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La lettura “soggettiva”: dall’utilitarismo all’economia del benessere

2. Alcune possibili prospettive attraverso le quali analizzare la normativa sull’integrazione socio-sanitaria

2.1. Dagli studi economici ad una prospettiva economica

2.1.3. La lettura “soggettiva”: dall’utilitarismo all’economia del benessere

Il pensiero utilitarista nasce con J. Bentham, secondo il quale lo scopo della società è quello di realizzare la massima utilità (o felicità) per il maggior numero di individui; tale valutazione peraltro prescinde da analisi relative alla distribuzione interna delle utilità tra i diversi individui: e dunque, il concetto di massima utilità è legato a ciò che è possibile raggiungere globalmente, in una determinata società. Assunti fondamentali di tale impostazione sono la misurabilità della utilità in ciascun individuo e la confrontabilità tra individui diversi. L’utilità individuale come metro di misura economico viene ripreso ed ampliato dai teorici del marginalismo, diversi dei quali partono appunto da posizioni utilitariste. I marginalisti introducono – nella determinazione dei prezzi – il fattore soggettivo sostenendo che il valore di un bene dipende dalla sua utilità, e dunque dall’importanza che i soggetti vi attribuiscono: più il prodotto è desiderato, più è capace di soddisfare un bisogno e più vale; di conseguenza, ha un maggior costo.

Dal punto di vista della politica economica, che qui interessa maggiormente, gli utilitaristi della scuola di Bentham ed i fondatori del marginalismo (W. S. Jevons, L. Walràs e C. Menger) ricalcano per lo più le posizioni liberiste, già richiamate in precedenza. Un contributo specifico in tal senso lo apporta, in Italia, F. Ferrara, che oltre ad affermare esplicitamente che il contenuto dell’economia politica è essenzialmente psicologico e ad individuare nell’utilità l’elemento cardine dei processi economici, si preoccupa di analizzare le condizioni che legittimano e delimitano l’intervento pubblico (che lui individua: nell’interesse generale; nella necessità; nel vantaggio derivante da una maggiore efficacia dell’intervento pubblico

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rispetto all’azione privata; condizioni che, per giustificare un intervento pubblico, devono essere congiuntamente soddisfatte). Dalla verifica che ne consegue, egli giunge alla conclusione che in ognuna delle forme di intervento pubblico analizzate (tra queste, anche l’ambito della difesa e protezione dei deboli) mancano una o più delle condizioni necessarie: e dunque si tratta di inopportune ingerenze governative, che tra l’altro hanno, a suo avviso, un “effetto disincentivante (…) nei confronti dello spontaneo associazionismo dei privati” (Caffè, 1986a, 29). Di diverso avviso sono, su tale tema, due pensatori come A. Marshall e H. Sidgwick: il primo, che dimostra da un punto di vista teorico la “possibilità di migliorare i risultati conseguibili su un mercato perfettamente concorrenziale, mediante l’azione pubblica”;67 il secondo, che a partire dall’analisi marginalista porta una critica al sistema della libertà naturale del mercato. In particolare Sidgwick evidenzia che il mercato, anche da un punto di vista strettamente teorico, in certi ambiti non ha alcuna tendenza a realizzare il massimo vantaggio per la collettività: in particolare riguardo all’assetto distributivo, fonte di disuguaglianze,68 ed alle possibilità di conflitto tra interessi privati ed interessi sociali.

Tali tematiche vengono riprese ed ampliate dai teorici dell’“economia del benessere”;69 in particolare A. C. Pigou assume come obiettivo sociale da massimizzare il benessere economico globale della collettività, che per lui – fatti salvi gli assunti dell’utilitarismo benthamiano – è ottenibile come somma del benessere dei singoli individui.70 Egli utilizza quale “indice approssimativo, ma

      

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Caffè sottolinea, in tale ambito, che “l’importanza storica della posizione marshalliana nei confronti dell’intervento economico pubblico deriva dal fatto che essa si basa su una critica interna dei risultati ultimi di uno stato d’equilibrio concorrenziale, critica condotta secondo la logica del ragionamento economico e non con il ricorso ad argomentazioni ad esso estranee” (Caffè, 1971,75).

