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La sicurezza urbana nella progettazione architettonico-urbanistica della città

Nel documento Persone senza dimora e spazio pubblico (pagine 60-69)

I discorsi sulla sicurezza, tanto amati dai politici e dai media, hanno, come anticipato, evidenti conseguenze sull'ambiente urbano. In particolare, questi discorsi legittimano, nella maggior parte delle nostre città, un'“architettura della paura”239, per dirla alla Nan Ellin, ossia una tipologia di

urbanistica basata sul controllo, che finisce per dividere la città socialmente e fisicamente.

«La forma segue la paura»240 scrive Ellin a proposito dell'urbanistica postmoderna. A tal

proposito, quella che anche Bauman definisce “l'architettura della paura e dell'intimidazione”241

spadroneggia negli spazi privati, attraverso la costruzione di centri residenziali ad accesso riservato spesso controllati da guardie in divisa, e dilaga anche nello spazio pubblico. Muri, recinzioni, serrature su serrature, veri baluardi difensivi. Separazioni, volute e cercate. Guardie e telecamere ovunque. Sempre Nan Ellin fa l'esempio di Copenaghen che ha deciso di togliere tutte le panchine dalla stazione centrale ferroviaria e di multare chiunque si sieda per terra in attesa del treno nonché l'esempio della città di Los Angeles che ha installato nei parchi cittadini delle panchine a forma di botte munite di gettiti d'acqua per non far riposare i “barboni”.

Secondo Pattaroni e Pedrazzini, il discorso sulla sicurezza alimenta il disprezzo e legittima un'urbanistica della paura242. In particolare, tale discorso produce due conseguenze: da un lato, certi

gruppi sociali, in particolare i poveri e i giovani, sono percepiti come fattori di insicurezza; dall'altro, lo sviluppo urbano pianificato alimenta un mercato di sistemi e servizi di sicurezza. Così, un crescente senso di insicurezza conduce a una crescente segregazione sociale e spaziale, forzando la separazione, e persino la distruzione, delle forme classiche della coesione urbana. Scrivono gli autori: «emerge un nuovo ordine urbano, un “arcipelago di paure”, che sostituisce l'ideale di una città moderna dove persone tra loro sconosciute possono pacificamente convivere negli spazi pubblici comuni», piuttosto: «la città della paura appare profondamente intollerante e intollerabile»243. Eppure, sempre

come notano gli autori, il pur fondamentale compito politico di rendere la città un luogo sicuro non dovrebbe implicare il prezzo della segregazione o del disprezzo verso una parte della popolazione.

Il legame tra sicurezza e spazio costruito non è nuovo, anzi accompagna l'esperienza dello sviluppo della città fin dalla sua fondazione. La paura, in particolare, è da sempre un aspetto fondamentale della progettazione, tanto che le città sono nate dal bisogno di protezione da potenziali invasori. Scrive Nan Ellin: «La protezione dagli invasori ha costituito, infatti, un incentivo centrale

239Ellin N., Architecture of fear, Princeton Architectural Press, New York, 1997 240Ellin N., Postmodern urbanism, Blackwell, Cambridge, 1996, pag. 145 241Bauman, Vita liquida, op. cit., pag. 76

242Pattaroni L., Pedrazzini Y., “Insecurity and segregation: rejecting an urbanism of fear”, in Jacquet P., Pauchari R.K.,

Tubiana L., Cities: steering towards sustainability, Teri Press, Dehli, 2010, pagg. 177-187

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nella costruzione delle città, i cui confini erano spesso marcati da grandi mura o da recinzioni, dalle antiche città della Mesopotamia alle città medievali fino agli insediamenti indigeni americani»244.

