• Non ci sono risultati.

L'arredo urbano come strumento di controllo

Nel documento Persone senza dimora e spazio pubblico (pagine 106-113)

Le città sono terreni di scontro militare, di conflitti e di opposizioni violente da sempre. Si pensi alle rivolte nelle banlieue di Parigi nel 2005 e alla rivolta studentesca del 1977 nella città di Bologna, culminata in duri scontri di piazza con le forze dell'ordine che hanno visto l'uccisione di Lorusso l'11 marzo del 1977. Accanto a questi scontri più evidenti, nelle nostre città, come scrive l'architetto Fabrizio Gallanti: «un altro tipo di conflitto, più pervasivo, meno acceso ed evidente continua a esistere, pur se negato da molte letture correnti della nostra società (“non ci sono più classi sociali, siamo tutti borghesi”): si tratta della lotta di classe, che si dissimula, assume morfologie più sfumate, ma che articola in realtà tutta l’organizzazione sociale e spaziale della città»498. Come abbiamo visto,

sono diverse le “armi” utilizzate dalle città occidentali per affrontare questa “guerra a bassa intensità”499, una guerra che vede i segmenti della popolazione urbana più o meno benestante

scontrarsi con i poveri, in particolare quelli fin troppo visibili sulle strade delle nostre città, i senza dimora. Tra gli strumenti di controllo del “pubblico indesiderato” in generale e dei senza dimora in particolare figurano la progettazione architettonico-urbanistica, l'emanazione di ordinanze nazionali e/o locali e il discorso, nella forma di rappresentazioni create dai media e dai politici che si riflettono poi sull'opinione pubblica. Tali strategie architettoniche, politiche e discorsive, secondo Williams, non solo rispondono al fondamentale bisogno di controllare questo pubblico indesiderato, ma anche a quello di rappresentarlo come delinquente, in modo da stabilire, per contrapposizione, la disciplina e una programmata e forzata normalità pubblica a favore dei benestanti500.

Passiamo ora ad analizzare una componente specifica di quella varietà di dispositivi di deterrenza connessi all'organizzazione spaziale dello spazio pubblico urbano che, tramite accorgimenti architettonico-urbanistici e di design, determinano a chi uno spazio è destinato e quali usi sono possibili all'interno dello stesso: l'arredo urbano. Questo termine include gli oggetti e i dispositivi installati nel paesaggio urbano, dunque nelle strade e nelle piazze, per svariati scopi, come le barriere di sicurezza, le panchine, le colonnine spartitraffico, le cassette della posta, le cabine telefoniche, i lampioni, i semafori, i segnali stradali, le fermate del pullman o del tram, i bagni pubblici, le fontane, i memoriali, i bidoni della spazzatura.

Come abbiamo visto, Snow e Mulcahy sostengono che uno dei limiti più cruciali alla vita quotidiana e alla sopravvivenza delle persone senza dimora sono quelli spaziali o ecologici501. Così,

498Gallanti F. “La lotta di classe esiste eccome e si manifesta nelle nostre città”, www.abitare.it 499Davis M., Città d quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, op.cit., pag. 205

500Williams J., “Homelessness as delinquency: how private interests enforce constructs of normalcy in public space”,

op.cit.

105

ad esempio, la disponibilità di bagni pubblici, di panchine e di fonti di calore rendono la vita sulla strada relativamente più facile, mentre la loro rimozione o la loro modifica in “artefatti difensivi” la rendono estremamente difficile, se non impossibile. In particolare, il design di uno spazio secondo Sahlin: «influenza la percezione di cosa è possibile e appropriato farvi. Allo stesso tempo, ha un impatto sull'immagine degli users dello spazio come normali o devianti e sulla possibilità di questi di diventare target di avversione o deterrenza, anche se le loro attività non sarebbero vietate o illegali»502.

Ciò che si osserva nelle città europee, e con loro quelle italiane, è l'adozione di ingegnose, ma al contempo “maligne”, tattiche materiali, nella forma di nuovo arredo urbano, per escludere socialmente e spazialmente le persone senza dimora dall'uso dello spazio pubblico. Mike Davis è uno dei primi a parlare di queste strategie di esclusione dei senza dimora (“le panchine a prova di barbone”, i cassonetti della spazzatura fortificati, ecc.) nel suo già citato studio su Los Angeles. In particolare, il “design di controllo e di sorveglianza”, mirato a programmare gli spazi per determinati e specifici usi, ossia ciò che Davis chiama il “cosciente indurimento della superficie della città”, è progettato per rendere lo spazio il più invivibile possibile per i poveri e i senza dimora dal momento che “l'esistenza di migliaia di senza dimora (…) danneggia l'immagine dei designer della vita a Downtown e smaschera l'illusione faticosamente costruita di un “rinascimento” di Downtown”503.

