente dritta, attraverso la quale le teorie procedono le une dalle altre»294. In

questo senso, da un punto di vista epistemologico, per Canguilhem non ha alcun significato “rappresentare” il concetto di individualità, in quanto questa idea non detiene, e non potrebbe nemmeno farlo, alcuna evidenza scientifica. Il concetto di individualità non è ontologico, bensì

operativo. Esso può assumere, attraverso la rottura delle evidenze più radicate che è in grado di

provocare, il ruolo di stimolante per la riflessione, così da permettere di elaborare nuovi sistemi di pensiero capaci di far fronte alla complessità del reale. L’individualità biologica non può pertanto essere definita una volta per tutte, ma se ne può dare soltanto una definizione per via negativa: «L’individuo è un essere al limite del non-essere, essendo ciò che non può essere più frammentato senza perdere i suoi caratteri propri. È un minimo d’essere. Ma alcun essere in sé è un minimo. L’individuo presuppone necessariamente in sé la relazione ad un essere più vasto, esso richiede, esige... un fondo di continuità sul quale la sua discontinuità si staglia»295. Egli propende per una

soluzione concettuale che permetta un allargamento nella comprensione dei limiti dell’individualità. Occorre allora comprendere i fenomeni a partire da una razionalità allargata, che è quella tipica della riflessione epistemologica. La storia delle scienze avrà raggiunto il proprio obiettivo se sarà riuscita a trasmettere “il senso della possibilità”: «Conoscere è meno inciampare contro un reale, che convalidare un possibile rendendolo necessario. Da lì, la genesi del possibile conta tanto quanto la dimostrazione del necessario. La fragilità dell’uno non lo priva di una dignità che all’altro verrebbe dalla sua solidità. L’illusione avrebbe potuto essere una verità. La verità forse si rivelerà un giorno illusione»296. La teoria viene assunta come stimolante per il pensiero e per

l’immaginazione, con la segreta speranza di suscitare nuove prospettive sul mondo, nuovi modi di vederlo e di viverlo: «L’individuo è una realtà? Un’illusione? Un ideale? Non è una scienza, fosse anche la biologia, che può rispondere a questa questione. E se tutte le scienze possono e devono apportare il loro contributo a questo chiarimento, è dubbio che il problema sia propriamente scientifico, nel senso usuale della parola»297. Nel passaggio finale Canguilhem sembra attribuire alla

filosofia e alla storia delle scienze il compito di individuare i modelli, gli atteggiamenti, e gli schemi

294 G. Canguilhem, La théorie cellulaire, in Id., La connaissance de la vie, cit., p. 62.

295 Ivi, p. 89. In questo senso, - conclude Canguilhem – «non vi è alcuna ragione di arrestare ai limiti della cellula il

potere dell’individualità» (ibidem). Ecco allora qual è il senso della teoria cellulare, così come di ogni concetto scientifico: essi non possono prescindere dal tutto che li ha generati. «Sotto il nome di cellula – afferma Canguilhem - , è l’individualità biologica ad essere in questione» (ivi, p. 99).

296 Ivi, p. 50. 297 Ivi, p. 99.

di comportamento che stanno alla base dell’invenzione sociale, determinandone al contempo l’evoluzione. Il problema dell’individualità biologica sfugge alla stretta concettualizzazione scientifica per aprirsi fino ad indicare una certa prospettiva sul mondo e sull’uomo stesso. Allo stesso tempo, la questione dell’individualità permette di affermare l’esigenza di complessità rivendicata da Canguilhem, come «la necessità attuale di una teoria più flessibile e più comprensiva»298.

