L’economia e il lavoro degli immigrati in Italia
1. Un occupato su diec
In Italia trent’anni fa nessuno l’aveva previsto, eppure oggi il nostro paese dà lavoro a 2,45 milioni di immigrati stranieri, che rappresentano il 10,6% dell’occupazione com- plessiva. Nel 2018 hanno fatto segnare un incremento occupazionale del 4,6%, contro un assai più modesto 0,8% per i cittadini italiani.
Come prima constatazione, va riconosciuto l’imbarazzante fatto della coesistenza dell’occupazione degli immigrati con alti livelli di disoccupazione interna. Il fenome- no si spiega anzitutto guardando ai lavori che gli immigrati trovano. Sono sostanzial- mente assenti nella pubblica amministrazione, e aggiungendo altri lavori da colletti bianchi (credito, assicurazioni, istruzione, comunicazione) incidono per meno del 2% sul complesso degli occupati. I loro sbocchi riguardano il lavoro manuale e i servizi scarsamente qualificati. Appena l’1,2% degli occupati stranieri ha una qualifica di dirigente o quadro a fronte del 7,8% della controparte italiana; appena l’8,7% sono assunti come impiegati, contro il 36,0% per gli italiani, più di 3 su 4 sono occupati con la qualifica di operaio (76,8%), contro poco più del 30% per gli italiani (Ministero del Lavoro 2019). La situazione inoltre non migliora di molto con l’anzianità di perma- nenza in Italia, e la lunga recessione seguita dalla stagnazione ha comportato dei passi indietro anche per molti di coloro che erano riusciti a compiere dei progressi.
L’incidenza degli immigrati è più alta della media dove il lavoro è faticoso, precario, do- tato di scarso prestigio e riconoscimento sociale: 17,2% nelle costruzioni, 17,9% nell’a- gricoltura, come pure negli alberghi e ristoranti, toccando un picco del 36,6% negli
“altri servizi collettivi e personali”, in cui ricadono i servizi domestici e l’assistenza a domicilio (Ministero del lavoro 2019).
Anche nel lavoro autonomo si osservano delle concentrazioni nelle attività più pesanti e meno remunerative: oltre la metà dei commercianti ambulanti sono ormai nati all’e- stero, come si può facilmente osservare nei mercati rionali di tante città.
In molte di queste occupazioni si nota un avvicendamento: negli scorsi decenni erano lavori in cui gli immigrati interni, dalle regioni del Mezzogiorno, erano subentrati ai lavoratori dell’Italia centro-settentrionale. Dagli anni ’80 per alcune occupazioni (come quella di collaboratrice familiare), dalla legge Martelli del ’90 per molte altre, è iniziato un nuovo ciclo di avvicendamento che ha avuto come protagonisti i lavoratori stranieri.
Un secondo fattore esplicativo si riferisce ai territori in cui si inseriscono. Il ricorso alla manodopera immigrata è un fenomeno eminentemente centro-settentrionale, con pro- paggini nel Mezzogiorno riferite soprattutto alle occupazioni domestiche, a qualche attività commerciale, all’agricoltura e poco altro. L’incidenza sull’occupazione tocca infatti il valore massimo nell’Italia Centrale, con il 12,9%, seguita dal Nord-Ovest con il 12,1% e dal Nord-Est con l’11,6%, mentre Mezzogiorno e Isole si fermano al 5,9%. Entrando più nel dettaglio, le regioni in cui l’incidenza degli immigrati sugli occupa- ti è più elevata sono nell’ordine Lazio (14,5%), Emilia-Romagna (13,0%), Lombardia (12,7%), mentre i valori minimi sono toccati in Molise (4,1%), Sardegna (4,5%), Basi- licata (4,6%) (Ministero del lavoro 2018). Volendo approfondire ancora la geografia economica dell’occupazione degli immigrati in Italia, si noterebbe che anche all’inter- no delle regioni sussistono differenze rilevanti tra le province più sviluppate e quelle meno prospere: tra Sondrio e Brescia, tra Rovigo e Verona, per cogliere due esempi riferiti a Lombardia e Veneto.
In altri termini, il lavoro degli immigrati è un sensibile indicatore del dinamismo dei sistemi socio-economici locali. Si concentra dove c’è più occupazione, più ricchezza, meno disoccupazione per gli italiani. Dove invece la situazione è più critica anche le occupazioni meno ambite tendono a essere raccolte dai lavoratori del posto. Ricorren- do ancora a un esempio: nel Centro-Nord se una donna adulta con responsabilità fa- miliari trova un’occupazione extradomestica sufficientemente stabile e con un reddito discreto, è abbastanza probabile che deleghi parte delle sue incombenze domestiche a una collaboratrice familiare, almeno a tempo parziale, e questa a sua volta avrà molte probabilità di essere immigrata; nelle regioni del Mezzogiorno è ancora relativamente abbondante l’offerta di lavoro locale, e aumentano quindi le probabilità che la collabo- ratrice familiare sia italiana. Semmai è significativo che anche al Sud proprio il lavoro domestico sia il settore che ha aperto più spazi a lavoratori e lavoratrici immigrate. Il caso individuato mostra molto bene che l’occupazione degli immigrati non solo è correlata con l’occupazione degli italiani, ma la favorisce. Senza l’aiuto delle colf, per molte donne e famiglie italiane di classe media sarebbe molto più arduo conciliare lavoro extradomestico e carichi familiari, e probabilmente non poche donne italiane dovrebbero lasciare il lavoro o ridurre gli orari.