Tuttavia, secondo il sociologo Bauman, le mura difensive esteriori, che furono storicamente costruite attorno alla città, sono diventate, nella città contemporanea, mura interne245. In altri termini: «la paura

urbana contemporanea è provocata da un “aggressore interno”, diversamente dalle vecchie paure di aggressori esterni che portarono alla costruzione stessa della città»246. Le “nuove paure”, in tal

senso, trasformano la città dall'interno, sia nei suoi spazi privati che pubblici, dove occorre a tutti i costi preservare la sicurezza, i privilegi ed il consumo sfrenato dei nuovi “consumatori cittadini”247,

i soli ammessi ai nuovi spazi privatizzati e gentrificati.

Come osservano Bannister e Fyfe248, le connessioni tra la paura e lo spazio costruito sono

ovviamente mediate da una varietà di condizioni economiche e politiche. Le mura attorno alla città medievale rispondevano alla sicurezza fisica dei suoi abitanti così come alla difesa delle sue attività economiche. Tali mura osserva Marcuse: «permettevano alle corporazioni dominanti di controllare l'accesso, di disciplinare il commercio e di stabilire regole le attività commerciali all'interno delle loro zone»249. Anche Susan Christopherson, nel suo saggio Fortress city: privatised spaces, consumer

citinzenship, evidenzia come la capacità di mantenere il valore immobiliare nelle enclaves gentrificate situate nel centro della città e i profitti dei grandi centri commerciali, ristoranti e centri culturali è inevitabilmente connesso a questioni di sicurezza250. Similmente, Flusty, analizzando le corporate

plazas strettamente disciplinate e attente alla sicurezza, nota come la configurazione di questi spazi rifletta più la preoccupazione che la presenza della differenza sociale possa avere un impatto negativo sui profitti, piuttosto che quella di rispondere alle paure dei suoi abitanti. Scrive Flusty: «A plaza’s white-collar user mix adulterated by vagrants or a janitor’s family on a picnic (means) a loss of prestige before the ‘business community’ and a resulting loss of clientele»251.

Vi sono anche connessioni profondamente politiche tra paura e spazio costruito. La ricostruzione di Parigi ad opera di Haussmann, ad esempio, costituiva un inequivocabile progetto politico disegnato per ridurre la minaccia rappresentata dalle “classi pericolose”252. Oggi, la politica della paura viene

244Ellin N., “Fear and city building”, in The Hedgehog review, vol. 5, n. 3, 2003, pag. 44 245Bauman Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999

246Nae M.M., “Urban (in)security: between appearance and reality in Bucharest”, in Human geographies, Journal of

studies and research in human geographies, vol. 2, n. 2, Bucharest, 2008, pagg. 61-72

247Castrignanò M., “Cittadino consumatore o consumatore cittadino?”, in Nuvolati G., Piselli F., La città: bisogni,

desideri, diritti. La città diffusa; stili di vita e popolazioni metropolitane, FrancoAngeli, Milano, 2009, pagg. 149-160

248Bannister J., Fyfe N., “Introduction: fear and the city”, in Urban Studies, vol. 38, n. 5-6, 2001, pagg. 807-813 249Marcuse P., “Walls of fear and walls of support”, in Ellin N, Architecture of fear, op. cit. pag. 106

250Christopherson S., “Fortress city: privatised spaces, consumer, citizenship”, in Amin A., Post-Fordism: a reader,

Blackwell, Oxford, 1994, pagg. 409-427

251Flusty S., “Building paranoia”, in Ellin N., Architecture of fear, op. cit., pag. 58

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portata avanti nel paesaggio urbano in modo probabilmente meno manifesto ma non meno significativo. Le strade e le piazze della città, luoghi e simboli della protesta democratica e politica, continuano ad essere fonte di ansia per coloro che sono al potere, preoccupati delle sfide all'ordine sociale.