Foucault ha utilizzato raramente l’espressione “individualità biologica”, ma quando lo ha fatto egli ha presupposto la connotazione che a questo concetto è stata attribuita proprio dalla filosofia biologica. Il passo fondamentale, per valutare la sua ricezione di queste teorie, è contenuto in Naissance de la clinique. Qui Foucault afferma: «L’individuo non è la forma iniziale né più acuta in cui si presenti la vita. Esso non è dato al sapere se non al termine di un lungo movimento di spazializzazione i cui strumenti decisivi sono stati un certo uso del linguaggio e una difficile concettualizzazione della morte. Bergson imbocca una strada del tutto sbagliata quando cerca nel tempo e contro lo spazio, in un’apprensione dall’interno e muta, in una folle cavalcata verso l’immortalità, le condizioni grazie alle quali è possibile pensare l’individualità vivente»299. In questo

passo è possibile cogliere la distanza che separa la riflessione sulla storia della biologia condotta da Foucault rispetto alle posizioni di Bergson, che avevano influenzato la filosofia biologica nascente. Foucault si distacca nettamente dalla concezione bergsoniana dell’individualità, affermando che la specificità di quest’ultima va ricercata nella dimensione spaziale, nella sua materialità corporea, a differenza di Bergson che ne faceva dipendere la specificità dall’elemento qualitativo costituito dalla durata. La scoperta della struttura del DNA, come vedremo nel prossimo paragrafo, costituisce l’elemento scaturente di “un ritorno allo spazio” contro il tempo, e segna il distacco da uno dei suoi maggiori ispiratori. Per il momento, ci è sufficiente osservare che Foucault recepisce il tema dell’individualità spogliandolo di qualunque riferimento alla durata bergsoniana.

3. Nella storia dei rapporti tra il pensiero di Foucault e la filosofia biologica, un posto essenziale dev’essere riservato alla recensione, scritta nel 1970 per il quotidiano “Le monde”, al volume di François Jacob intitolato La logica del vivente. Foucault definisce il testo di Jacob «la più notevole storia della biologia che sia mai stata scritta»300 in quanto il suo autore è riuscito a rendere conto

298 Ivi, p. 101. 299 NC, pp. 174-175.

300 M. Foucault, Croître et multiplier, DE, I, p. 972. Foucault farà spesso riferimento al lavoro di Jacob nelle sue

interviste, condividendone soprattutto il punto di vista metodologico. Jacob, biologo, è infatti esponente dell’epistemologia post-bachelardiana, al pari di Foucault. In un’intervista del 1974, discutendo sulla ricezione di Les

mots et les choses Foucault confida che «Les mots et les choses, in fondo, è un libro che è molto letto, ma poco

compreso. Esso si rivolgeva agli storici delle scienze e agli scienziati, era un libro per duemila persone. È stato letto da molte più persone, tanto peggio. Ma, a certi scienziati, come Jacob, il biologo premio Nobel, esso è servito. Jacob ha

della correlatività delle teorie biologiche rispetto all’insieme socio-culturale in cui prendono forma. Jacob ricostruisce la storia delle scienze della vita a partire dagli schemi concettuali di cui gli uomini hanno fatto uso per interpretarla. Egli parte dal presupposto che le teorie scientifiche modificano il proprio oggetto: «le teorie scientifiche contribuiscono più di qualsiasi altra teoria a riorganizzare il campo del possibile, a modificare il modo di considerare le cose, a mettere in luce relazioni nuove o nuovi aspetti della realtà – afferma Jacob – in una parola, a cambiare l’ordine esistente»301. La storia delle scienze si configura, di conseguenza, come analisi dei differenti punti

di vista sulla realtà, e la sua finalità si definisce nel tentativo di rendere conto del “cambiamento di illuminazione” avvenuto sugli oggetti stessi.