Più recentemente, anche gli studi dell'Osservatorio europeo sul fenomeno dei senza dimora evidenziano le diverse modalità, alcune più sottili altre meno, che tramite l'architettura e l'arredo urbano, e i loro elementi apparentemente decorativi ma che, in realtà, son ben lontani dall'essere innocenti, vengono utilizzate per controllare il modo di vivere delle persone senza dimora. Secondo questo studi: «panchine anti-barbone, inferriate e recinzioni, elementi apparentemente innocenti e decorativi, ma che tuttavia impediscono a chiunque di sedersi sotto un tetto o le tettoie di vetro, si diffondono in tutta la città, così come i segnali indicatori che avvisano di stare attenti e in guardia, di essere continuamente sospettosi di pericoli reali o immaginari. Esempi includono i famosi poster nella metropolitana newyorkese (“Se vedi qualcosa, dì qualcosa”) o l'onnisciente occhio che vede tutto che avvisa il visitatore di qualche quartiere medio-alto che le persone che vi abitano lo stanno guardando»504. Gli stessi studi sottolineano che queste pratiche, seppur pervasive, sono tuttavia

relativamente moderate rispetto a quelle più estreme impiegate dalle città americane, come ad esempio il cosiddetto “hot washing”, che prevede l'installazione di spruzzatori sulle porte utilizzate dalle persone senza dimora come giaciglio temporaneo per “pulirli via”. Questo tipo di interventi è

502Sahlin I., “Urban definitions of places and behaviour”, op.cit., pag. 11

503Davis M., Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, op.cit., pag. 205

106

per lo più assente dalla scena europea, dove: «le tecniche di deterrenza (…) per la maggiore assumono un carattere piuttosto soft»505. L'approccio soft che caratterizza le risposte europee alla problematica

visibilità delle persone senza dimora non deve, tuttavia, condurre a sottostimare l'impatto che le stesse hanno su queste persone. Infatti, il controllo tramite il design dello spazio, progettato per escludere gli indesiderabili dallo spazio pubblico e per permettere ai “quartieri e agli users stabili di definire il decoro dello spazio”506 eliminando gli “instabili”, quelli che “turbano la città”, si sta diffondendo

anche nelle città europee e, così, gli spazi e i luoghi tradizionalmente occupati dai senza dimora europei diventano sempre più scomodi o meno accessibili, imponendo condizioni ancora più dure su un gruppo già svantaggiato507. In tal senso, Dean Saitta, commentando un paper sull'arredo urbano

“anti-senza dimora” italiano presentato dai sociologi Bergamaschi e Castrignanò al convegno dell'Associazione internazionale di sociologia visuale (IVSA) tenutosi a Bologna nel 2010, sostiene che, come nelle città americane, anche le strade europee stanno diventando sempre più “meschine” e “sadiche” e lo diventeranno sempre di più, almeno: «finché non penseremo a modi migliori per incastrare il bisogno del decoro urbano con il diritto alla città»508.

Ma queste strategie, come sottolinea Williams, non influiscono solo sulle persone senza dimora ma anche sugli “educati”, sugli “occupati”, su coloro che hanno “felici e salutari famiglie”: in breve, sui cittadini “normali”. Infatti: «gli spazi dove le persone si incontravano prima e dopo il lavoro per vedere gli amici, mangiare, bere un caffè, divertirsi e andare a fare shopping stanno diventando meno ospitali»509. Così, se, da un lato, il controllo è mirato a rendere gli spazi pubblici dei luoghi “buoni”,

dall'altro, questo dovrebbe implicare che siano, al contempo, accoglienti. Ma se accoglienti, oltre ad attrarre il cittadino normale, attireranno anche coloro che invece si vogliono escludere, tra cui i senza dimora. E', in tal senso, che gli spazi sono resi “difensivi”510. Scrive l'urbanista americano William

H. Whyte, nel suo famoso studio del 1980 sulla “vita sociale dei piccoli spazi urbani”: «il più grande ostacolo alla fornitura di spazi migliore è il problema degli indesiderabili. Non sono tanto loro stessi a costituire il problema. Sono le azioni utilizzate per combatterli a costituire il problema. A causa di una ossessiva paura della loro presenza, i leader civici si preoccupano del fatto che se uno spazio è reso attraente per le persone lo sarà anche per gli indesiderabili. Così, viene reso difensivo. Non vi deve essere bivacco... e... non si può mangiare, non si può dormire. Così, le panchine vengono rese troppo corte per dormirci, e spuntoni sono messi sui cornicioni...»511.

