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5.1 la parola paesaggio. Se condividiamo quantomeno parzialmente il pensiero di Martin Heidegger

secondo cui «il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo»71, è pertinente qualche riflessione sui termini soprattutto per far emergere la differenza di paesaggio da termini come natura, ambiente e territorio. La larga sfumatura al contorno della parola 'paesaggio' deriva dalla proprietà intrinseca, semantica, del termine 'paesaggio' di significare hic et nunc, e non solo in italiano, ma «in una serie di lingue europee, sia la rappresentazione (...) sia la cosa in sé» (Jacob, 2009, p. 28). In effetti questa complessità è comune ad ogni parte di mondo: semplicemente accade che quando interagiamo con entità apparentemente più semplici e chiare, come ad esempio una bicicletta, un bicchiere d'acqua, una sedia, o un qualunque oggetto quotidiano, non ci interroghiamo e non prestiamo alcuna attenzione all'esperienza che ne facciamo. E lo stesso vale per chi usa il termine 'paesaggio' nella sua accezione comune. In Italia, la pianificazione paesaggistica è oggi regolata dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio per cui il paesaggio, sebbene si distingua dai beni culturali (comprendendo i valori ambientali), è associato in qualche modo al patrimonio artistico. Il termine paesaggio viene spesso abbinato in modo generico, e talvolta fortuito, alla parola arte probabilmente perché si intrecciano in una questione comune, ovvero la definizione e ridefinizione del bello. Il riscontro sia nel linguaggio comune che nella normativa dell'accostamento dei due termini sono stati gli indizi che mi hanno mosso ad approfondire, sebbene non abbia le competenze di un linguista, la genealogia del termine paesaggio. Era plausibile ipotizzare che vi fosse una relazione profonda, probabilmente dimenticata, nascosta, ma che giustificava questo binomio. Va considerato che «(...) quando due parole sono ravvicinate con frequenza, qualche ragione reale del ravvicinamento suol esserci, quasi sempre; quando una quistione risorge con insistenza, per quanto sia posta male e confusamente, bisogna guardarsi dalle risposte facili che sembran troncare il nodo: in fondo alla quistione mal posta, ci deve essere una difficoltà da scovrire, ch'è il vero motivo inconscio di essa» (Croce, 2017, p.15). A volte nell'etimologia ermetica delle parole sono racchiusi quei legami profondi che hanno portato Heidegger ad affermare che il

linguaggio è la casa dell'essere. In un'atmosfera laica e non idealista, trovo perfetta la considerazione di

Emerson secondo cui «(...) il linguaggio è l’archivio della storia, e, se dobbiamo dirla tutta, una sorta di tomba delle muse. Eppure, sebbene l’origine della maggior parte delle nostre parole sia dimenticata, ogni parola è stata in origine un lampo di genio ed entrò nel linguaggio corrente perché in quel momento rappresentava il mondo del primo uomo capace di parlare e del primo uomo capace di udire. L’etimologo scopre che anche la parola più spenta, una volta è stata una immagine brillante. Il linguaggio è poesia fossile. Come la pietra calcarea del continente consiste di infinite masse di 71 M. Heidegger, Brief über den Humanismus, [Lettera sull’umanesimo] in Platons Lehre von der Wahrheit, [La dottrina di Platone

