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2. METODO DI SCELTA DELL'ARTE UTILE A QUESTA RICERCA

3.6 per non trovarsi invischiati in un’Arcadia di retorica e miele

perfetta alleanza ormai perduta, non è solo di generare un pensiero nostalgico comune, ma di creare un

blocco verso la creazioni di nuovi beni culturali e paesaggistici (previsti dal CBCP, Codice dei Beni

Culturali e del Paesaggio), e persino di fermare i processi che sono invece vitali alla continua costruzione (e ricostruzione) del paesaggio – proprio quello che si vorrebbe tutelare –. Rubando un verso della poetessa Mariangela Gualtieri, è facile cadere in un’Arcadia di retorica e miele. Il territorio è da considerare dunque un processo attivo e complesso, e gli abitanti collaborano più o meno consapevolmente alla sua costruzione. Talvolta accade che la velocità di un cambiamento spaziotemporale, in un determinato territorio, (dal sisma alla costruzione di un muro) si approssimi allo zero: ciò implica un trauma che va gestito, mentre i processi lenti o lentissimi che governano e conservano uno specifico equilibrio, talvolta non sono percepiti e qui il piano ha il compito di mostrare come quel paesaggio, considerato da un punto di vista culturalista statico, è invece, con i suoi tempi, dinamico. In questo senso viene smontata, decostruita, la percezione del tempo umana, basata evidentemente sulla lunghezza della vita media degli individui della nostra specie nella nostra epoca. Mettere in evidenza che un semplice leccio può vivere più di settecento anni59 e che i tempi di trasformazione

di un territorio sono diversi dai tempi umani, aiuta a sposare una visione del tempo più aperta al cosmo, che certamente può avere effetti positivi sulla consapevolezza nella misurazione dell'individuo rispetto all'universo e, a cascata, sull'azione, sul comportamento rendendolo più lungimirante.

Questo aspetto è stato messo ben in evidenza in una certa predilezione delle arti verso il passato o verso il futuro come fuga esotica dal presente. «Non basta, per affermare che una siffatta crisi è in atto, constatare che l'arte, come ogni altra attività umana, non ha più un riferimento fisso ad una filosofia, a un sistema istituzionalizzato del sapere, a quella che Husserl chiama la «natura matematizzata», e in cui giustamente indica il fondamento della cultura classica. Anche l'arte ha ora come campo il «mondo della vita» o, per servirci ancora delle parole di Husserl, «il regno dei soggettivi rimasti anonimi». Sul piano storico si può dire che anche nell'arte il trapasso dalla Weltanchauung al Lebenswelt comincia a compiersi 59 Una delle asserzioni usate da me nella performance come piante radicanti a Latina

nel XVII secolo, seguita nel XVIII con «l'ideale di una filosofia universale e il processo del suo interno dissolvimento», associa il suo sforzo a quello della filosofia moderna come «lotta per il senso dell'umanità»; e che il punto in cui tocca finalmente la crisi è segnato dal sorgere dell'Espressionismo, in un terreno di cultura ch'è lo stesso in cui si forma il pensiero di Husserl. È allora che si abbandona la ricerca, divenuta febbrile, di nuovi telai sistematici per inquadrare l'esperienza del mondo oggettivo o di nuove matematiche per matematizzare la natura (ché tali possono considerarsi tutti i movimenti che vanno dall'Impressionismo al cubismo e a Mondrian); e che i segni dell'arte non servono più a manifestare o interpretare una realtà data, ma a fare l'esperienza o a fare l'umanità col loro stesso farsi. Muovendosi nel mondo della vita, illuminato e mutevole, in cui tutto sfugge alla definizione, l'arte non ha più punti di riferimento costanti: non la natura che, essendo ormai considerata una rappresentazione della mente umana, rientra nella storia dei pensieri e dei fatti dell'uomo; non la storia che, non essendo più una costruzione teleologica, si presenta come una congerie di eventi, un no-sein, un labirinto in cui non si sa mai con certezza dove si è, sicché le cose remote possono apparire d'un tratto vicinissime e le vicine lontane e quasi inafferrabili. Lo dimostra l'innumerevole quantità e il continuo mutare dei riferimenti storici: Picasso può sentirsi ugualmente e perfino contemporaneamente vicino all'arte micenea e all'azteca, ai negri e a Raffaello o Velasquez. L'informazione storica è senza dubbio infinitamente più ampia che nel passato, ma la storia non è più una costruzione basata su principi di valore, e invece di fornire dei modelli seguita a porre, con urgenza, problemi e problemi.