3.1. Il panopticon

Il modello del panopticon (“che fa vedere tutto”) si rifà all'idea di Jeremy Bentham, che nel '700 ideò una struttura ideale per la sorveglianza. In particolare, la struttura del panottico è composta di una torre centrale, all'interno della quale stazionerebbe l'osservatore, circondata da una costruzione circolare. Questa “ruota” ospita tutti gli occupanti dell'edificio che, grazie all'illuminazione posta alle loro spalle, possono essere controllati in tutto ciò che fanno da un unico sorvegliante. Questo dovrebbe indurre comportamenti positivi nei “sorvegliati”. In questo modello, la società sicura è, dunque, quella in cui vige il principio della trasparenza, quella in cui “si vede tutto”.

Sono due i testi di base su cui si fonda questo modello: a livello teorico, Vita e morte delle grandi città di Jane Jacobs e, a livello operativo, Defensible space di Newman. Nel suo famoso libro del 1961, Vita e morte delle grandi città, Jane Jacobs scriveva: ««Garantire nella città la sicurezza è una funzione primaria delle strade e dei marciapiedi urbani (…) mantenuta soprattutto da una complessa ed inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi»253.

Il testo costituisce un duro attacco contro i metodi di pianificazione e ristrutturazione urbanistica da parte della “moderna urbanistica ortodossa”. Jacobs cerca, così, di suggerire un nuovo modo per “salvare” la città quale creatrice di diversità, stimoli e creatività. Il testo si basa su due concetti fondamentali che possono essere riassunti, primo, nel cosiddetto “occhio sulla strada”, ossia il controllo dello spazio urbano operato spontaneamente dagli abitanti, nel senso che la presenza di attività, di movimento, di persone, di usi è il principale tutore della sicurezza; secondo, il sentimento di appartenenza al luogo e di identificazione con lo stesso, da cui dipende la sicurezza urbana: il cittadino difende e rispetta il territorio che sente proprio.

In seguito alla pubblicazione del libro di Jacobs, si crea alla Columbia University un gruppo interdisciplinare di lavoro composto da psicologi, sociologi ed urbanisti, coordinato da un architetto, Oscar Newman. Scopo di Newman era di trasformare la lettura della città proposta da Jane Jacobs in indicazioni operative per la progettazione. In particolare, nel 1972, Newman, con la sua teoria dello “spazio difendibile” (defensible space), offrì una risposta operativa e formale alle esigenze di sicurezza nelle città statunitensi. Secondo tale teoria l'organizzazione dello spazio urbano influisce

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sul livello di sicurezza e sulla sua percezione: può contribuire a renderlo più sicuro, ma per contro, se gli interventi non sono quelli giusti, può anche contribuire a renderlo molto più insicuro. In particolare, per Newman era chiaro che: «certi tipi di spazio e configurazioni spaziali favorissero le attività criminali»254, come ad esempio zone con scarsa illuminazione, grandi edifici con ingressi

poco visibili, giardini e cortili “nascosti”, ed era, dunque, altrettanto doveroso che un architetto progettasse uno spazio che evitasse l'insorgere di crimini.

Jane Jacobs ed Oscar Newman diventano i capiscuola di un filone molto importante nel mondo americano, che si occupa in modo specifico della prevenzione basata sull'organizzazione dello spazio urbano, il Crime Prevention through Environmental design, riassunto con le iniziali CPTED. La teoria viene introdotta dal criminologo Charles Ray Jeffery nel 1971 e si basa sull’identificazione di quelle condizioni dell’ambiente fisico e sociale capaci di favorire o accelerare gli atti criminali. Si punta, quindi, alla prevenzione del crimine attraverso la progettazione ambientale. La versione europea del CPTED può essere rintracciata nel “designing out crime” (DOC). Insomma, la progettazione è riconosciuta ormai come uno strumento importante, di tipo situazionale, per rispondere alla forte domanda di sicurezza espressa dai cittadini.

Le strategie che appartengono al modello del panopticon sono fondate sulla possibilità di estendere il controllo, tendenzialmente visivo, su spazi sempre maggiori della città in modo da dissuadere comportamenti criminali, devianti e anti-sociali. Si tratta di dispositivi, dai nostri poliziotti di quartiere alla tolleranza zero di Giuliani, che più che costituire un reale deterrente verso i pericoli potenziali, agiscono sulla “paura percepita”, rassicurando utenti, clienti, cittadini ed elettori255.