conchiglie di minuti animali, così il linguaggio è fatto di immagini, o tropi, che ora, nel loro uso secondario, hanno da tempo cessato di ricordarci la loro origine poetica. Ma il poeta nomina una cosa perché la vede, o arriva ad essa un passo più vicino che ogni altro. Questa espressione, il nominare, non è arte, ma una seconda natura, cresciuta senza principio, come una foglia senza albero» (Emerson, 2013, p. 28). La parola scritta d'altra parte nasce dai pittogrammi e dagli ideogrammi e, come ho avuto ampiamente modo di esprimere in forma poetica nella raccolta Bianchi Girari (2011) si può rintracciare una parziale scissione tra arti visive e scrittura nel Rinascimento, quando la figura del copista si distingue dal miniaturista-decoratore, la stessa epoca in cui il paesaggio appare prima come sfondo di figure (l'influenza fiamminga fu determinante) e poi si emancipa e diviene soggetto di opere l'arte. Questa complessa parola pare (non c'è un'assoluta certezza) che sia apparsa per la prima volta in Italia nella lettera d'accompagnamento a uno dei due dipinti inviati da Tiziano Vecellio nel 1552 a Filippo d'Asburgo, il futuro Imperatore Filippo II72 (Roger, 2007, p. 9). Qualora fosse così, potremmo considerare la parola 'paesaggio' come un frutto maturato e còlto dall'albero dell'arte. Come vedremo in seguito il duplice significato di questa parola, nell'indicare contemporaneamente il paesaggio in sé e la sua rappresentazione, è primigenio. Farinelli ci ricorda che già nel Deutsches Wörterbuch dei fratelli Grimm (in 33 volumi finito nel 1960) la parola paesaggio ha il duplice significato: il paesaggio tout court e la sua rappresentazione pittorica. Se è vero dunque che sussiste un legame primigenio profondissimo tra arte e paesaggio è lecito ipotizzare che non si tratti di una mera questione verbale, ma che vi siano state, dal principio, interazioni tra l'attività artistica e il paesaggio fisico (Farinelli, 1992). Va evidenziato che il termine «paesaggio» è un termine acquisito nella cultura occidentale alla fine del XV secolo dunque di recente come fa notare Piero Camporesi in Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano; nel primo capitolo, dal paese al paesaggio, cita il pensiero di Eugenio Turri per cui l'acquisizione culturale del

paesaggio è stata una gestazione lunga e faticosa. A suo avviso la prima attestazione verbale anche in

olandese, landshap, designava opere pittoriche. Per precisione va segnalato che, secondo Paolo D'Angelo, «la carriera dei termini che hanno la radice land- dove le parole dalle quali sono derivati i moderni Landscape e Landshaft esistevano già prima della pittura di paesaggio, ma con il senso di «estensione reale di territorio abitato». Anche per D'Angelo a partire dagli ultimi decenni del XV secolo si produce una differenziazione di significati (ciò vale per il Tedesco e il Nederlandese: l'inglese landscape e il suo antecedente landskip sono attestati molto più tardi): la parola comincia a specializzarsi e ad indicare la pittura di paesaggio come genere e i dipinti di paesaggio. In questa accezione troviamo il termine tedesco già nel 1484. In Italia questo termine arriva poco dopo attraverso la mediazione del francese «paysage» usato da Jean Molinet nel 1493 e nel dizionario di Robert Estienne (1549).

72 La lettera è riportata in Claudas A. Documents Concernat Titien conservés aux archives de Simancas, in Mélanges de la Casa

Tornando alla relazione tra arte e paesaggio, dobbiamo constatare che è intrinsecamente complessa, perché, paesaggio, come ci ricorda Farinelli, «serve a designare intenzionalmente la cosa e allo stesso tempo l’immagine della cosa. Vale a dire una parola che esprime insieme il significato e il significante, e in maniera tale da non poter distinguere l’uno dall’altro». (Farinelli, 1992, p. 209).

L'arte contemporanea inizia ad essere d'ausilio. L'opera One and Three Plants, 1965 (carta, fotografia e cactus) che ho avuto modo di vedere il 14 agosto 2016 presso il Museu Coleção Berardo (Centro Culturale Belém) e One and Three Chairs del 1965 in cui l'artista Joseph Kosuth mostra contemporaneamente una sedia nella sua forma sensibile, fisica e concreta, morphé (μορφή); la mostra per come si presenta in una sua rappresentazione fotografica, skhēma (σχήμα) e nella sua forma intellegibile èidos (είδος) mostrando tutti i significati del termine 'sedia' estratti da un vocabolario. Potremmo dunque per assurdo immaginare un'istallazione simile, una sorta di mise en abyme nel paesaggio, che tautologicamente lo rappresenti e ne disveli i significati: differirebbe dalla sedia di Kosuth per il fatto che skhēma e èidos possono stare 'dentro' morphé.

