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Per un intervento pubblico nell’economia

2. Alcune possibili prospettive attraverso le quali analizzare la normativa sull’integrazione socio-sanitaria

2.1. Dagli studi economici ad una prospettiva economica

2.1.2. Per un intervento pubblico nell’economia

Gli inizi del pensiero economico moderno presentano dunque una forte prevalenza della corrente liberista, che riteneva opportuno che lo Stato limitasse i propri interventi al “minimo indispensabile”, coincidente in linea di massima con le attività indicate da Smith.63 Qualche apertura maggiore si era intravista in N. W. Senior, che sostituiva il laissez faire come principio generale – a cui possono essere poste delle eccezioni – con il principio dell’opportunità (expediency): una volta che un intervento è giudicato opportuno, il governo può attuarlo. Oppure in J. S. Mill, che da un lato circoscriveva la validità della formula smithiana (“il singolo è il miglior giudice dei propri interessi”), declassandola, per così dire, da principio scientifico a mera norma pratica; dall’altro dava un nuovo rilievo all’importanza di quanto l’azione pubblica può realizzare con “l’essere di guida e accrescere le possibilità d’informazione”,64 e soprattutto indicando la possibilità di mutare la relazione tra pubblico e privato da un rapporto di tipo antagonistico ad uno di tipo complementare.

Al di là delle posizioni di questi ultimi due autori – che appaiono più come “ridimensionamenti interni” di un’idea liberista, che come nuovi sistemi di pensiero – il primo studioso che mette seriamente in discussione l’impianto descritto nel

      

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Un interessante esempio di pensiero divergente circa la stretta correlazione tra il meccanismo dei

voucher e le logiche del libero mercato si trova in M. Villa (2003, 112-119). Egli sostiene che nel

complesso del sistema di welfare, costruito in particolare nella realtà lombarda, il rapporto tra offerta e domanda non sia equiparabile a quello del mercato, poiché di fatto entrambe vengono regolate dall’attore istituzionale (in questo caso, la Regione) “a monte” del bisogno: l’offerta, attraverso processi di programmazione e la domanda attraverso la definizione della quantità di voucher in relazione al budget disponibile. Anche per tali motivi il voucher non comporta, secondo tale autore, un reale aumento della libertà di scelta dell’utilizzatore di servizi e prestazioni. Su quest’ultimo tema si veda anche Avanzini, Ghezzi, (2010, 4).

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La maggior parte degli studiosi consultati mette in evidenza come le posizioni di tali autori nascano anche per contrapposizione alle precedenti idee mercantiliste, in cui l’attività economica ruotava attorno al sovrano, e le politiche erano rivolte ad aumentarne la ricchezza, grazie ad incentivi all’esportazione e disincentivi all’importazione di merci. Cfr. in proposito Backhouse (2003), Besomi, Rampa (1998), Caffè (1971).

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L’espressione, tratta dall’opera di J. S. Mill Principles of Political Economy, è riportata in Caffè (1971, 52).

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paragrafo precedente è certamente J. M. Keynes. Con le sue opere (di cui la principale è la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta) Keynes si pone in aperto dissidio con gli autori di stampo liberista, in particolare proprio nell’analisi dei rapporti tra mercato ed intervento pubblico. Pur essendo un “convinto e persistente assertore dell’iniziativa e della responsabilità individuale” (Caffè, 1971, 128), al tempo stesso ne riconosce difetti ed abusi; e ciò lo porta anche, per conseguenza e grazie allo sviluppo dei propri studi, a dubitare della effettiva capacità autoregolatrice del sistema economico, fortemente propugnata dagli economisti classici. In particolare, egli contesta l’idea che l’equilibrio garantito dal libero mercato coincida con una situazione di piena occupazione,65 dimostrando anzi che esiste la concreta possibilità di vari gradi di equilibrio – coincidenti con diversi gradi di occupazione – ed in particolare di un equilibrio stabile di disoccupazione, in cui un sistema economico può permanere anche per lungo tempo, a meno che non si intervenga a rimuoverlo con idonee misure di intervento pubblico (che quindi divengono una componente essenziale del raggiungimento e mantenimento delle condizioni di pieno impiego). In particolare, Keynes individua due misure principali di politica economica: la riduzione del tasso di interesse, per favorire gli investimenti; e la spesa pubblica in deficit (il cosiddetto deficit spending), nelle varie forme possibili, che costituisce per una parte della popolazione un reddito aggiuntivo, andando quindi ad incrementare la capacità reale d’acquisto. Il deficit di bilancio pubblico non va però, per l’autore, “risanato” con altre tasse, che ridurrebbero l’incremento di reddito, e dunque vanificherebbero l’efficacia delle misure. Il tema dell’occupazione acquista dunque, in Keynes, un rilievo essenziale negli studi economici; ed è importante notare come “la soluzione, o comunque attenuazione, del problema della disoccupazione rappresenta, al di là dell’evidente aspetto di equità sociale, un recupero di efficienza sul piano macroeconomico” (Regoli, 2004, 43; corsivo dell’autore).

