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6. PERCEZIONE DEL PAESAGGIO

6.2 la percezione del degrado

2014, ho cercato un incontro con il Prof. Giorgio Pizziolo che conoscevo dal periodo universitario (Università degli Studi di Firenze) come professore per il Laboratorio di Urbanistica. Pizziolo ha sicuramente contribuito ad aprire nel mio pensiero la possibilità di un'urbanistica creativa e felice trasformando l'idea di urbanistica che avevo precedentemente maturato in qualcosa di assai diverso: una ars pianificatoria. L'incontro è stato un modo per riconnettere dei fili sospesi, un salto nel passato, e contemporaneamente, il modo di trovare una posizione da cui prendere la rincorsa verso la mia avventura di ricerca.

Dal dialogo con Pizziolo è parso evidente il motivo per cui è necessario e urgente, per la comunità degli urbanisti, occuparsi e fare ricerca sul paesaggio. L'antropizzazione dello spazio non ha solo quel carattere intensivo che si materializza nel tessuto urbano, ma anche uno estensivo che ormai, in modo più o meno evidente, coinvolge non solo aree in qualche modo limitate (i parchi, la campagna, i boschi, etc.), ma l'intero pianeta. Paesaggio può, in questo senso planetario, essere la dizione più inclusiva e duttile per designare ogni spazio antropicamente interpretato. «Gli antropologi spiegano che l'uomo non si adatta all'ambiente ma adatta l'ambiente a sé; perciò la sua esistenza non lascia impronte casuali, ma segni che hanno valore di messaggi (...) documenti per mezzo dei quali si ricorda e si è ricordati: e non sono soltanto le narrazioni scritte e le memorie tramandate, ma anche i canti, le immagini tracciate o plasmate, le tracce degli insediamenti, i resti delle costruzioni, le armi, le suppellettili, tutto. Non v'è documento che non sia il prodotto di un progetto e di un'operazione tecnica; e il documento è sempre un oggetto, anche se si tratti di un racconto, di una poesia, di un canto» (Argan, 1965, p. 19).

C'è da costatare che il paesaggio appare, alla percezione umana contemporanea, disgregato, abbandonato, a volte come relitto materiale senza più significato, di un tempo passato e dimenticato. «Vi sono momenti della vita in cui il pensiero della morte è più assiduo e insistente e in cui, come scriveva Michelangiolo, non nasce in noi pensiero in cui non sia scolpita la morte. Ma questa immanenza della morte, appunto li caratterizza come momenti della vita. Può essere triste che, in questo momento del suo cammino, la civiltà storica appaia mortale, moritura, morente; ma tutto ciò che possiamo concludere è che questa angoscia è ancora un segno del nostro pensiero storico» (Argan, 1965, p. 18). Abbiamo convenuto che la radice di molte problematiche di assetto del territorio (frane, alluvioni, dilavamenti, impoverimento del terreno, etc.) risiede almeno in buona misura nello scollamento tra vite e territori a cui consegue un disagio esistenziale. Molti esseri appartenenti alla specie umana - in modo più o meno acuto a seconda della sensibilità percettiva dell'individuo - registrano un malessere interiore provocato dalla elaborazione di dati sensoriali che, attraversando i filtri mentali e culturali, ci portano

alla percezione di un paesaggio logoro. Avvertiamo un disagio, più o meno intenso, che non nasce solo dallo spaesamento evidenziato già da Turri (Turri, 2008), ma sentiamo di ereditare «(...) un mondo sostanzialmente dissestato, usato, in crisi nei suoi equilibri bio-ecologici»77(Papi, 2000, p. 11); così il disagio arriva ad avere una natura esistenziale per cui percepiamo noi stessi come un segno – citando Friedrich Hölderlin – senza significato78. È a mio avviso da sottolineare che Franchoişe Choay parla, in riferimento alla città, della creazione nel XIX secolo di un nuovo procedimento di osservazione e di riflessione affermando che il paesaggio urbano «(...) appare ad un tratto come un fenomeno estraneo agli individui che la abitano e che nei suoi confronti si trovano come di fronte ad un fatto naturale, non familiare, straordinario, estraneo» (Choay, 2000, p. 8). Possiamo a mio avviso estendere oggi questa riflessione pertinente al paesaggio urbano al paesaggio nell'accezione estesa: l'ingerenza dei processi antropici come già accennato è da considerarsi planetaria e, soprattutto quando i mutamenti sono rapidi non possiamo che percepirli come bruschi e imprevisti cambiamenti del nostro habitat. Camminare lungo una strada costeggiata da continui grattacieli non è poi così diverso, da un certo punto di vista percettivo, dal percorrere un kenyon, che però ha avuto una genesi lenta e che oseremmo definire naturale perché

creato da un fiume che ha, con il movimento dell'acqua nel suo letto, scavato una superficie rocciosa. La

differenza più rilevante in questo contesto è che il fiume ha impiegato un lasso di tempo lunghissimo nel processo di costruzione agendo per sottrazione di materia. Invece l'evento di costruzione antropica è rapido e percepito catastrofico esattamente come verrebbe percepita l'apertura di una faglia improvvisa causata da un movimento tettonico, da un terremoto. L'individuo avverte un senso di schiacciamento causato da caratteri fisici e anche simbolici (es. nell'imposizione di un potere), ma soprattutto avverte l'impotenza di fronte a una forza estranea da sé e la mancanza di una possibile interazione.