Ma questa osservazione sul paesaggio e sulla realtà tutta, non è esaustiva perché, come mettono in evidenza le arti stesse, e come sostenuto da Alexander Gottlieb Baumgarten, esiste una veritas aesthetica che comprende tutta la sfera alogica del pensiero che è contemporanea e complementare alla veritas

logica.

Per rimanere nell'esempio, è da considerare che l'esperienza, il sedersi, non è solo utile, ma può essa stessa avere una qualità estetica che apprezziamo per esempio nella sensazione piacevole che proviamo dopo aver camminato molto o dopo aver svolto un'attività che ci ha obbligati a stare in piedi a lungo o, per converso, nella scomodità avvertita dopo una sosta troppo duratura.

Il paesaggio è sia il risultato materiale delle interazioni tra elementi esclusivamente naturali, di quelli tra l'uomo e l'ambiente che abita, che la percezione dei fenomeni: dei processi e delle loro caratteristiche (Rohe, 2013, p. 401). Va considerato inoltre che nella parola 'paesaggio' si trovano compresse tutte quelle soggettività disciplinari, topiche, culturali e gli usi comuni, che tornano e si ritorcono sul paesaggio in sé, costruendo un'entità poliedrica, a volte gassosa.

5.2 sfumature di paesaggio. Alcune parole hanno un grado di astrazione, hanno un carattere che

potremmo definire proteiforme: rigenerano in continuazione il proprio significato a seconda della cultura che lo produce in un determinato hic et nunc.

«Per ritrovare il possesso di noi stessi dovremmo senz’altro incominciare col riprendere possesso del paesaggio e ristrutturarlo nel suo insieme» (Mumford in Choay, 2000): appaiono queste, parole

profetiche, ma va considerato che Mumford intendeva nominare con il termine paesaggio lo spazio aperto

libero, libero o liberato dalle invasive griglie urbane, e destinato a organizzare il tempo (anch’esso) libero

da spendere in zone con un prevalente stato naturale o agrario. Perciò, se mezzo secolo fa veniva già superata l’idea che il progetto territoriale dovesse avere come oggetto la sola città abitata, il paesaggio era una porzione sì ampia, ma limitata ad un territorio limitrofo, geograficamente o in senso lato, all'urbano, conservando, a mio avviso, in qualche interstizio anche il retaggio di una sorta di dicotomia tra natura ed artificio.

5.3 il ruolo ontologico della Convenzione Europea del Paesaggio. La Convenzione Europea del

Paesaggio (Consiglio d'Europa 2000) viene presa in questo testo come un punto di svolta non solo dal punto di vista normativo, ma anche come evento culturale, un momento chiave per comprendere la direzione innovativa proposta a livello europeo in materia di pianificazione del territorio. La stipula di una convenzione dimostra la necessità di definire - all’interno della cultura occidentale europea - cosa si intenda oggi per paesaggio. Infatti in Europa sono presenti da un lato parole neolatine che derivano da

paese dall'altro parole con la radice 'land' come landshap, landscape e Landshaft. Credo sia interessante

supporre una necessità gnoseologica della Convenzione Europea del Paesaggio, che non va considerata solo un documento di accordo tra i Paesi del Consiglio d'Europa, ma esprime anche la necessità - esistenziale - per la cultura occidentale - di definire ciò che può essere inteso, hic et nunc, per paesaggio, di vivere il presente storicamente, secondo quel «telos che è innato nell'umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un'umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così», e cioè «su quell'entelechia che è propria dell'umanità come tale» (E. Husserl, La crisi delle scienze europee)» (Argan, 1965, p. 10:12).