      

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“Le nostre idee sull’economia (…) sono imbevute di presupposti teorici che sono applicabili in modo appropriato solo a una società che è in equilibrio, con tutte le risorse produttive già impiegate. Molti tentano di risolvere il problema della disoccupazione con una teoria che è basata sull’assunto che non c’è alcuna disoccupazione” (J. M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and

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In Italia la linea di pensiero di Keynes trova un importante sostenitore in Caffè, che non solo evidenzia il suo apporto al linguaggio della scienza economica e l’importanza della “stretta connessione che Keynes stabilì tra formulazione teorica e indicazioni di politica economica valide per i problemi immediati dell’epoca” (Caffè, 1984, 137); ma approfondisce anche – riprendendo il contributo di diversi autori, da Marshall a Pigou a Coase – il tema della distanza tra interesse individuale ed interesse sociale, attraverso lo studio delle esternalità: ovvero in particolare di costi esterni al processo di produzione che ricadono non sui privati produttori, ma sull’intera collettività.66 Tale analisi contribuisce a confutare l’assunto smithiano della coincidenza tra interesse individuale ed interesse sociale. Particolarmente appassionato è anche, in Caffè, l’interesse per il tema dell’occupazione, sintetizzabile tra gli altri nella sua affermazione che “la pretesa «libertà ed autonomia» del sistema produttivo si è storicamente basata sul dramma umano della disoccupazione” (Caffè, 1986a, 91).

Una posizione particolare occupa nel panorama dell’economia contemporanea A. Sen, del cui pensiero vale la pena di richiamare solo alcuni tratti, strettamente legati alle tematiche esposte da coloro che sostengono la necessità di un intervento pubblico nell’economia. Innanzi tutto il tema della libertà di scelta, così caro ai liberisti, che questo autore ri-coniuga ponendo in evidenza la necessità che tale libertà sia effettiva, e dunque legata alla capacità di ciascuno di poterla e saperla esercitare; capacità che non è affatto scontata in tutti i luoghi e le situazioni sociali. In particolare, sottolinea Sen richiamando A. Smith, “la libertà stessa di scambio e transazione è parte integrante di quelle libertà fondamentali cui gli esseri umani attribuiscono – a ragione – un valore” (Sen, 2000a, 12); ma questa premessa serve a Sen non per riproporre un nuovo liberismo, quanto per evidenziare come la libertà di partecipare al mercato del lavoro sia negata in molte parti del mondo; e come

      

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Un esempio classico in questo senso è quello degli scarichi nocivi di un’industria chimica; la posizione su questo tema di studiosi come Coase è che i problemi sollevati dalle esternalità negative andrebbero risolti tramite accordi contrattuali tra le parti – nel caso in esempio, tra l’industria chimica e la collettività circostante – che mirino in certo modo a re-internalizzare nell’industria i costi, senza ricorrere all’intervento pubblico; a tale opinione Caffè contrappone, non senza una certa lungimiranza, l’idea che tali “indirizzi di pensiero, pur proponendosi in linea di principio un maggiore avvicinamento alla realtà, trovano un limite evidente nella circostanza che l’entità dei costi sociali non

pagati è tuttora ben più rilevante degli intralci creati da forme, sia pure farraginose, di regolamentazione pubblica” (Caffè, 1986a, 50; corsivo dell’autore).

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“l’illibertà economica, sotto forma di povertà estrema, può trasformare una persona in preda inerme di chi viola altre forme di libertà” (Sen, 2000a, 14). A tal proposito, Sen ritiene utile e necessario implementare forme di collaborazione tra intervento pubblico ed azione del mercato, portando l’esempio della prevenzione delle carestie, nella quale sono egualmente (e, potremmo dire, sinergicamente) importanti sia l’intervento dello stato volto a creare posti di lavoro (attraverso i quali viene acquisito un certo potere d’acquisto), sia gli scambi commerciali che forniscono cibo (Sen, 2000b, 42-45).