La nuova centralità del lavoro autonomo.
1. Il lavoro autonomo: un universo di crescente complessità.
1.1. La condizione occupazionale dei lavoratori autonomi: quadro statistico.
Le indagini statistiche contribuiscono a ricostruire l’entità e la morfologia di tale, per certi aspetti inedita, condizione di centralità politica e scientifica del lavoro autonomo. Come mostra il grafico sopra riportato, riferito a dati Eurostat del 2018, l’Italia presen- ta il secondo tasso di incidenza di lavoratori autonomi sul totale degli occupati tra i paesi dell’UE, pari a circa il 22%: un valore secondo solo a quello della Grecia, vicina al 30%, e assai distante da una media europea che si attesta poco al di sotto del 15%. In termini assoluti, i lavoratori autonomi in Italia sono poco più di cinque milioni su ventitré milioni di occupati complessivi.
Un accurato studio recentemente condotto dall’Istat conferma tale tendenza, foto- grafando altresì la multiformità del lavoro autonomo, nel cui aggregato statistico «è possibile rintracciare un ventaglio ampio di profili professionali e culture del lavoro ordinabili lungo un continuum che va dal livello massimo di autonomia degli impren- ditori al livello molto scarso dei collaboratori (specie se mono-committenti) e di altre figure che, seppur formalmente autonome, possono invece presentare caratteristiche di subordinazione»6. L’Istat distingue al riguardo tre macro-categorie: i lavoratori au-
tonomi con dipendenti (imprenditori, liberi professionisti e lavoratori in proprio), gli autonomi “puri”, privi di dipendenti e caratterizzati da una particolare autonomia organizzativa, e i parzialmente autonomi. Il raggruppamento intermedio è quello più numeroso, con più di tre milioni di unità, seguito da quello dei datori di lavoro con un milione e quattrocentomila individui, mentre i lavoratori parzialmente autonomi ammontano a trecentotrentottomila, pari al 9,3% degli autonomi senza dipendenti. Quest’ultimo dato, che chiaramente identifica la più vistosa “crepa” nella concezione di senso comune del lavoro autonomo, può apparire quantitativamente marginale. Occorre tuttavia rilevare che esso è il frutto di una definizione restrittiva, non piena- mente allineata ai canoni di qualificazione giuridica del rapporto di lavoro. In partico- lare, l’insieme dei lavoratori parzialmente autonomi è costituito da due componenti: da un alto i dependent self-employed (DSE), definiti da una combinazione di parametri economici (la monocommittenza, ovvero l’avere percepito il 75% del proprio reddito degli ultimi 12 mesi da un unico cliente) e funzionali (la determinazione, da parte del- lo stesso committente, degli orari di svolgimento dell’attività); dall’altro i lavoratori che, pur presentando solo uno dei due parametri anzidetti, tuttavia contemporanea- mente registrano almeno altri tre indizi di subordinazione tra i seguenti: il dover lavo- rare presso il cliente, l’impossibilità di assumere dipendenti, l’impiego di strumenti di lavoro di proprietà del cliente e l’aver scelto di essere indipendenti in seguito a una ri- chiesta di un precedente datore di lavoro. Tra le due componenti, quella maggioritaria sono i DSE, che ammontano a duecentodiciottomila, equivalenti ai due terzi circa dei lavoratori parzialmente autonomi e al 6% del totale degli autonomi senza dipendenti. La definizione di “lavoratori parzialmente autonomi” elaborata dall’Istat parrebbe, a
6. Cfr. Istat, I lavoratori indipendenti, Focus, II trimestre 2017, 5 novembre 2018, 3, www.istat.it. Tutti i dati illustrati nella presente sezione provengono da tale documento dove non diversamente specificato.
rigore, escludere talune situazioni di confine ascrivibili alla nozione giuridica di la- voro parasubordinato in vigore nel nostro Paese (su cui cfr. infra), e qualificabili vuoi come collaborazioni coordinate e continuative genuine ai sensi dell’art. 409 c.p.c., come novellato dall’art. 15, l. n. 81/17, vuoi come collaborazioni etero-organizzate ex art. 2, d. lgs. n. 81/15. Queste ultime tipologie, infatti, sono ricondotte dalla legge a elementi definitori fondati esclusivamente sulle caratteristiche funzionali della pre- stazione, quali il tipo e l’intensità del suo coordinamento con l’organizzazione pro- duttiva committente. Elementi che, diversamente da quelli utilizzati dall’Istat, da un lato non si appuntano esclusivamente sulla determinazione dell’orario di lavoro bensì abbracciano anche altri fattori organizzativi, e dall’altro non prendono in considera- zione gli indicatori di dipendenza economica. Da un altro punto di vista, l’alienità dei mezzi produttivi, il lavorare presso i locali di pertinenza dell’azienda e l’eterodeter- minazione degli orari costituiscono solo alcuni, ma non tutti, indici qualificatori a cui la giurisprudenza ricorre per distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo7.