505Doherty J., “Homelessness and exclusion: regulating public space in European cities”, op.cit., pag. 301 506Sahlin I., “Urban definitions of places and behaviour”, op.cit., pag. 2

507Blomley N., Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge, New York, 2004, pag. 302 508Saitta D., “Europe's mean streets”, 20 maggio 2012, www.interculturalurbanism.com

509Williams J., “Homelessness as delinquency: how private interests enforce constructs of normalcy in public space”,

op.cit., pagg. 32-33

510Newman O., Defensible space, op.cit.

107

Sahlin, a questo proposito, riporta l'esempio del quartiere in cui vive a Göteborg, in Svezia, dove nel 2005 delle panchine, dove prima vi si sedeva per parlare, consumare alcolici o riposare, sono state sostituite da alcune rastrelliere per biciclette. Poco dopo una piazzetta nelle vicinanze è stata recintata e le sue panchine sono state sostituite dalle sedie e dai tavoli di un locale. Così, uno spazio precedentemente aperto a diversi usi e users, incluso i senza dimora, è stato trasformato in uno spazio commerciale privatizzato. In breve, non ci sono più posti dove potersi sedere gratuitamente512, dove

secondo William Whyte una delle prime misure della qualità di qualsiasi ambiente urbano è piuttosto semplice: ci sono posti dove i passanti possano sedersi comodamente?513 Insomma, quando rendiamo

gli spazi il più invivibili possibile per le persone povere e senza dimora, rendendo la superficie della città “dura”, per dirla alla Davis, significa rendere la stessa più dura anche per la popolazione più ampia. Così, da un lato, tali strategie si ripercuotono su tutti gli users dello spazio pubblico urbano e sull'essenza stessa di quest'ultimo, dall'altro queste misure non risolvono nemmeno il problema delle persone che non hanno una dimora, semplicemente lo allontanano. «Allontanarli o minimizzare la loro presenza rendendo gli spazi scomodi può forse funzionare per un po' e spesso risulterà in congregazioni maggiori altrove (…) Impoverire la piazza non è un buon modo di valorizzarla»514.

Secondo Sahlin, tra l'altro, gli interventi sullo spazio mirati a trasformarlo in difensivo hanno altre implicazioni oltre ad indurire la superficie della città. In particolare: «rendere uno spazio “difensivo” significa anche permettere alle persone di definirlo come semi privato e appartenente a una specifica collettività di residenti, piuttosto che a “tutti”»515. Un esempio è offerto dagli scivoli

installati sul vano delle porte di entrata delle proprietà private che rispondono alla medesima preoccupazione su cui si basa la pratica di “hot-washing” nel contesto americano. La presenza dei senza dimora viene vissuta dagli abitanti, preoccupati dei prezzi immobiliari e dello status del quartiere, come un'invasione del proprio territorio. I residenti cercano, così, di controllare lo spazio circostante alla propria proprietà trasformandolo in uno spazio difensivo, dotandolo, in particolare, di sistemi per allontanare i senza dimora e dando forma a quegli “spazi di interdizione banali” di cui ci parla Steven Flusty516. Il risultato è il drammatico aumento di luoghi che sono destinati ad un gruppo

specifico piuttosto che a tutti. In breve, il mio spazio pubblico non è più il tuo spazio pubblico.

512Sahlin I., “Urban definitions of places and behaviour”, op.cit., pag.12 513Whyte W.H., City: rediscovering the center, op.cit.