Un altro dato conferma la correlazione tra dinamismo economico e occupazione degli immigrati. Escludendo la pubblica amministrazione e le famiglie che ricorrono a colla- borazioni domestiche, nel 2017 il 31,5% delle imprese che hanno effettuato assunzioni hanno accolto almeno un lavoratore straniero. Il dato è costantemente superiore al 30% dal 2013 in avanti, ma registra sensibili differenze regionali: raggiunge infatti il 35,7% in Trentino-Alto Adige, il 29,2% in Emilia-Romagna, il 26,7% in Toscana, men-
tre al polo opposto registra un modesto 5,6% in Sardegna, un 10,0% in Campania, un 10,6% in Sicilia (Ministero del lavoro 2018).
Un terzo aspetto da considerare riguarda come gli immigrati lavorano, ossia le mo- dalità di assunzione e di impiego del loro lavoro. Qui si può constatare che il 22% ha un contratto a tempo determinato (contro il 14,9% per gli italiani) e un 3% un lavoro stagionale, valori che si alzano nel caso dei lavoratori extracomunitari raggiungendo il 31% complessivo (Ministero del lavoro 2018). Molto significativo poi il dato relati- vo agli infortuni: 16,3% del totale nel 2018, e 17,0% guardando agli infortuni mortali (in cifre, 207 su 1218), mentre come abbiamo notato l’incidenza sull’occupazione è del 10,5%. Da tre anni inoltre gli infortuni occorsi a lavoratori nati all’estero sono in aumento, in modo particolare per i cittadini non comunitari, mentre per i lavoratori italiani sono in lieve diminuzione, e nel 2018 anche per gli immigrati con cittadinanza dell’Unione europea (Ministero del lavoro 2019). I settori in cui lavorano gli immigrati e le occupazioni che svolgono sono più esposti ai rischi infortunistici di quanto non avvenga per gli italiani.
Si riscontrano situazioni-limite di grave sfruttamento, come quella nota dell’impiego di lavoro stagionale in agricoltura in determinati territori (ma non in Trentino, per esempio), e quelle meno note di tanti cantieri edili, di parecchie imprese di pulizia, dei ristoranti e di altri ambienti di lavoro con orari atipici o luoghi di lavoro non chiara- mente individuabili. Non vanno tuttavia generalizzate, non è vero che l’impiego degli immigrati corrisponda a lavoro sfruttato, come sostiene una certa retorica. Lo sbocco, intenzionale o meno, delle generalizzazioni più cupe finisce per essere una chiusura delle frontiere non dissimile da quella propugnata dagli avversari ideologici dell’im- migrazione. E’ vero invece che in un mercato del lavoro segmentato gli immigrati fi- niscono in maniera preponderante nelle posizioni più svantaggiate e meno suscettibili di miglioramento. Rimpiazzano i lavoratori italiani nelle occupazioni meno ambite, soprattutto nei territori in cui le possibilità di scelta per questi ultimi sono più ampie. Giacché il mercato del lavoro italiano abbonda tuttora di lavori delle cinque P (pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente), ha attratto e impiegato nel corso di un trentennio centinaia di migliaia di lavoratori stranieri (Ambrosini 2019a). Il loro contributo è diventato un fattore strutturale del sistema economico e della vita quotidiana delle famiglie. Anziché togliere lavoro agli italiani, nel complesso lo ha favorito.
Più controverse sono le relazioni tra ricorso al lavoro degli immigrati e qualità dell’oc- cupazione. La possibilità di trovare lavoratori disponibili ad accettare situazioni pe- santi e trattamenti contrattuali sub-standard può rappresentare una soluzione alter- nativa agli investimenti per migliorare le condizioni di lavoro. L’occupazione degli immigrati riguarda in maniera preponderante attività che non possono essere tra- sferite in paesi con costi del lavoro più bassi: si pensi alle costruzioni o ai servizi alle persone. Sono quindi particolarmente esposte a spinte per la compressione dei costi in ambito locale, per esempio mediante operazioni di esternalizzazione e subappalto, risparmi negli investimenti tecnologici e nelle misure di sicurezza, ricorso a contratti svantaggiosi per i lavoratori.
Parlare di complementarietà tra lavoro immigrato e lavoro nazionale come spesso si fa non è quindi del tutto appropriato: la complementarietà si produce anche come portato di scelte organizzative, contrattuali e retributive che generano incentivi e di- sincentivi nei confronti dei lavoratori. Scelte che allontanano i lavoratori italiani da determinate occupazioni mentre possono risultare accettabili per molti immigrati. In
altri termini, entrano in gioco le aspettative dell’offerta di lavoro, nazionale e immi- grata, ma pure le condizioni di impiego. Il problema però non sono gli immigrati e il loro eventuale impiego, quanto piuttosto la tenuta e l’efficacia dei dispositivi di tutela faticosamente elaborati in oltre un secolo di azione sindacale e legislazione del lavoro: la definizione e applicazione dei contratti collettivi, l’azione di vigilanza degli ispetto- rati del lavoro, il controllo di appalti e subappalti.