Se l'applicazione di questa strategia avveniva tradizionalmente tramite il controllo della polizia si è poi passati a sistemi tecnologicamente avanzati di sorveglianza e controllo, economici e con effetto placebo256. Le città sono disseminate di telecamere: telecamere agli ingressi delle abitazioni,

all'esterno e all'interno di edifici pubblici, telecamere nelle piazze, nei parchi, nelle strade. Le telecamere che si diffondono nello spazio pubblico, in particolare, sono collegate alle forze di polizia, sia pubblica che privata, tanto da poter affermare che si è passati da una società panottica ad una post- panottica, in cui il sorvegliante si è liberato dal legame fisico che lo vincolava al sorvegliato257.

Mike Davis, a proposito del dilagante diffondersi di telecamere nello spazio urbano, privato, pubblico e pseudopubblico (ad esempio gli shopping malls), ricorre al concetto di scanorama. Con tale termine Davis descrive, appunto, la realtà ipersorvegliata degli spazi urbani, in particolare quella

254Newman O., Defensible space, Architectural Press, London, 1972, pag. 12

255Amendola G., “Ambiguità, varietà e indeterminatezza della domanda di sicurezza”, in Amendola G., Paure in città.

Strategie e illusione delle politiche per la sicurezza urbana, Liguori, Napoli, 2003, pagg.1-50

256Amendola G., “I nuovi scenari della città contemporanea”, op. cit., pag. 60 257Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma, 2002

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del downtown di Los Angeles, dove si assiste ad una nuova guerra di classe che trova espressione nell'ambiente architettonico urbano. L'autore scrive: «Il monitoraggio video delle zone ristrutturate di Downtown si è intanto esteso ai parcheggi, ai camminamenti privati e alle piazze. Questa sorveglianza pervasiva costituisce uno scanorama virtuale, una scansione dello spazio, un territorio di visibilità protettiva che definisce ulteriormente i luoghi del centro dove gli impiegati e i turisti borghesi si possano sentire più sicuri»258. Dunque, l'imperativo è difendere i ricchi e i privilegi di

cui sono unici titolari, a scapito degli indesiderabili, soprattutto poveri che vengono, invece, criminalizzati. In questa nuova guerra di classe agiscono altri elementi: la fortificazione, la militarizzazione, le forze di polizia, pubblica e privata, i processi di riqualificazione urbana, l'arredo urbano escludente (nei termini di Davis, “sadismo stradale”), le gated communities. Insomma, si assiste ad un profondo mutamento dello spazio urbano, che porta Davis, tra gli altri argomenti, a parlare, di “distruzione dello spazio pubblico”259.

3.2. La fortezza

Se il simbolo del panopticon è rappresentato dall'occhio ed il suo strumento dal controllo, il simbolo del secondo modello, la fortezza, è costituito dal muro mentre il suo strumento dalla separazione260.

La forma estrema di questo secondo modello è sicuramente rappresentata dalle nuove cittadelle protette, cintate e socialmente omogenee: i common interest development (CID), le gated communities, le Privatopias, le walled cities. Si tratta di comunità residenziali che offrono: «un modo di vivere, non solo una casa», il cui: «acquisto rappresenta il biglietto di ingresso a uno stile di vita controllato»261. Così intere comunità diventano domini commerciali, eliminando non solo i diritti di

partecipazione associati alla sfera pubblica ma compromettendo il concetto stesso di spazio pubblico262.