514Olsson S., Ohlander M., Cruse Sondén G., Lokala torg, Centrum for Byggnadskultur, Goteborg, 2004, citato in Sahlin

I., “Urban definitions of places and behaviour”, op.cit., pag. 13

515Sahlin I., “Urban definitions of places and behaviour”, op.cit., pag. 11

108 5.1. Gli “anti-luoghi” europei

Il titolo di questo paragrafo fa riferimento ad un recente lavoro del collettivo francese Survival Group, intitolato “Anti-sites”, appunto “anti-luoghi”517. Con questo termine, i due membri del

Survival Group, Arnaud Elfort e Guillame Schaller, indicano tutti quegli spazi che si trovano nelle nostre città che sono stati occupati da arredo urbano di tipo esclusivo o “anti-senza dimora”. «Si tratta di spazi che, nella città, sono in qualche modo "condannati". Gli “anti-sites” sono occupati da oggetti e cose, come i ciottoli per esempio, che hanno lo scopo di impedire usi indesiderati dello spazio. A volte lo scopo di questi oggetti o luoghi è nascosto dietro la falsa apparenza di un mini giardino o di un oggetto decorativo, la cui forma è spesso creativa»518.

Elfort e Schaller, in particolare, hanno fotografato gli spazi e gli elementi di arredo urbano che colpiscono le persone senza dimora. Si tratta di una collezione, in itinere (nel senso che si tratta di un catalogo aperto che può essere arricchito dalle diverse declinazioni locali), che raccoglie innumerevoli fotografie scattate, nello specifico, nella Parigi sarkozyana, luogo di forte espansione di queste pratiche, a Marsiglia, negli Stati Uniti e in Canada, che immortalano gli altrettanto innumerevoli dispositivi e stratagemmi spaziali ed architettonico-urbanistici pensati, studiati e progettati per ostacolare la presenza dei senza dimora in certi luoghi e messi in atto in molte città, sia americane che europee, per garantire sicurezza e protezione ai cittadini e il mantenimento di una certa qualità della vita e di un certo decoro urbano. Si diffondono così: «spunzoni, griglie, paletti, rilievi artificiali collocati strategicamente per impedire di sdraiarsi, ma anche solo di appoggiarsi per un momento»519.

Gli autori di questa ricerca fotografica sul campo, in una brevissima introduzione all'album (disponibile su www.flickr.com) parlano di “escrescenze urbane”. «Le escrescenze urbane anti-senza dimora si moltiplicano a Parigi (o altrove) e respingono i poveri verso zone sempre più inospitali. Questa violenza ordinata, indifferente alle sofferenze altrui è una risposta silenziosa e paradossale all'ultima precarietà, migliorando solo la qualità della vita dei parigini disturbati dalla miseria della Francia. In realtà, queste iniziative (collettive, private, pubbliche) non fanno altro che partecipare alla degradazione della relazioni umane e al trionfo egoista dell'individualismo»520.

Le fotografie scattate dai due francesi, in pratica, danno forma al concetto di spazio di interdizione introdotto da Steven Flusty nel suo saggio Building paranoia. Di spazi qualificabili come

517Elfort A., Schaller G., “Anti-sites”, www.survivalgroup.org

518European Alternatives, “The anti-sites in the new city”, www.euroalter.com 519Gallanti F. “La lotta di classe esiste eccome e si manifesta nelle nostre città”, op.cit.

520Survival Group, “Les Anti-sites: archivage d'excroissances urbaines anti-SDF. Archive of anti-SDF urban outgrows”,

109

“anti-luoghi” ne sono stati scoperti di tutte le forme e gli stili: «all'inizio uno vede solo quelli più ovvi, e poi quando l'occhio si abitua, uno ne scopre molti, che sono quasi invisibili (…) Questi oggetti sono violenti. Raccogliere foto di questi oggetti permette di mostrare la violenza che solitamente non si è abituati a vedere. Non sono oggetti che si vedono in maniera “automatica”: bisogna guardare la foto e chiedersi “è un giardino?”, “È un elemento decorativo?” “Oppure ha altri scopi?”. Le tecniche di dissimulazione sono varie. E ti metti a riflettere sul fatto che ci sono persone che pensano a realizzare questo tipo di oggetti, che li concepiscono in modo che non sembrino violenti. È un processo realmente insidioso che è all'interno del funzionamento delle nostre società. Non è una chiara politica di esclusione ma la si trova ovunque»521. I due membri del Survival Group fanno l'esempio delle

sedute singole che appaiono nelle metropolitane e quello del Canal Saint Martin a Parigi, dove in uno spazio occupato, nei mesi invernali, da alcune tende per i senza dimora donate dall'associazione Don Quichotte è stato creato un nuovo “giardino ecologico”.