Più che una sorta di elíso popolato di spiriti magni, è una società più vasta, senza limiti di tempo, e non meno agitata dell'attuale: una strana regione, insomma, in cui perfino l'uomo del neolitico diventa un nostro contemporaneo, un essere con cui si ha a che fare ed i cui atti (nella fattispecie le opere artistiche) non sono atti il cui valore reale si sia col tempo trasformato in ideale (in modello che però elimina l'attualità del valore: come le opere antiche, irriconoscibili nella loro realtà di fatto quando le vediamo interpretate dal Mantegna o dal Michelangiolo), ma hanno un valore in quanto strappate alla pace eterna della storia, fanno problema.

In una siffatta società senza tempo né spazio l'artista (e, in generale, l'uomo moderno) cerca disperatamente di fermare un presente in cui vuole attuarsi e che continuamente gli sfugge: il presente (lo ha spiegato Bergson) non è altro che un futuro che trascorre nel passato. Si vuole «essere del proprio tempo», appartenere alla società presente, ma subito ci si accorge che non è possibile poiché la presentificazione del passato priva il passato di quel senso senza cui non può aversi il senso del presente. Ciò che attrae, nel passato e nel futuro, è infine proprio il loro non essere «presente». È perfino possibile riunire in una le due categorie apparentemente contraddittorie e considerare il tutto

come utopia: intesa non tanto come prefigurazione di un tempo migliore ma come disgusto e impossibilità di vivere in questo» (Argan, 1965, p. 10-11).

La tutela - anche quella conservativa - ha bisogno pertanto di essere pianificata perché il genere umano ha la possibilità di agire - e lo fa - in modo rapido, vistoso e a volte violento e scellerato favorendo e accelerando inusitatamente alcune trasformazioni del territorio. D'altro canto questa ricerca scarta dal principio l'ipotesi nostalgica di alcuni ricercatori che ritengono di poter effettuare un “restauro archeologico” del paesaggio. In alcuni specifici casi di siti archeologici a scala paesaggistica può essere lecita una simile operazione, ma non si possono trarre da casi sporadici principi universali: se un paesaggio è degradato vuol dire che sono cessati i processi che lo rinnovavano ed è lecito immaginare processi trasformativi in avanti. Non possiamo utopisticamente credere di poter ricostruire quelle relazioni storiche tra individuo, società e ambiente che non ci sono più.

Il processo di globalizzazione ha come esternalità negativa il rischio di rendere tutti i paesaggi uguali: le periferie delle nostre città ne sono una evidenza come anche la toscanizzazione del paesaggio agrario italiano, ma risulterebbe utopico e ingenuo pensare di poterlo fermare. Nel processo globale è possibile che vengano omologati i caratteri generali, macroscopici che sono legati ad una percezione semplice. Ma va costatato anche che la stessa tipologia di periferia in luoghi differenti può generare un paesaggio affascinante o scadente e anonimo. Questo processo globalizzante non riesce dunque ad impedire qualche specificità, che può apparire positiva o negativa a seconda dei casi e, proprio questa specificità topica, spesso invisibile ad occhi disattenti, va considerata di fondamentale importanza nel processo di pianificazione che può partire da queste piccole specificità per far generare dal contesto socio- territoriale quella diversità che costituisce una nuova e inespugnabile ricchezza.