Potremmo pensare di vivere quella situazione prefigurata da Argan «in cui la vicenda umana non si presenta [più, NdR] distinta o consapevolmente distinta da quella degli altri esseri viventi» (Argan, 1965, p. 17). Ci troveremmo, ipoteticamente, in un periodo simile alla preistoria in cui l'uomo non distingue il proprio modo di essere e di agire da quello degli altri esseri viventi e così non si emancipa, sviluppando cultura, dall'esistenza biologica. Se è vero che percepiamo una evidente sensazione di dis-comfort, potrebbe essere lecito chiedersi se la ragione è rintracciabile nell'essere immersi in una 'successione ecologica giovane'. «Le successioni ecologiche giovani sono caratterizzate da minima diversità delle componenti, grande tolleranza alla variabilità delle condizioni fisico-chimiche (habitat), scarsa differenziazione dei ruoli, scarsa organizzazione e specificità. Esse inoltre sono piuttosto inefficienti energeticamente e poco durature (Motloch, 1991). Ma proprio grazie a queste caratteristiche le 77 Papi Fulvio, 2000, filosofia e architettura, Ibis ed., Como-Pavia.

78 Hölderlin F. , Mnemosyne (abbozzo 1803 – 1806), in Id., Poesie scelte, traduzione, nota, introduzione e cura di Susanna Mati,

successioni ecologiche giovani tendono ad evolvere verso successioni ecologiche mature, caratterizzate da una grande organizzazione (ordine), forte diversità e specificità di ruoli, alta efficienza energetica e tendenza alla stabilità, ma anche notevole sensibilità ai cambiamenti delle condizioni (Motloch, 1991). L'evoluzione della comunità biotica produce a sua volta, per retroazione, incessanti cambiamenti di habitat (microclima, composizione chimica del terreno, ecc.) che di nuovo retroagiscono sull'evoluzione della comunità biotica. In altre parole i processi di interazione tra habitat e comunità biotiche, cioè più in generale i processi biologici a cominciare dalla fotosintesi, incrementano l'organizzazione e la complessità, ossia sono processi di natura neg-entropica (Motloch, 1991). Ma anche degrado deperimento

ed entropia fanno parte integrante dell'ordine naturale (Lynch e Hach, 1984). Ecosistemi e organismi, infatti,

sono sistemi termodinamicamente aperti, che scambiano materia ed energia con l'ambiente, diminuendo la loro entropia interna ed aumentando quella esterna (Scandurra, 1995)» (De Bonis, 2001, p. 128) «Gli ecosistemi, quindi, sono strutture dissipative, cioè strutture che esistono solo fino a quando il sistema dissipa energia e resta in interazione con il mondo esterno (Prigione, 1993). In definitiva

mutamento e decadimento sono i caratteri salienti dell'interazione ecologica. Essi stanno tra loro in rapporto di

reciproca complementarietà, nel senso che il cambiamento evolutivo che si produce per interazione tra componenti

abiotiche e biotiche del processo ecologico è la risposta adattiva del vivente alla generale tendenza all'entropia dell'universo.

E d'altra parte nessun cambiamento sarebbe possibile senza interazioni dissipative tra componenti, cioè senza trasformazioni a entropia progressivamente crescente del flusso energetico neg-entropico primario, quello solare.» (De Bonis, 2001, p. 128) «Va sottolineato (...) che nei processi biologici l'interazione dissipativa è attivata dalla differenza. Infatti i processi di interazione tra componenti abiotiche e componenti biotiche costituiscono quel particolare tipo di processi ecologici in cui l'interazione è innescata dalla percezione delle differenze tra parti interagenti, a cominciare dalla capacità delle piante di 'riconoscere' la differenza di luce per il processo di fotosintesi.» (De Bonis, 2001, p. 128- 129) «(...) i processi di interazione biologica si basano sulla notizia o codifica della differenza, che innesca dinamiche di mutamento evolutivo che vanno ben al di là degli effetti prodotti dal semplice 'urto' delle componenti energetico-quantitative pur presenti nel processo ecologico (Bateson, 1979).» (De Bonis, 2001, p. 129) Il «(...) riconoscimento delle differenze, cioè la codificazione e la mappatura dei cambiamenti percepibili nel corso dell'interazione è l'unica possibilità per il vivente di trarre vantaggio dall'inevitabile tendenza all'aumento di entropia generale. Nell'evoluzione del processo ecologico, quindi, ciò che più conta non è la 'forza' (quantità, energia), ma la 'differenza' (qualità, informazione). In questo senso il processo ecologico è un processo 'mentale'.» (De Bonis, 2001, p. 129) e l'affettività è indispensabile per la mente per poter percepire i cambiamenti che avvengono nelle relazioni tra elementi (Lévy, 1997, in De Bonis, 2001).