La tendenza a rifugiarsi in questi insediamenti residenziali di natura esclusiva, autoescludendosi e autosegregandosi, è sicuramente evidente negli Stati Uniti, dove un terzo delle nuove abitazioni viene, ormai, costruito in insediamenti residenziali cintati263. Ma studi e ricerche evidenziano che i

laboratori dove le relazioni tra paura e architettura sperimentano le declinazioni più radicali sono le

258Davis M., Geografie della paura, op. cit., pag. 380 259Davis M., Città di quarzo, op.cit., pag. 199

260Amendola, “I nuovi scenari della città contemporanea”, pagg. 58-59 261Rifkin J., L'era dell'accesso, Mondadori, Milano, 2000, pagg. 156-157 262Ibidem, pag. 165

263Blakely E.J., Snyder M.G., Fortress America. Gated communities in the United States, Brookings Institute, Washington

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megalopoli del mondo “in via di sviluppo”: nello specifico, il Brasile264, l'America Latina265 e il

Sudafrica266. Qui, la drammaticità dei contrasti economici, il divario tra ricchi e poveri e dei

conseguenti fenomeni criminali acuisce ulteriormente queste problematiche, tanto che: «gli edifici cintati e le enclaves fortificate sono onnipresenti»267. In Europa si tratta di trend meno evidenti ma

non per questo meno significativi. In particolare, nel nostro paese, se si considerano le caratteristiche delle gated communities (sistemi di controllo, spazi e servizi collettivi a uso esclusivo dei residenti, ecc.), se ne possono riscontrare esempi interessanti. Tra questi si pensi alla Meridiana, in provincia di Bologna, descritta da Mantovani268, o ancora alle due forme di chiusura residenziale studiate da

Manuela Porcu a Genova: la chiusura di alcuni vicoli (circa quaranta) nel centro storico e la Pineta di Arenzano269.

Nella scelta di trasferirsi in una gated community, tra gli altri fattori (spazi verdi, aree gioco per bambini, ecc) gioca un ruolo di primaria importanza la problematica della sicurezza. I sostenitori e pianificatori, infatti, presentano tali enclaves come necessarie per proteggersi da un esterno percepito come insicuro, pericoloso, caotico, inquinato, rafforzando così l'immagine delle comunità blindate come luogo di rifugio e protezione dai pericoli esterni e dagli sgradevoli problemi di razza, povertà e crimine. In particolare, questi spazi chiusi sono promossi attraverso una retorica della paura del crimine270 e mentalità esclusive di tipo NIMBY (“not in my backyard”)271. Così, gruppi sociali

omogenei si separano dal resto del tessuto urbano tramite l'innalzamento di barriere e il ricorso a dispositivi di sicurezza, barriere e dispositivi il cui scopo è tenere alla larga gli altri indesiderabili. Ma tutto ciò implica che lo stesso diritto di sicurezza, che nella città moderna europea rappresentava un diritto di tutti, indipendentemente dalla ricchezza, subisce un mutamento: la sicurezza, nel modello della fortezza, dipende dal potere di acquisto di ciascuno272. Emerge, così, un confine, difficilmente

valicabile, tra chi deve essere protetto e chi deve essere escluso, fra un “noi” e un “loro”. In particolare, i costi degli immobili, unite alle barriere all'accesso, rappresentano una garanzia contro

264Vedi Caldeira T., City of walls: crime, segregation and citizenship in São Paulo, University of California Press, London,

2000

265Vedi Rotker S., Citizens of fear. Urban violence in Latin America, Rutgers University Press, New Brunswick, 2002 266Landman K., “Privatising public space in post-apartheid South African cities through neighborhood enclosures”, in

GeoJournal, vol .66, n. 1-2, 2006, pagg. 133-146

267Low S., “The edge and the center: gated communities and the discourse of urban fear”, in American anthropologist,

vol. 103, n. 1, Marzo 2001, pag. 46

268Mantovani F., La città immateriale. Tra periurbano, città diffusa e sprawl: il caso Dreamville, FrancoAngeli, Milano,