Senza contare che la giurisprudenza non è solita quantificare a priori la numerosità degli indici che devono ricorrere per far dubitare del carattere genuinamente auto- nomo del rapporto, essendo le sue valutazioni frutto di ponderazioni rigorosamente casistiche. Ragion per cui finanche gli occupati tramite piattaforme digitali, come i riders addetti a servizi di consegna a domicilio, assurti alle cronache quali esponenti paradigmatici della divaricazione tra categorie giuridiche formali di classificazione del lavoro e bisogni sostanziali di tutela, potrebbero in talune circostanze non risulta- re pienamente riconducibili alla nozione di “lavoratori parzialmente autonomi” uti- lizzata a fini statistici, e ancor meno a quella di DSE.
Cionondimeno, la suddetta definizione si presta ad identificare una fascia di lavo- ratori (formalmente) autonomi interessati da condizioni di particolare vulnerabilità. Molteplici sono gli indicatori evidenziati dall’Istat al riguardo. Il 40,5% dei lavoratori parzialmente autonomi dichiara di avere subìto, più che scelto volontariamente, la propria collocazione, a fronte di una media del 13,6% in tutta l’area del lavoro indi- pendente (il 93,5% dei datori di lavoro e l’85% degli autonomi “puri” affermano infatti di avere avviato senza costrizioni il proprio percorso professionale). Tra le ragioni che hanno indotto i lavoratori parzialmente autonomi ad intraprendere tale carriera rivestono un peso prevalente l’assenza di alternative (29,2%) e le pressioni di un da- tore di lavoro o committente (8,9%). Inoltre, i lavoratori parzialmente autonomi che si dichiarano poco o per nulla soddisfatti della propria condizione occupazionale sono il 7,1% (dato che sale all’8,3% per i DSE), cifra sensibilmente distante dal 3,6% dei da- tori di lavoro e dal 4,1% dei dipendenti. L’Istat segnala poi un’analogia tra i lavoratori parzialmente autonomi e i lavoratori dipendenti a termine per quanto attiene alla pre- caria percezione del proprio futuro professionale: il 12% dei dipendenti a termine e il 16,5% dei parzialmente autonomi (il 18,5% tra i DSE) si dichiarano in cerca di un’altra occupazione, mentre la media sul totale degli occupati si attesta ad un più contenuto 4,2%.
Numerosi dati, relativi in particolare alla condizione dei DSE, avvertono della pre- senza di distorsioni e opacità nel mercato del lavoro autonomo. In primo luogo, una
7. Cfr. Ichino, P., Il contratto di lavoro. 1. Fonti e principi generali, autonomia individuale e collettiva, disciplina del mercato,
tipi legali, decentramento produttivo, differenziazione dei trattamenti e inquadramento, in Trattato di diritto civile e commer- ciale già diretto da Cicu, A., Messineo, F.; continuato da Mengoni, L., Giuffrè, Milano, 2000.
percentuale assai elevata di DSE lamenta gli scarsi margini di autonomia nell’orga- nizzazione e nell’esecuzione del proprio lavoro. Il 45,8% di essi dichiara di non poter influenzare né i contenuti né l’ordine di svolgimento delle proprie mansioni: un dato di poco inferiore a quello dei lavoratori dipendenti, che si attesta al 46,7%. Se non sor- prende che la maggioranza di tale gruppo sia composta da collaboratori (il 52,6%), ri- sultano comunque significative all’interno del segmento (caratterizzato, si rammenta, da una combinazione di elevata dipendenza economica e funzionale dal committente) le quote di liberi professionisti (il 26,8%) e di lavoratori in proprio (il 18%), al punto da suscitare il dubbio che nelle citate percentuali si annidino situazioni di erronea o abusiva qualificazione del rapporto di lavoro. Vi è inoltre una certa disomogeneità tra i DSE e le altre categorie di lavoratori autonomi per quanto attiene al settore di impie- go: se appare normale che la maggior parte dei lavoratori autonomi trovi uno sbocco occupazionale nei servizi, i primi sono presenti in tale settore nella misura dell’87,5% (sull’89% totale dei lavoratori parzialmente autonomi), contro il 74,5% degli autonomi puri e il 65,9% dei datori di lavoro.
Inoltre, i DSE risultano in media più qualificati rispetto agli altri lavoratori autonomi, sia con riferimento al titolo di studio posseduto (l’80,3% dispone di un diploma o di una laurea, a fronte del 66,9% della media della categoria), sia riguardo al livello di professionalità delle posizioni ricoperte (il 55% è occupato in professioni qualificate e tecniche, contro il 45,8% del totale degli indipendenti). Questo dato si associa a quello relativo alla classe di età, che mostra come i lavoratori giovani, ossia coloro che sono compresi nella fascia di età dai 15 ai 34 anni, costituiscano il 40,5% dei DSE, ma solo il 15,7% del totale dei lavoratori autonomi.