La puntuale ricostruzione offerta da Jacob degli aspetti e dei problemi affrontati nel corso dello sviluppo del sapere biologico, gli permette di evidenziare la successione di quattro differenti modelli analitici. Più che di successione per esclusione, si dovrebbe parlare – secondo Jacob –, di una successione per sovrapposizione ed integrazione dei differenti modelli. La quarta parte del libro descrive quello che può essere definito come le dernier cri del sapere biologico, rappresentato dalla riconcettualizzazione che ha avuto luogo nel campo della biologia molecolare a seguito alla scoperta del DNA. Il codice genetico ci offre oggi una nuova immagine della vita, concepita, non più come forza vitale, ma come informazione e come “programma”. Questo concetto permette allo scienziato di rielaborare la questione della vita, che si presenta adesso come singolarità variabile in base ad una gamma limitata di possibilità: «I limiti della vita – afferma Jacob – non sono, dunque, abbandonati al caso, ma sono prescritti dal programma che, fin dal momento della fecondazione dell’uovo, fissa il destino genetico dell’individuo»302. La scoperta della struttura del codice genetico

apre nuovi territori per la riflessione filosofica, obbligandola a rivedere i propri paradigmi. Il problema del libero arbitrio si pone da ora soltanto sullo sfondo di un determinismo più essenziale, legato a quel frammento di necessità costituito dal codice genetico, e dal “senso” custodito al suo interno. Determinismo, in questo caso, non significa, secondo Jacob, teleologia. Le scienze biologiche hanno infatti dimostrato che non è possibile istituire un legame di causalità diretta tra l’informazione trasmessa dal codice genetico e lo sviluppo successivo dell’individuo. Jacob, come Ruyer, colloca la libertà a livello dell’indeterminismo dei legami. Il programma è in realtà costitutivamente aperto a differenti configurazioni possibili e a differenti modalità di adattamento dell’organismo all’ambiente. Esso non dà luogo ad un’evoluzione di tipo lineare e finalistico. Il

scritto La logique du vivant; c’erano dei capitoli sulla storia della biologia, sul funzionamento del discorso biologico, sulla pratica biologica, e mi ha detto che si è servito del mio libro... io non scrivo per un pubblico, scrivo per degli utilizzatori». (M. Foucault, Prisons et asiles dans le mécanisme du pouvoir, DE, I, p. 1392). Jacob fu recensito favorevolmente anche dallo stesso Canguilhem (cfr. G. Canguilhem, Logique du vivant et histoire de la biologie, in “Sciences”, n. 71, March-April, 1971, pp. 20-25).

301 F. Jacob, La logica del vivente, Torino, Einaudi, 1971, p. 21. 302 Ivi, p. 361.

gene, in realtà, è attraversato dalla discontinuità e dall’alea: «Non vi è alcuna regolarità nell’accrescimento dei programmi genetici: vi si riscontrano, invece, bruschi salti, aumenti improvvisi, ricadute inesplicabili, senza alcun rapporto con la complessità dell’organismo»303.

Proprio questo è l’aspetto che Foucault elogia maggiormente nella sua recensione all’opera di Jacob. Il vivente è infatti caratterizzato dalla relazione permanente che intrattiene con il proprio “fuori”, costituito dall’elemento pre-individuale, che, in questo caso, è costituito dal programma genetico inscritto in lui. Una volta istituita questa relazione, essa non è rappresentabile come un assorbimento progressivo e continuo di informazione che possa dar luogo al dispiegamento di una forma originaria già-da-sempre contenuta nel suo nucleo. Il vivente, afferma Foucault, non cessa di essere attraversato dalla discontinuità: «Per tutto il corso della vita, gioca il caso assieme alla discontinuità... il discontinuo non soltanto ci delimita, ma ci attraversa»304. La vita, concepita come

un programma genetico di produzione del vivente, ci riporta all’esigenza di «pensare altrimenti la vita, il tempo, l’individuo, il caso»305, dal punto di vista della loro relazione e dei loro effetti sulla

soggettività, mantenendo ferma la consapevolezza che ci troviamo di fronte a “rappresentazioni” soggette a variazione storica.

Foucault infine, condivide lo scetticismo di Jacob sulla possibilità di approdare ad un sistema definitivo capace di rappresentare la “verità” della vita. «Oggi viviamo in un mondo di

Nel documento Biopolitica e libertà in Michel Foucault (pagine 119-128)