La definizione contenuta nella Convenzione sarà ritenuta qui un punto di partenza ai fini della ricerca, tenendo presente che il Codice per i Beni Culturali e Paesaggistici, il quale regola la pianificazione paesaggistica sul territorio italiano, è stato redatto cercando di accogliere le innovazioni proposte dal Codice. Nella traduzione italiana della Convenzione Europea del Paesaggio curata dal'Ufficio Centrale per i Beni Ambientali e Paesaggistici (Guido e Sandroni, 2000) il paesaggio «(...) designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fenomeni naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Traducendo letteralmente la versione ufficiale inglese della Convenzione Europea, il paesaggio «significa un'area, così come percepita dalle persone, il cui carattere è il risultato delle azioni e interazioni tra fattori naturali e/o umani» (Consiglio d'Europa 2000). Sebbene questo documento sia stato redatto a Firenze, dalla traduzione in italiano del testo ufficiale (in inglese e francese), traspare una minore inclusività rispetto al testo originale.

Possiamo accorgerci dal confronto tra le due traduzioni di alcune nuance che distinguono la tradizione italiana del paesaggio che non combacia perfettamente con quella anglosassone, ma che trova affinità nella tradizione francese: la versione italiana della Convenzione è stata probabilmente tradotta dal testo francese, altrettanto ufficiale, che presenta già una riduzione di ampiezza del vocabolo inglese 'area' tradotto in italiano con 'determinata parte di territorio' e del termine 'people' tradotto con 'popolazioni'. Un'ultima osservazione: è da notare come nella versione inglese 'action and interaction' sono sintatticamente prossimi rispetto alla versione italiana che invece discosta il secondo vocabolo portandolo al termine della frase e lo traduce con 'interrelazioni'.

Credo risulti poco utile ragionare solo in termini pragmatici e razionalistici e che sia ipotizzabile che la Convenzione Europea del Paesaggio (2000) sia non solo semplicisticamente un documento di accordo tra i Paesi del Consiglio d'Europa, ma un artefatto che esprime la necessità esistenziale, da parte della civiltà occidentale, di definire e condividere ciò che può essere inteso, hic et nunc, per paesaggio. Solo dopo questo passo è possibile formulare delle linee comuni da seguire per evitare una sottrazione di valore all'eredità culturale e ambientale che riceviamo e che consegneremo alle generazioni future. È in altre parole un artefatto in cui risiede una necessità sicuramente gnoseologica, ma probabilmente anche ontologico-esistenziale, come espresso dal poeta Andrea Zanzotto, legato in modo viscerale al 'paesaggio', quando afferma che quest'ultimo è assimilabile al respiro stesso della presenza della psiche che imploderebbe in se stessa se non avesse questo riscontro spaziale. Ed ecco che gli aspetti ambientali (anche i più oggettivi-quantitativi) si legano in una vera e propria fusione con quelli culturali e soggettivi: si confondono nell'individuo per estendersi nel paesaggio in un processo di dilatazione dell'individuo nello spazio e viceversa.

Va considerato, cercando di non eccedere in questioni filologiche che non pertengono a questa ricerca, che una convenzione, per risultare efficace, dovrebbe ambire a rilevare le differenze culturali e a ridefinire, attraverso un processo non privo di ostacoli, di compromessi e approssimazioni faticose, una definizione e un approccio comune ad una certa questione. Nonostante la Convenzione Europea del Paesaggio (ELC) sia un documento chiave della contemporaneità, a mio avviso l'obiettivo di disambiguazione non è stato raggiunto con pienezza proprio a causa delle due versioni ufficiali e, di conseguenza, la pianificazione paesaggistica presenta tuttora nei diversi Paesi europei (dopo diciassette anni dalla Convenzione) alcune differenze talvolta profonde che rendono difficile se non impossibile un'analisi comparativa internazionale.