Elfort e Schaller, in questo processo, riconoscono due tendenze, la prima più frequente negli Stati Uniti e nelle città canadesi, la seconda europea. Nella realtà d'oltreoceano, in particolare, è osservabile una tendenza più pragmatica, concreta ed efficiente, che non cerca di mascherare i propri scopi, come ad esempio: «punte, paletti che perlomeno sono franchi nella loro brutalità»522. In Europa, al

contrario, emerge una tendenza più ambigua che ricorre a stratagemmi meno evidenti, come pareti oblique, piccoli giardini di piante grasse, angoli acuti, sculture minimaliste. Seppur più velate, tali tattiche: «svolgono comunque in maniera impeccabile la funzione di allontanare le persone indesiderate»523.

Tra tutte le strategie materiali adottate contro le persone senza dimora, nella forma di nuovo arredo urbano, la deprivazione del sonno e del riposo sembra essere la più prolifica. Williams individua due strategie mirate ad evitare la scomoda visione di un senza dimora, che secondo l'immagine iconica è “stravaccato su una panchina o sotto dei cartoni”. La prima strategia utilizza dispositivi il cui messaggio è chiaro: certi comportamenti non sono più ammessi in pubblico. Un esempio emblematico è la cosiddetta panchina “anti-barbone”, o “a prova di barbone”, come direbbe Davis: una panchina divisa da braccioli che depriva così le persone senza dimora di un posto dove dormire, forzandole a dormire sul suolo o allontanandole altrove, dove saranno il problema di qualcun altro524. Queste “panchine igieniche”525 hanno fatto il loro ingresso in quasi tutte le città europee,

521European Alternatives, “The anti-sites in the new city”, op.cit.

522Gallanti F. “La lotta di classe esiste eccome e si manifesta nelle nostre città”, op.cit. 523Ididem

524Williams J., “Homelessness as delinquency: how private interests enforce constructs of normalcy in public space”,

op.cit., pag. 28

525Paté G., Argillet S., “Bancs publics. Regard sociologique sur l'ordinaire des espaces urbains”, in Actes de la recherche

110

come dimostrano le diverse ricerche dell'Osservatorio europeo sul fenomeno dei senza dimora, e sono presentate come parte di una pianificata “estetizzazione” dello spazio526. Dalla parte dei senza dimora,

ciò implica un adattamento delle loro abitudini. Da alcune ricerche emerge, inoltre, che l'opinione pubblica rispetto a questo intervento è piuttosto divisa. Da un questionario telefonico condotto a Budapest, ad esempio, emerge che una parte della popolazione intervistata concorda sulla decisione di installare dei braccioli sulle panchine nelle aree pubbliche, vedendo di buon occhio che le panchine ritornino al loro uso “legittimo”: il sedersi. Secondo alcuni i senza dimora dovrebbero dormire nelle apposite strutture e non sulle strade; altri li trovano un disturbo visivo, hanno paura che siano contagiosi e sono preoccupati del cattivo odore. La maggioranza degli intervistati, tuttavia, non è d'accordo con la trasformazione delle panchine, sostenendo che ognuno ha il diritto di sedersi o sdraiarsi dove vuole negli spazi pubblici. Alcuni aggiungono che almeno dormire su una panchina rappresentava una sorta di soluzione rispetto all'attuale conseguenza di dormire sul suolo527.

Una seconda strategia, meno sovversiva e più sinistra, adottata per privare le persone senza dimora del riposo, almeno di un riposo confortevole, consiste nel rimuovere fisicamente l'oggetto su cui riposarsi o ridisegnarlo rendendolo il più scomodo possibile, attraverso spuntoni, pendenze scomode o la trasformazione dello spazio in letti fioriti528, magari di piante grasse o spinose.

Insomma, per utilizzare ancora un termine di Gilles Paté, questi spazi assumono le caratteristiche di “veri e propri letti di chiodi”. I pianificatori e i designers affrontano i corpi umani come flussi da controllare e i senza dimora come elementi indesiderati529. I senza dimora, al pari dei piccioni, sono

considerati un fastidio e i sistemi per impedire ad entrambi di “appollaiarsi” in determinati spazi assumono caratteristiche spaventosamente simili. Così, accanto ai tradizionali spuntoni utilizzati per allontanare i piccioni, allo stesso modo, nelle città, si diffondono “spuntoni umani”530, il cui obiettivo

è impedire ai senza dimora di occupare “illegalmente” uno spazio. Conclude Gallanti: «a chi è povero e sfortunato, neppure il conforto di un minimo gesto di accoglienza: via, raus! (…) L’architettura e

Nel documento Persone senza dimora e spazio pubblico (pagine 106-113)