2005

269Porcu M., “Gated communities e chiusura degli spazi pubblici. Due casi di studio a confronto”, in Studi sulla questione

criminale, n.3, 2011, pagg. 67-86

270Caldeira T., “Building up walls: the new pattern of spatial segregation in São Paulo”, in International Social Science

Journal, vol. 48, n. 147 1996, pag. 55

271Ellin N., “Thresholds of fear: embracing the urban shadow”, in Urban Studies, vol. 38, n.5-6, 2001, pag. 874 272Amendola G., “La paura diffusa e la domanda di sicurezza nella città contemporanea”, op. cit., pagg. 24-25

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l'eterogeneità. In questo senso, la logica che presiede la chiusura è rapportata alla “paura dell'altro”273

o alla “mixofobia” alla base dei processi di autosegregazione urbana274.

L'eterogeneità e i conflitti vengono eliminati attraverso un progetto (architettonico e commerciale) accuratamente pianificato, il cui risultato è scongiurare la possibilità di incontri indesiderati, assicurando piuttosto relazioni tra simili. Si tratta, infatti, di strategie utilizzate per evitare la differenza, e dunque la paura, con conseguenze importanti su alcuni gruppi sociali, in particolare i poveri, che spesso coincidono con la differenza che si vuole evitare. Le enclaves fortificate escludono la differenza sociale tramite la separazione fisica (ad esempio, mura e cancelli), l'esclusione simbolica (percezioni degli indesiderabili), la sicurezza privata (guardie armate, sistemi di controllo tecnologici), l'autoesclusione e l'omogeneità sociale275.

Caldeira e Low dimostrano come la paura, l'insicurezza e la differenza sociale e culturale siano associate con il centro della città, il che porta le classi più agiate (ma ormai anche quelle appartenenti ai ceti medi) a barricarsi nelle gated communities segregate e socialmente omogenee e allo sviluppo di enclaves fortificate e attentamente controllate e monitorate276. In tal senso, le gated communities,

che permettono un minimo se non assente contatto con i poveri, sono il risultato della criminalizzazione dei quartieri poveri e dei centri cittadini. Emerge, così, che il modo più facile per affrontare la questione dei poveri urbani, da parte dei politici e delle elite urbane, è di criminalizzarli ed etichettarli come pericolosi.

L'esclusione urbana, guidata da considerazioni di tipo economico (ad esempio, mantenere l'elevato valore immobiliare delle enclave fortificate), politico (si riveda l'esempio della ricostruzione di Parigi ad opera di Haussman) e sociale (la paura dell'altro), paradossalmente stabilisce: «nuove versioni di individui pericolosi e di zone pericolose»277, sollecitate da “panici morali”278. Vengono,

in tal senso, erette non solo barriere fisiche ma barriere mentali concettualizzate dalle persone per proteggersi dalla minaccia della differenza sociale. Scrive Ragonese: «La fortress mentality nasce dalla sclerotizzazione ed estremizzazione dei concetti di territorialità e visibilità della CPTED, facilitata da un abuso delle nuove tecnologie di controllo. La presenza della diversità, necessaria per

273Low S., The edge and the center, op.cit., pag.53; Low S., Behind the gates: life, security and the pursuit of happiness

in Fortress America, Routledge, New York, 2003, pag. 133

274Bauman Z., Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2005, pag. 34

275Caldeira T., “Fortified enclaves: the new urban segregation”, in Low S., Theorizing the city: the new urban

anthropology reader, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ, 1999, pagg.83-110

276Ibidem; Caldeira T., City of walls, op. cit; Low S., “Spazializing culture: the social production and social costruction

of public space in Costa Rica”, in Low S., Theorizing the city, op. cit., pagg. 111-137; Low S., On the plaza: the politics

of public space and culture, University of Texas Press, Austin, TX, 2000; Low S., “The edge and the center”, op.cit.; Low

S., “The erosion of public space and the politics of public realm: paranoia, surveillance and privatization in New York

Nel documento Persone senza dimora e spazio pubblico (pagine 60-69)