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Particolare interesse riveste, in questo senso, l’utilizzo del criterio marginalista nell’analisi della distribuzione della ricchezza: se per una persona, sostiene Sidgwick, l’utilità marginale di un certo bene è maggiore che per un’altra, l’utilità totale può essere aumentata redistribuendo il bene a vantaggio di chi ne trae maggior utilità. L’esempio classico è costituito da un bene alimentare di prima necessità come il pane, che costituisce per un povero un bene di maggior valore rispetto ad un ricco: e quindi, per tale autore, togliendo il pane al ricco e dandolo al povero si effettua un’azione che aumenta la ricchezza complessiva (Cfr. in proposito Backhouse, 2003, 285-286).

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L’espressione, che avrà successivamente un ampio utilizzo, nasce nel 1920 come titolo di un volume di A. C. Pigou.

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Caffè evidenzia come in Pigou vi sia la consapevolezza che il benessere economico non si identifica con l’intero benessere, ma che peraltro sia l’unica parte di benessere che possa essere misurata (Caffè, 1971, 88-89).

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abbastanza soddisfacente, del benessere economico il reddito o dividendo nazionale” (Caffè, 1971, 89). Riprendendo gli spunti dell’analisi di Sidgwick, Pigou propone di analizzare congiuntamente i due aspetti del volume e della distribuzione del reddito nazionale: sostenendo che si ha aumento del benessere economico in caso di aumento del reddito (purché non diminuisca il reddito spettante ai meno abbienti), o in caso di aumento dei reddito per i meno abbienti (purché non diminuisca il reddito complessivo). Pigou prosegue poi ad analizzare le circostanze in cui questi due aspetti vadano uno a detrimento dell’altro, ovvero i casi in cui gli interessi privati e quelli sociali divergono; tale studio permette all’autore di individuare alcune categorie di situazioni in cui avviene tale divergenza, e di indicare quali interventi pubblici siano utili a contemperare gli interessi privati e pubblici. Questo lo porta a predisporre “un programma dettagliato per la politica economica, con il quale di fatto propone la formula che sarà in futuro quella dello Stato sociale” (Backhouse, 2003, 288). Tra gli studiosi dell’economia del benessere, una diversa impostazione si può ritrovare in V. Pareto: egli critica l’idea che sia possibile misurare in senso cardinale le soddisfazioni/utilità individuali, e di conseguenza disconosce la possibilità di sommarle e di confrontarle tra individui diversi; e dunque sostiene che – dal punto di vista strettamente economico – sia necessario limitarsi unicamente ai temi dell’efficienza produttiva, senza affrontare le tematiche distributive. Sostiene che la posizione di massimo vantaggio per una collettività (il cosiddetto “ottimo paretiano”) sia quella in cui non sia possibile migliorare la posizione di un soggetto senza peggiorare quella di un altro;71 di fatto, poiché non vengono analizzati gli aspetti distributivi, “non esiste un solo ottimo, ma un numero indefinito di diversi possibili ottimi, ciascuno distinto dall’altro a causa di differenze nella distribuzione della ricchezza sociale” (Caffè, 1984, 30; corsivo dell’autore).

Un passo in avanti in questo ambito di pensiero si ha con i teorici della “nuova economia del benessere”: tra loro, N. Kaldor introduce l’idea che, in caso di mutamenti della distribuzione di reddito, avvenuti in conseguenza di aumenti del volume dello stesso, sia possibile riequilibrare la distribuzione “attraverso un’azione di governo diretta ad indennizzare le perdite (…) con mezzi ottenuti mediante       

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Ciò discende, come naturale conseguenza, dall’idea che le soddisfazioni individuali non siano tra loro confrontabili; e dunque dall’impossibilità di “misurare” se e quanto il vantaggio dell’uno sia maggiore o minore dello svantaggio dell’altro.

Pagina | 64 prelievi a carico dei produttori avvantaggiati” (Caffè, 1971, 104; corsivo dell’autore).