Le rilevazioni appena riportate convergono dunque verso una ipotesi conclusiva: quella che il lavoro parzialmente autonomo, specie nella sua variante concettualmen- te più prossima alla subordinazione (per l’appunto i DSE), costituisca oggi un canale di ingresso “privilegiato” al mercato del lavoro, che si avvantaggia della condizione di vulnerabilità delle persone in cerca di impiego (come evidenziano i dati citati in precedenza relativi alla carenza di alternative occupazionali) e dello scollamento tra la realtà sociale e produttiva contemporanea e le tecniche giuridiche di qualificazione dei rapporti di lavoro e di attribuzione delle tutele. Simile ipotesi deve tuttavia essere verificata alla luce dei dati di flusso, che mostrano nell’intervallo 2008-2017 un calo dell’occupazione autonoma del 10,7% a fronte di un aumento dell’occupazione dipen- dente del 2,7%.
Un’altra impressione che si evince dalle indagini statistiche è che nemmeno ai settori più strutturati del lavoro autonomo siano estranei certi profili di vulnerabilità. Gli au- tonomi “puri”, ad esempio, presentano alcune caratteristiche funzionali del rapporto da cui si evince una dipendenza dal committente non dissimile da quella che caratte- rizza i lavoratori parzialmente autonomi. Il 27,4 di essi, infatti, lavora presso la sede del proprio committente, il 5,4% non possiede gli strumenti utilizzati per lavorare e il 4,5% ha intrapreso tale carriera a seguito della richiesta di un precedente datore di lavoro o committente. Inoltre, il 7% di essi, ovvero una quota pressoché identica a quella dei lavoratori parzialmente autonomi, si dichiara poco o per nulla insoddisfatta del proprio impiego. D’altro canto, anche il segmento più forte, quello dei lavoratori autonomi con propri dipendenti, denuncia aspetti di sofferenza, principalmente di ca- rattere economico. Il 44,5% (dato che si estende al 53,5% per gli autonomi “puri” senza dipendenti) dichiara difficoltà economiche, le cui cause sono distribuite tra mancati o
ritardati pagamenti (22,4%, contro il 19,9% degli autonomi “puri”) e l’assenza di clien- ti o la carenza di lavoro (il 14,9% contro il 24,1% degli autonomi “puri”). Un secon- do profilo critico è rappresentato dall’eccessivo carico burocratico e amministrativo, evidenziato dal 35,4% dei datori di lavoro e dal 22,3% degli autonomi “puri”. Invece, detti lavoratori non sembrano esprimere specifiche aspettative o bisogni di natura previdenziale: significativamente, l’assenza di tutele in caso di malattia è considerata un problema solo dal 2% dei datori di lavoro e dal 5,5% degli autonomi “puri”, men- tre il dato si eleva al 13,6% per i parzialmente autonomi.
La rappresentazione del mercato del lavoro autonomo fornita dall’Istat disegna dun- que uno scenario di crescente complessità, in cui convivono condizioni occupazionali eterogenee da cui discendono interessi e bisogni differenziati, pur in presenza di alcu- ne criticità e fasce di sofferenza comuni ai vari segmenti.
A complemento di questo quadro, può essere interessante raffrontare l’andamento italiano con i dati emergenti da un mercato del lavoro caratterizzato da dinamiche so- ciali e giuridico-istituzionali affatto diverse come quello degli USA. Secondo un’inda- gine dell’US Bureau of Labor Statistics pubblicata nel 2018 su dati 20178, gli independent contractors (categoria assimilabile al nostro lavoro autonomo ma non perfettamente corrispondente ad esso)9 ammontano al 6,9% degli occupati statunitensi: un valore as-
sai inferiore a quello registrato in Italia e finanche alla media UE. Come in Italia, anche negli USA si è assistito nell’ultimo decennio ad un calo della presenza di lavoratori autonomi nel mercato, anche se in misura meno drastica. Il dato del 2005 era infatti pari al 7,4%. Solo il 3,2% degli independent contractors sono classificati anche come con- tingent workers, ovvero lavoratori privi di aspettative (fattuali o contrattuali) di conti- nuazione del proprio impiego oltre l’anno. Non sorprende, dunque, che i lavoratori autonomi negli USA mostrino un elevato gradimento della propria condizione occu- pazionale, preferita ad un impiego tradizionale dal 79% della popolazione censita. Quanto ai profili demografici della popolazione, il lavoro autonomo è particolarmen- te diffuso negli USA tra i maschi bianchi di età matura (più di un terzo ha più di 55 anni, contro 1 su 4 degli occupati in impieghi tradizionali), in controtendenza rispetto ai dati italiani relativi al segmento dei DSE precedentemente discussi. Il 75% dei lavo- ratori autonomi dispone di una copertura assicurativa sanitaria: dato non trascurabile ma inferiore a quello degli occupati in impieghi tradizionali, che risultano coperti per l’84%.